Donna e uomo, una reciprocità nella differenza

GesùDonneA cura di P. Pietro Messa

Sarà una fortuita circostanza, ma a ridosso della Festa della donna mi chiedono un giudizio sul libro Women in Science (Routledge 2007), di Ruth Watts, professore emerito di storia dell’educazione a Birmingham. Appartiene al filone cosiddetto della storia sociale e culturale (social and cultural history). Sostiene una tesi conosciuta: a ragione del tardivo riconoscimento della donna al diritto all’educazione, la storia della scienza è priva di nomi femminili, salvo poche eccezioni alla Madame Curie.
Eppure la casistica rosa nella storia della scienza è ampia: un esempio su tutti, la ricca sorella dello scienziato Robert Boyle, Katherine Jones (1615-xxx), della quale si dice esercitasse tra i fornelli domestici la sua propensione sperimentale a elaborare famose ricette chimiche e mediche. Periodi duri non solo per le donne che desideravano studiare, ma anche per la chimica che cercava la strada di distinguersi anche dall’alchimia. Scorro le pagine e trovo le lotte delle signore Margaret Cavendish e Viscountness Conway contro il dualismo cartesiano per riscattare l’unità del corpo con la mente e dar diritto cittadinanza al loro femminile nel fare scienza. Perché bisogna provare a dare dignità a uno stile femminile, e non costringere le donne a dover parlare come gli uomini per sperare di ottenere qualcosa. Era questione di genere, dice la Watts. Non mi dilungo oltre, poiché ma mi limito a dire che, su questo fronte, è difficile dar torto alla Watts, perché il portato culturale di secoli e secoli e le possibilità reali che le donne non hanno avuto pesa ampiamente sulla storia della scienza (ma non solo). È vero però che il pensiero della differenza di genere non è mai stato oggetto di riflessione filosofica. Tanto più quando i gender-studies hanno iniziato a spazzare via ogni differenza. Ma – e anche questo si sa – pensare la differenza è una grandissima fatica, dal tempo di Parmenide (di cui si dice) voleva ridurre il diverso all’identico.

Da una parte, dunque, stimoli seri e dati abbondanti dalla letteratura à la Watts. Dall’altra il dubbio se – di nuovo! – la “donna” resta con ben poco in mano. Per avere i suoi spazi deve farsi come l’uomo. Oppure – come alcune correnti di pensiero sembrerebbero volere? – facciamo in modo che uomo e donna non siano diversi e che le differenze sono relative solo al dato storico e culturale. Tertium non datur?

Ecco allora che prendo in mano un testo che ho appena letto. Stavolta è di un’amica, una teologa: suor Roberta Vinerba, Nel grembo e nel cielo. La donna come spazio, deserto, speranza (Paoline 2014). Condivido subito con l’autrice un dato biografico: lei scrive che mai avrebbe immaginato di scrivere un libro sulla donna. E io che mai lo avrei letto. È così, le cose a volte si mettono in maniera strana e un occhio a questa tematica tocca darlo anche a me, che per mestiere frequento gli ambienti a maggioranza maschile della storia e filosofia della scienza.

Letto il libro, emozionante nelle sezioni più autobiografiche e vigoroso nell’annunciare il ruolo di Maria madre di Gesù e di ognuno di noi, colgo alcuni spunti, che mi aprono delle prospettive.

Dapprima quelle dello spazio: la donna è spazio, come grembo e come capacità di accoglienza. L’icona della maternità attraversa tutte le pagine, al punto di divenire prototipo di femminilità, per ogni donna sposata e non sposata. Al punto che Roberta Vinerba non si trattiene dal dire che anche nel pensare e nel catechizzare occorre dare spazio all’affettività, che dà quella coloritura – ben più che banalmente emotiva – capace di trasmettere empaticamente concetti e vita. E allora mi viene da pensare all’idea di spazio e a come la scienza dell’ultimo secolo ce l’ha fatta ripensare. Non più uno spazio statico, un contenitore che da vuoto si fa pieno, quasi come non sia importante ciò di cui è fatto lo spazio in funzione di ciò che deve accogliere. Un esempio: sappiamo tutti che una scatola di cartone non può contenere acqua. Questo spazio “assoluto” non esiste, non c’è. Come d’altronde una donna così non può esistere, né sarebbe giusto che esistesse. E pensando a Roberta Vinerba proprio non ci immaginiamo il suo “spazio femminile” come statico: tutt’altro, ne conosciamo il vigore e l’inventiva! Perché lo spazio è dinamicità al punto che Einstein ci ha insegnato a parlare di spazio-tempo, e non di tempo e di spazio. Al punto che ha un ruolo attivo nella generazione delle forme e in morfogenesi (sia biologica che geologica) anche la geometria ha un suo ruolo “fisico”. In questo spazio così attivo trovo rappresentate le donne di oggi: che eroicamente corrono, sperticandosi in imprese eroiche nel mettere insieme mille cose, dalle più grandi alle più piccole, proprio come l'infinito che è infinitamente grande e anche infinitamente piccolo. Tutto è prezioso nella vita di una donna e nulla di perde o disperde nel mistero della dinamicità della vita. Fortunatamente aiutate – almeno quelle sposate – da uomini che un certo cammino lo hanno fatto. Uomini che aiutano, che sono padri, che sostengano e comprendono, che sanno anche dare equilibrio e senso del limite. Fortunatamente uomini che sono cresciuti e non sono più quei mariti-padroni di antica memoria. Come è stato possibile? Sicuramente perché qualche donna ha avuto il coraggio di recriminare qualcosa. Ha pure guadagnato qualcosa nelle strutture sociali, che però stentano ancora a dare reale parità di opportunità, considerando le donne come madri e gli uomini come padri. Da questo punto di vista – non ce lo nascondiamo – c’è ancora tanto da fare e ci sono da abbattere molte pigrizie culturali.

Ma, soprattutto, tutto questo è stato possibile perché siamo in Occidente, culla della cristianità e luogo dove il Vangelo ha più inciso sulla storia. Perché viviamo in un mondo dalle radici cristiane noi donne oggi possiamo far molto di quello che fanno anche agli uomini: perché alcuni uomini hanno deciso di amare quelle donne, più belle perché più libere di esprimere capacità e talenti. Perché la questione femminile non sia solo questione di rivendicazione, il Vangelo deve svolgere pienamente il suo ruolo. Ricordando che è nell’amore cristiano l’immagine di un rapporto sano tra maschile e femminile, al punto che i coniugi solo in esso possono trovare l’ispirazione più fondata per farsi complici e compagni, aiutarsi e sostenersi. È una scommessa sulla comunione tra maschile e femminile, perché è impossibile privarsi di uno dei due poli. Questa comunione cambia il mondo e può liberare tutta la bella dinamicità femminile. Questo spazio di comunione e di presenza femminile è però fragile e delicato, e va aiutato e difeso. Socialmente e culturalmente. I primi a dover difendere questo spazio sono gli uomini, che colgono nel rapporto con le donne un’opportunità di crescita e maturazione. Così danno loro sostegno, perché nella comunione con loro trovano più bellezza che nel relegarle chissà dove. Non c’è emancipazione della donna né crescita dell'uomo se non all’interno di una dinamica di comunione: è l’autentico messaggio evangelico che rende liberi di passare dalla rivendicazione alla comunione e l’immagine del matrimonio cristiano tra uomo e donna diviene così profezia, per la società e per la Chiesa (“mentre nella relazione Cristo-Chiesa la sottomissione è solo della Chiesa, nella relazione marito-moglie la «sottomissione» non è unilaterale, bensì reciproca”, Mulieris Dignitatem 25).

Vengo così al secondo aspetto che mi ha colpito del libro: qua e là Vinerba usa la parola reciprocità. Non complementarità, che è statica e dà alle donne un ruolo, a un uomo un altro. E tutto si ferma in un gioco di ruoli e di caratterizzazioni che né fanno bene alla realtà né afferrano la vita concreta di una coppia uomo-donna e di ogni comunità di persone dove ci sono uomini e donne, che, nel corso del tempo, si trovano spesso a interagire e venirsi incontro in tanti modi.

La reciprocità è quella dinamicità dello spazio in cui la forma dà corpo alla materia, in cui tutto si fa relazione e l’uno diventa per l’altro scambio e ricchezza. La reciprocità ha nella libertà il suo presupposto, poiché sia l'uomo che la donna possano sperimentarsi nel mondo e per il mondo. Siamo di nuovo al gender, allora, e tutto è solo scambio e relazione – ovvero, situazioni, storia, cultura? Certo che no. Ogni forma deve riferirsi a una materia, insegnava S. Tommaso commentando Aristotele. Dunque non solo relazione, ma una relazione ontologicamente ordinata, dove le differenze vengono rispettate (e non inventate o presupposte!), dove le differenze non sono motivo di esclusione ma di inclusione, per rendere il mondo più ricco. Tertium datur. Così uomo e donna, nella loro reciprocità, imparano a fare i conti con la loro materia (la loro biologia) e a integrarla in una “forma”: imparano cioè a essere persone, e sessuate, e a portare l’essere uomo e donna in tutte le cose che fanno. Anche quando fanno le stesse cose, uomo e donna imparano a cogliersi come differenti e reciproci. A volte a fatica, perché a essere uomini e donne si impara e non sempre è immediato; altre volte, invece, perché fare spazio alla differenza è fatica... Ma ogni grande opera d’arte è nata anche da esercizio e fatica, perché solo dalla fatica nasce la vera bellezza. Che è sempre dinamica e reciproca.



Flavia Marcacci

Facoltà di Filosofia

Pontificia Università Lateranense