Rassegna stampa formazione e catechesi

Il servizio dell’ospitalità

Abramo quercedi MICHEL VAN PARYS

L’ospitalità è una virtù da praticare, ma questo convegno ha dimostrato che essa è come un sacramento del Cristo risorto, che si rende presente ( par-ousía ). L’apparizione ai due pellegrini di Emmaus ne è una rivelazione discreta ed eclatante.
San Gregorio il grande la interpreta nella XXIII delle Omelie sui Vangeli nel 591: «Era necessario che fossero provati per vedere se coloro che non lo amavano ancora come Dio potessero almeno amarlo come straniero. Non potevano essere stranieri alla carità, poiché la Verità camminava con loro, ed essi l’invitavano a essere loro ospite come si fa per uno straniero. Perché diciamo “l’invitavano” mentre sta scritto “lo pregavano con insistenza”? Da questo esempio si può concludere che non si deve soltanto invitare gli stranieri come ospiti, ma li si deve pregare [...]. Il Signore non solo è stato riconosciuto mentre parlava, ma si è degnato di farsi riconoscere durante il pasto offerto. Fratelli amatissimi, abbiate il desiderio di offrire l’ospitalità, amate la pratica della carità». L’insistenza, quasi la costrizione, la diaconia dell’ospitalità, si muta in visita eucaristica del Signore risorto. Non siamo forse invitati ad assumere insieme la diaconia dell’ospitalità, sempre restando in ascolto delle parole delle Scritture, al fine di affrettare il giorno del calice condiviso? Il patriarca Teodoro II di Alessandria ci ha parlato dell’Africa, ponendo la domanda dell’ospitalità che oltrepassa l’accoglienza personale. Che cosa possiamo fare, che cosa dobbiamo fare, in quanto Chiese, per mettere in opera delle strutture di ospitalità in grado di accogliere un afflusso in massa di rifugiati? Come poterlo fare in modo responsabile? «Papa Francesco, il patriarca Bartolomeo e l’arcivescovo Ieronymos, nella loro dichiarazione congiunta firmata a Lesbo il 16 aprile 2016, hanno dimostrato che la vera responsabilità non è di limitare l’ospitalità, ma al contrario di estenderla, e al contempo rispondere alle cause stesse che portano uomini e donne a lasciare le loro case per cercare migliori condizioni di vita. In un modo simile, Papa Francesco e il patriarca Cirillo, nella loro dichiarazione congiunta del 12 febbraio 2016, chiamavano a risolvere soprattutto le cause delle migrazioni, siano i diversi conflitti o l’ineguale distribuzione delle ricchezze» (Messaggio del cardinale Kurt Koch, presidente del Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani). Ritorniamo tuttavia all’ospitalità personale o a quella dei gruppi in numero ristretto. L’ospitalità offerta e ricevuta fa parte integrante del dialogo ecumenico cristiano e del dialogo interreligioso. Offrire l’ospitalità allo straniero che giunge improvvisamente sovverte il nostro mondo umano e religioso. Essa crea questa apertura che diventa un apprendistato di ciò che è altro e dell’altro, e dunque ci decentra e ci destabilizza. Imparo a vedermi e a vedere il mio piccolo mondo con gli occhi dell’a l t ro . Convinzioni e sicurezze si incrinano o si frantumano. Offrire l’ospitalità è un rischio, ma anche ricevere l’ospitalità: ricevere l’ospitalità in un paese e in una cultura che non sono miei richiede la discrezione, o il discernimento, di colui che non è presso di sé, potenzialmente non compreso e umiliato, come Abramo (i patriarchi e il popolo) nella terra promessa («Mio padre era un arameo errante»). Questo crea una relazione di dipendenza (la vera povertà), dove io dipendo dall’umanità o dall’inumanità dell’altro, se si fa o non si fa mio p ro s s i m o . La xenitéia di alcuni monaci raccomandata dai grandi santi monastici, come Giovanni Climaco, ha occupato gran parte della nostra attenzione. Il monaco si fa straniero alla mondanità del mondo per camminare sulle tracce di Abramo, di Mosè, del Signore Gesù. L’allontanamento fisico e psicologico dalla propria patria, dalla famiglia e dalla propria cultura sono le modalità concrete della xenitéia monastica. Essa rende il cuore del monaco attento allo straniero, all’ospite che, per necessità, si trova in quella situazione di povertà umana che egli stesso ha scelto per amore del Cristo. La frase del tuo palio che noi abbiamo ascoltato più volte in questi giorni («Dammi quello straniero») diventa allora la preghiera del monaco che vive come straniero: «Che io possa accoglierti, Signore, accogliendo lo straniero». La xenitéia non è tuttavia propria soltanto dei monaci. La Russia ortodossa ha conosciuto, e forse conosce ancora, dei pellegrini ( s t ra n n i k i ) che hanno scelto di vivere la dura ascesi fisica rituale del pellegrinaggio come un abbandono totale alla provvidenza di Dio e all’ospitalità dei fedeli. I cristiani del medio oriente sono diventati progressivamente, in molti luoghi, degli ospiti nella loro patria e nelle terre dei loro avi, dei protetti: sono trattati da stranieri nella loro stessa casa. Alcune comunità monastiche sono state e alcune sono ancora delle comunità naturali e multietniche. I discepoli di san Paisij Veličkovskij a Neamţ alla fine del XVIII secolo sono l’esempio di una convivialità sorprendente. La comunità di San Paisij, lo si deve ricordare, è stata preceduta nella storia da quelle di San Saba vicino a Gerusalemme e di Santa Caterina del Sinai. La convivialità culturale è un lungo apprendistato. Essa insegna a vivere insieme aprendo il cuore e l’orecchio giorno dopo giorno a un fratello o a una sorella che vengono da un’altra cultura. Nessuno è ancora “a casa sua”. Questa convivialità è un apprendistato concreto dell’ospitalità. Non è forse vero che, sempre più, la grande diversità degli ospiti che giungono nei nostri monasteri ci invita a un ascolto più affinato, a un’attenzione alla persona, alle sue sofferenze, a onorare la differenza culturale? In questo senso, le comunità monastiche multiculturali diventano dei segni di speranza. Vivere insieme, cioè la convivialità, è un’utopia realista. Non sono soltanto i paesi ricchi a essere sotto pressione per l’afflusso dei profughi. Anche le comunità monastiche fanno fatica ad accogliere il gran numero dei pellegrini, degli ospiti e di quello che è stato definito turismo spirituale. Il discernimento necessario dell’ospitalità è di tutti i tempi, dai padri del deserto, passando per san Benedetto fino a Paisij Veličkovskij. E tuttavia rimane vero che, nella fede, è sempre il Cristo in persona che è ricevuto ( Regola di san Benedetto, 53), e quando un ospite si annuncia, secondo la Regola , il portiere deve rispondere « Deo g ra t i a s » cioè «Rendiamo grazie a Dio», oppure « Benedic » cioè «Benedetto». E quest’ultima espressione è ancora più forte: è l’ospite che benedice il monaco e non il monaco che benedice l’ospite ( Regola di san Benedetto, 66). I monaci ricevono nell’ospitalità più di quello che danno, secondo questa struttura profonda che noi abbiamo scoperto in Abramo. Il nostro convegno è stato particolarmente sensibile, e non posso che augurarmi che la questione sia per tutti noi una spina nella carne, alla questione dell’ospitalità eucaristica. Il problema è stato posto innanzitutto dall’invito pressante e opportuno a ricollocare l’ecclesiologia eucaristica all’interno di un’ecclesiologia battesimale. Un’ecclesiologia fondata sul dono e sui tre sacramenti dell’iniziazione cristiana può e deve aiutare i cristiani a rispondere più correttamente all’ospitalità eucaristica, che è sempre offerta dal Signore Cristo stesso. È lui l’ospite che riceve. Abbiamo ascoltato un appello, un grido del cuore, affinché, sotto certe condizioni da discernere da parte dei pastori, i coniugi nei matrimoni interconfessionali possano ricevere insieme, durante la stessa divina liturgia, la santa comunione. Possiamo forse separare, alla tavola del Signore, ciò che il Signore ha unito indissolubilmente? Dal messaggio che il Papa ci ha inviato possiamo ritenere una parola che è un programma: ospitalità del cuore, che potremmo tradurre anche come un cuore ospitale: un Dio ospitale, il Cristo ospitale, delle comunità cristiane ospitali. Come dilatare lo spazio del nostro cuore (secondo l’espressione di san Benedetto nel prologo della sua Regola , che riprende le parole del salmo 118, 32, dilatato corde )? Come Abramo, riconoscendo per fede, negli ospiti che vengono a visitarci nel momento più caldo del giorno, la visita di Dio. Abramo promette un pezzo di pane e un po’ d’acqua, ma offre ciò che ha di meglio: il vitello grasso, il latte cagliato. Almeno offriamo, anche noi, qualcosina, come ha suggerito Papa Francesco: dei ricoveri da campo per curare i feriti e un tetto in ogni parrocchia e comunità per una famiglia esiliata. Un cuore che non ha mani non è discepolo del Cristo.

© Osservatore Romano - 16 settembre 2017

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