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San Giovanni XXIII: Patrono dell’esercito italiano e difensore della pace

Giovanni XXIIICon decreto del 17 giugno 2017, la Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti, in virtù delle facoltà concesse da Papa Francesco, ha dichiarato san Giovanni XXIII «Patrono presso Dio dell’Esercito italiano». A motivazione si cita il suo zelo, come cappellano militare, nel promuovere le virtù cristiane tra i soldati, il luminoso esempio di tutta la sua vita e il suo costante impegno in favore della pace. Il 12 settembre a Roma, nel Palazzo dell’esercito in via XX Settembre, l’ordinario militare per l’Italia, arcivescovo Santo Marcianò, consegnerà la Bolla al capo di stato maggiore, generale Danilo Errico.



Nell’occasione verrà benedetto un busto di Papa Roncalli e inaugurata una mostra intitolata: «“Io amo l’Italia”. San Giovanni XXIII, uomo di pace», curata dalla fondazione Papa Giovanni XXIII di Bergamo e dall’ordinariato militare per l’Italia. Una serie di gigantografie, corredate da brevi testi, illustra le varie tappe della vita militare di Angelo Giuseppe Roncalli, dal periodo del servizio di leva (1901-1902) agli anni della prima guerra mondiale, durante la quale egli prestò la sua opera come sergente di sanità (1915-1916) e cappellano militare (1916-1918).

La mostra richiama anche le numerose visite di monsignor Roncalli ai soldati e ai prigionieri di guerra, quando era delegato apostolico in Turchia e Grecia, e da nunzio apostolico a Parigi. Per lui l’ambiente militare non è stato soltanto un luogo dove ha esercitato per qualche tempo il ministero sacerdotale, ma una vera e propria “scuola” nella quale ha appreso preziose lezioni di fede e di umanità. Fin da quando si arruola nel 73° reggimento di fanteria del regio esercito italiano, presso la caserma Umberto i di Bergamo, insieme alla dura disciplina militare, impara anche a conoscere in profondità l’anima dei giovani commilitoni e a ricercare le strade per avvicinarli alla vita cristiana.

Da cappellano non si impalca a maestro ma si affianca ai giovani soldati come un fratello maggiore, pronto ad accogliere la testimonianza virtuosa di molti di loro. Per esempio, l’8 marzo 1917 annota: «Che caro giovane questo Orazi Domenico che qui presso la camera mia si sta dibattendo nella crisi violenta della broncopolmonite! Caro Menicuccio, voglio pregare tanto il Signore perché ti lasci vivo per lunghi anni. Il mondo ha bisogno della permanenza di queste anime elette e semplici che sono tutto un profumar di fede, di purezza, di santa e fresca poesia cristiana; e anche noi sacerdoti ne abbiamo bisogno per sentirci edificati alla virtù, e allo zelo». E un mese dopo aggiunge: «Il mio caro soldato Domenico Orazi è morto oggi. Finché l’Italia ha di questi figlioli che salgono al cielo non può dubitare della benedizione di Dio» (8 aprile 1917).

Roncalli non si è fatto prete «per fare quattrini, per trovare comodità, onori, piaceri ma solo per fare del bene in qualunque modo alla povera gente» (lettera ai genitori, 16 febbraio 1901). Altrettanto limpido è il suo stile tra i suoi soldati: non pretende privilegi, non rincorre sogni di gloria né facili guadagni. Il suo servizio è disinteressato, motivato soltanto dalla carità pastorale: «Questi cari giovani soldati non si può non amarli quando si sono avvicinati una volta. Per me confesso che vorrei potermi per loro sacrificare anche di più di quello che faccio» (lettera al padre, 23 giugno 1917).

Egli detesta la guerra, di cui conosce personalmente la crudezza, riflessa sui volti e nei corpi martoriati dei soldati che giungono agli ospedali militari dove egli presta la sua opera senza darsi un attimo di tregua. Prega e spera che giunga la fine di quella sciagura, frutto dell’egoismo umano. Ne scrive con accenti accorati al fratello Zaverio, lui pure impegnato al fronte: «Ho tanto e tanto lavoro che talora pare mi manchi il respiro. Confido sempre che la guerra debba finire presto. Certo a me non occorre venire al fronte per comprendere che cosa sente, che cosa desidera e che cosa soffre il soldato d’Italia» (lettera del 16 giugno 1917).

In qualità di cappellano avvicina giovani di provenienza ed estrazione sociale diverse; molti di loro sono lontani dalla pratica religiosa. Egli sa trasformare l’incontro personale e quotidiano con loro in occasione di evangelizzazione. Aiuta i giovani soldati ad affrontare interrogativi ardui, questioni pungenti come il senso della sofferenza e della morte. Dal loro esempio riceve moltissimo: «Oh! le lunghe notti vigilate fra i giacigli dei cari e valorosi soldati ad accogliere le loro confessioni e a disporli a ricevere sul mattino il Pane dei forti! Umili sacerdoti, tante volte ci siamo chinati ad ascoltare, sul petto ansante dei nostri giovani fratelli che morivano, il respiro affannoso della patria durante la sua passione e la sua agonia. Morti, semplici e sante, di tanti poveri figli del nostro popolo, modesti lavoratori dei campi, che si spegnevano con il Sacramento di Gesù sul petto e col nome di Maria sulle labbra, non bestemmiando al duro destino, ma lieti di offrire la loro fiorente giovinezza in sacrificio a Dio per i fratelli» (Discorso al vi Congresso eucaristico nazionale, 9 settembre 1920).

Proclamare san Giovanni xxiii patrono dell’esercito italiano significa ribadire il compito precipuo di questa istituzione in uno stato democratico: difendere il bene prezioso della pace imponendo la forza della legge. Lo ricordano le nobili parole della Costituzione: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali» (art. 11). Affermazioni che sembrano l’eco di un discorso — ancora inedito — pronunciato dal cappellano militare Roncalli all’indomani della fine della prima guerra mondiale: «Ciò che vale veramente e soprattutto non è la forza delle spade e dei cannoni, ma la forza della giustizia davanti al cielo e alla terra, la forza del diritto e insieme della umana e divina fraternità degli uomini, il senso dell’onore. In queste cose sta il progresso verace degli individui e delle nazioni» (omelia per il Te Deum, 17 novembre 1918, chiesa di Santo Spirito, Bergamo).

Per don Roncalli «l’amor di patria non è altro che l’amore del prossimo, e questo si confonde con l’amore di Dio» (lettera al fratello Zaverio, 6 maggio 1917). A una condizione però: bandire dall’amor patrio quella retorica ipocrita con la quale spesso si farciscono i discorsi ufficiali, e tradurre le parole in generosa e fattiva disponibilità al sacrificio per il bene comune: «Il pensiero va alla patria, il cui amore la Religione di Cristo ci ha insegnato in questi durissimi anni a collocare nel suo debito posto di onore e di sacrificio, ad elevare a titolo di merito soprannaturale, ad esprimere sempre con opere sincere, più e meglio che con la retorica delle frasi sonanti ma vane» (omelia per il Te Deum).

Questo patronato di san Giovanni xxiii costituisce anche una provvidenziale occasione per riflettere in modo ponderato sul significato e l’opportunità di una presenza, quella dei cappellani militari, all’interno di un’istituzione qual è l’esercito. In un panegirico per la festa di sant’Ignazio di Loyola, Roncalli propone a se stesso e ai confratelli cappellani il santo basco — che prima di fondare i Gesuiti era stato soldato — come modello di guida spirituale, capace di offrire ai compagni motivazioni forti per cui valga la pena vivere e morire: «Il vederlo così riesce di dolce conforto per me e per i miei confratelli d’Italia che a decine di migliaia vediamo nelle trincee o fra le corsie degli ospedali, in faccia al nemico o presso chi soffre o presso chi muore il nostro servizio alla patria, e ci sforziamo di far scorgere ai nostri fratelli che combattono, che soffrono, che muoiono l’ideale più alto del regno di Dio» (31 luglio 1916, chiesa di San Giorgio, Bergamo).

Nell’udienza dell’11 giugno 1959, concessa all’Associazione nazionale dei cappellani militari in congedo, ricordando la propria esperienza, Papa Roncalli dichiara che i cappellani militari sono «gli uomini della pace, che con la loro sola presenza portano serenità negli animi». Non si tratta di benedire armi, né di fomentare sentimenti bellicosi, al contrario. Con la sua presenza, il cappellano è chiamato a raccogliere i gemiti di chi soffre, a promuovere una forte volontà di pace, a far crescere persone che, animate da fede solida e carità sincera, combattano ogni forma di prepotenza e di ingiustizia.

di Ezio Bolis

© Osservatore Romano - 11-12 settembre 2017