Rassegna stampa formazione e catechesi
“Omnia vincit #amor”: il trionfo della grazia sul male
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- Creato: 29 Settembre 2016
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Amare e ringraziare, vince ogni “volto abbattuto” e ripiegato su di sé
In questo quinto incontro ci dedichiamo al bisogno-potenzialità di amare. Non solo culmine della vita cristiana ma inizio sano dell’uscire fuori da sé
Prima parte
Seconda parte
Terza parte
Quarta parte
- Premessa -
Nel nostro iter siamo partiti dal peccato d’origine. Il motivo è semplice. Tale evento non è solo un mistero rivelato ma anche una necessità della ragione. Lo ricordava Pascal: “È stupefacente, tuttavia, che il mistero più distante dalle nostre conoscenze, la trasmissione del peccato, sia una cosa senza la quale ci è impossibile qualsiasi conoscenza di noi stessi” (B. Pascal, Pensieri, n° 122)
Se vogliamo comprendere l’uomo, le sue contraddizioni, il suo anelare alla grandezza e la sua condizione miserevole, anzi, ferita, non possiamo che rifarci ai primi capitoli del libro del Genesi che, sapienzialmente, risponde alle istanze che la ragione anela ma alla quale non può accedere da se stessa. Come l’incarnazione, l’et-et, è una necessità della ragione, per il retto pensiero e per il ragionare, così lo è anche l’evento del peccato d’origine.
Tale evento ci dice anzitutto chi è Dio, ci narra il buono e il molto buono, ci dice che cosa è il creato e chi siamo noi. Nel contempo ci introduce alla figura “dell’astuto”. Il più grande nemico dell’umanità. Dopo il peccato d’origine a fianco del “nemico” dell’uomo e di Dio, viene introdotto un altro grande nemico: è la superbia che si esprime nell’ordine relazionale tripartito. L’orgoglio verso Dio, la vanagloria verso i fratelli e le sorelle e la filautia, l’amore disordinato di sé, appunto verso se stessi. “Ipsa namque vitiorum regina superbia cum devictum plene cor ceperit mox illud septem principalibus vitiis quasi quibusdam suis ducibus devastandum tradit” (san Gregorio Magno, Moralia, XXXI 45) ricordava San Gregorio Magno; la superbia, una volta entrata in un’anima la consegna ai vizi. Così è accaduto ad Adamo ed Eva e così accade ad ognuno di noi. Ma il capolavoro della superbia è quello di consegnare l’anima ai vizi sotto l’apparenza spirituale. Per questo una costante attenzione è necessaria da parte nostra. Coltivando l’umiltà ed imparando a ringraziare sempre, specie per le umiliazioni che la Provvidenza dispone nella nostra vita.
Questi tre orizzonti relazionali, Dio, i fratelli e se stessi, sono indubbiamente buoni. Così come sono buoni, lo abbiamo visto, le tre potenzialità e bisogni che abbiamo. Quello dell’essere amati, quello dell’identità e quello di amare. A causa dell’evento del peccato d’origine, queste potenzialità si sono disordinate creando quel vuoto, quel nulla a cui sovente ricorriamo nel disperato e subliminale tentativo di “affermazione di sé”. Che ci incarta in noi stessi e da cui non possiamo uscire senza la Redenzione di Cristo. Dal Peccato d’origine, passando per Babele, l’uomo è un errante che cerca di capire chi è e come relazionarsi con l’altro. Cercando se stesso, dicendo “diamoci un nome”, finisce per non capire più nulla. Non è solo un problema della complessità della realtà ma del suo cuore ferito, ingolfato, con il “volto abbattuto” (Gen. 4,5-6). Cercando sé, disordinatamente, l’uomo si perde, si obnubila, si imbestialisce più delle bestie, “che non hanno peccati” (San Gregorio Nazianzeno, Poemi II, 1, 74.). Cristo è la “pietra angolare”, la luce indispensabile, il calore e il peso necessario, l’alfa e l’omega, la Bellezza della Bellezza. Lo stupore del Padre e la gioia piena dello Spirito. Quando Dio crea l’uomo, guarda realmente al “buonissimo, bellissimo, pienamente e perfettamente armonico” che è Cristo. “Cristo amore, Cristo amore”, come diceva Santa Caterina nella preghiera allo Spirito Santo. Qui l’uomo si trova, si ri-trova, si compie.
L’affermare questi tre bisogni e potenzialità, nel nostro percorso, invece che concentrarci sui “vizi capitali” (che è comunque di grande utilità spirituale) ci è servito a ribadire un fatto che la sana dottrina cattolica afferma con vigore: l’uomo è creato buono, anzi sommamente amato, con un nome e con una potenzialità grande di amare. Nel contempo il peccato non è qualcosa di opposto a ciò che l’uomo è ma un disordine che si attua delle sue buone potenzialità, dei suoi buoni desideri, della sua buona natura. Che pertanto non è irrimediabilmente corrotta ma drammaticamente ferita. Profondamente ferita. E se ferita può essere guarita. Cristo è il medico, il solo. Noi, con il suo aiuto, la sua grazia, infusa nel battesimo, coltivata, custodita e alimentata, possiamo rispondere al “debito nello Spirito” (Rm. 8,12). Collaborare a ri-orientare, purificare, queste tre potenzialità che abbiamo ricevuto e che sono incise nella nostra immagine.
Anche all’interno della visione cattolica vi sono, indubbiamente, diverse correnti e accenti. Chi accentua che l’uomo è veramente un “disastro” irrimediabile, o quasi, accentuando l’analisi dei vizi capitali. E altri invece che tendono a minimizzare la natura mortifera delle nostre ferite, ovunque presenti. Puntando più su un aspetto “sociale” del cristianesimo o con suggerimenti “usa e getta” che rasentano la logica massmediale e da “cioccolatino”. La verità è che siamo indubbiamente creati buoni e che ciascuno di noi è stato oggetto della Passione, Morte e Resurrezione di Cristo Gesù, e questo dovrebbe muoverci a radicale commozione. Come Francesco che piange per le campagne di Assisi dicendo “l’Amore non è amato, l’Amore non è amato”. Ma anzitutto occorre dire che non dobbiamo pensare che Cristo non è amato dagli altri. No, no.. non è amato da me. Proprio il memento costante dell’Incarnazione e del Mistero Pasquale ricorda che siamo costati a Dio “un caro prezzo”. “Non ti ho amato per scherzo” dirà Gesù a Sant’Angela da Foligno (Angela da Foligno, Istruzioni, 22,1-11).
Tutta la disciplina, lo slancio, la fatica, il digiuno, l’impegno che possiamo mettere nel nostro discepolato, e che va messo personalmente con la generosità degli innamorati, e sempre nella Chiesa, è dunque una semplice e balbettante restituzione al fiume di grazia che Dio ha profuso in Cristo, con l’Incarnazione e la Redenzione.
Ripeti dunque anima mia: “non posso non amarti, o Cristo!” e con l’apostolo proclamiamo “tutto reputo una infima spazzatura rispetto alla conoscenza (affettuosa, intima, conformante) di Cristo, mio Signore”.(Fil. 3,8)
E questo non è un “destino” per pochi ma per ogni battezzato, secondo misura e storia propria e secondo limite personale. La vita mistica non è prerogativa di qualcuno ma dei battezzati in quanto tali; ognuno al suo posto e secondo vocazione, come ricorderebbe San Francesco di Sales nell’Introduzione alla Vita Devota. Purché si sia decisi di dare spazio a Dio, alla vita di orazione e si sia disposti, finalmente, a farsi condurre da una guida.
Santo Francesco, nella sua vita ci ha mostrato proprio questo. Tutta la vanità, la vanagloria, l’errare per il vuoto che portava nel cuore, non era solo frutto del peccato ma anche un desiderio di Dio mal indirizzato, mal centrato. E quando Cristo gli si rivela, Francesco comprende Dio, comprende chi è lui stesso e incomincia a “conformarsi” in Cristo.
La via affectionis è dunque ancor più una via di conformazione, il desiderio ardente di vivere nella propria carne, per quanto possibile al nostro unico e prezioso limite, il conformarci a Cristo Gesù. La “somiglianza”, secondo approccio medievale, dunque, non è un aderire esterno, ma un conformarci dal di dentro, dall’Immagine. Immagine che Dio ci ha donato guardando Cristo. Il dono dello Spirito urge e spinge perché ciò avvenga. Facendo morire, letteralmente, fisicamente, le opere dell’uomo di carne. Perché è scritto che non si può vedere Dio e non morire (Es. 33,20). La disciplina esterna e le pratiche servono a veicolare questo fuoco che Dio ha già messo nel nostro cuore, con tutte le sue potenzialità, il Battesimo.
Via principale per Francesco rimane l’umiltà e le umiliazioni. Il suo percepirsi “vermine e disutile” non lo annichilisce, non lo fa perdere a se stesso. Anzi Francesco si ritrova. Nell’umiltà e nelle umiliazioni, nei passi di Cristo, Francesco si ri-trova e sperimenta l’amore di Cristo e le sue sante operazioni. Onoriamo dunque il nostro limite ove Adamo ed Eva non lo fecero. Qui è la nostra grandezza. Ed impariamo ad essere sottomessi.
- Il bisogno di amare -
In Francesco così si esplicita sin dall’inizio del suo cammino. Si lascia amare da Dio. Si lascia corteggiare da Cristo. Si fida della mano aperta e disarmata del Signore e così facendo esce da sé, rassicurato, illuminato, pian piano, ed inizia ad amare.
La povertà per Francesco non è un gesto sociale. Non è un atto di vanagloria per essere ricco della sua povertà. Non è una celebrazione del sé. A questo cortocircuito porta la vanagloria. Indubbiamente vi saranno stati presenti anche questi aspetti umanamente feriti, ma, sostanzialmente è una logica di immediata e generosa restituzione. Nel contempo risponde ad una logica di priorità. Francesco si restituiva a Cristo passando anche da ogni creatura di Dio. A cominciare dai fratelli.
Dicevamo che se a San Damiano il crocifisso parla a Francesco, fuori le mura di Assisi Cristo abbraccia Francesco nel lebbroso.
Qui Francesco impara una lezione che valica il santo stesso e il tempo “quello che mi sembrava amaro si trasformò in dolcezza di animo e di corpo” (FF. 110).
Ricordo che molti anni addietro ebbi il privilegio di andare a vedere il secondo Francesco della Cavani, quello con Mickey Rourke, per capirci, con un grandissimo studioso e appassionato delle fonti francescane. Un frate dottissimo, arguto, pungente, non molto empatico fisicamente, il ché rende ancora più unico ciò che mi disse durante una scena del film. Alla famosa scena di sensualità mistica in cui Santo Francesco prende il crocifisso e vi si abbraccia sponsalmente qualche frate sorrideva a questo eccesso di fisicità. Ma il dotto frate, Padre Giovanni Boccali, mi disse: “Francesco era così, era proprio così, capace di questo, lui era così”. Che lezione di Francescanesimo inaspettata. Anch’io non l’ho più scordata per entrare nel mistero del poverello.
Ebbene questa immagine accanto a quella del lebbroso e alla testimonianza asciutta e scarna del santo che ne fa nel testamento ci fa comprendere che tale rivoluzione gli era esplosa dal di dentro. Toccando tutti e tre i livelli di cui oggi modernamente parliamo. Quello spirituale, quello psicologico-intellettivo, quello somatico. San Damiano e il lebbroso sono l’incipit dell’igiene radicale, spirituale e psichica, di Francesco.
Questo è fondamentale. La Carità intesa come l’amore di Cristo condiviso, non come vanagloria o pietismo, ma come un fiume che ti fa cogliere Gesù dove non lo avresti mai immaginato, è l’incipit della maturazione di Francesco. La “Carità non solo copre una moltitudine di peccati” (1Pt. 4,8) ma essa compie il nostro personale bisogno, la nostra attitudine ineludibile di amare. La Carità ti rende capace di uscire fuori da te stesso, da te stessa.
Questo uscire donativo ha come contro effetto quello di sanare sempre più anche gli altri due bisogni. Più ami nella Carità, nella gratuità, e più capisci chi sei e più colmi il tuo bisogno radicale di dolcezza, perché Dio vi prende sempre più dimora. Questo ci insegnano i santi che chiamiamo della Carità. Vette di Sapienza irrompono in questo cercare e trovare Cristo seminato, senza divisione né mescolanza, nel volto unico del fratello. Per cui amiamo unicamente Cristo ed unicamente quel fratello e quella sorella. L’anima nostra, con Maria Maddalena irrompe allora anche in quel “Rabbunì”. Magari dove era impensabile.
Per tale motivo la catechesi non basta. Occorre un cammino profondo e ritmato nella liturgia, specie la Santa Messa e la devozione silenziosa all’Eucarestia. Un recupero anche dei “gesti” di preghiera sia pubblici che privati. Un ritmo gorgogliante del corpo e del cuore. Quanto è importante nella preghiera personale recuperare i gesti che, giustamente, non sono consoni nell’Assemblea. Le lacrime, la prostrazione, lo stare in ginocchio. Se il corpo si deve conformare necessita di amare, per quanto possibile. E, poi, nell’assemblea, dove invece i gesti sono ritmati dal mistero pasquale, avere nel cuore la prostrazione anche se si è in piedi. Ritti. Quanto è importante. Questo senso profondo di adorazione affettiva e sobria che rende sanamente ebbri nello Spirito. Pronti e disponibili in ogni momento a dire: “Altissimo Onnipotente Bon Signore, Tue so’ le laude, la gloria et l’honore, et honne benectione.. Signore cosa vuoi che io faccia?” (FF. 263, 587).
E nel contempo una carità sempre presente.
Una disciplina nel cercare situazioni in cui donarti silenziosamente e senza riflettori. Qui ti trovi. Qui, nella Carità gratuita e anonima, magari disprezzata e calpestata. Non riconosciuta, ma vissuta in Cristo, trovi il tuo nome. Dio ti si rivela e ti rivela. Nell’abbraccio indecente del lebbroso ti conosci.
Come le Beatitudini sono non solo punto di arrivo ma incipit di cammino nello Spirito Santo del discepolo di Cristo, così lo è la Carità. Formati, prega e donati. Donati, prega e formati. Prega, formati e donati. Nella Chiesa. Qui troverai la vera affermazione di te, nell’obbedienza del posto che ti è donato. Oggi.
Domani dove vorrà lo Spirito.
Questa lezione di San Damiano e del lebbroso porterà Francesco a comprendere veramente il suo quid, il suo unicum, l’essere predicatore itinerante, dopo lunghe quaresime. Alla Porziuncola si fonda la vita religiosa moderna che rovescia, il pur necessario, stabilitas loci del monachesimo e va verso la predicazione in Spirito e Potenza. Dopo lunghe quaresime, come dicevamo, e non dobbiamo dimenticarlo.
- Dal lebbroso alla lebbra dei fratelli -
Il cammino di Francesco diventa sempre più esplicito del suo bisogno-potenzialità di amare. Ma neanche Lui immaginava dove voleva condurlo Cristo.
Anzitutto Cristo lo porta al Monte della Verna dove gli dona le stimmate. Qui riceve la conferma del suo sfraghis, del marchio di appartenenza a Cristo, già presente nel Battesimo. La carne obbedisce alla grazia esterna ed alla grazia coltivata, giorno dopo giorno, nel cuore. L’amore si rende visibile. San Bonaventura, nella Legenda Maggiore, narra dei continui benefici che tale dono nella carne di Francesco porta a chi ne viene in contatto. Sia nello spirito che nel corpo.
Ma è in quella notte a San Damiano, malato, piagato, in lacrime per i fratelli, che l’amore tocca i vertici della donazione.
Nella famosa notte che precede la prima bozza del Cantico, Francesco è afflitto gravemente dalla preoccupazione dei fratelli che il Signore gli aveva donato. Fratelli che vedeva allontanarsi dalla regola, dal Santo Vangelo. E teme per essi. Sono la sua carne. Qui Francesco fa esperienza della lebbra dei fratelli, quella del peccato, dell’indifferenza per le cose sante, del mysterium iniquitatis, che lo annichiliva sempre più, e qui, Cristo, lo portava ad una più alta conformazione. Al vertice della via affectionis.
Anzitutto Cristo rimprovera Francesco, per scuoterlo, ricordandogli che i frati erano di Cristo, erano suoi; non di Francesco. Francesco li aveva ricevuti in fraternità ma erano di Dio. Come ad Abramo, Dio chiede il sacrificio del figlio unico. Qui Francesco capisce che proprio loro, più di se stesso, sono il suo figlio unico. Qui Francesco scopre nel contempo il suo limite. Il poverello non è Cristo. Non può redimere; può solo restituire perdonando e associandosi a Cristo povero e crocifisso. Qui Francesco comprende la sua lezione più grande: non c’è più grande carisma che la restituzione di ogni carisma e nel contempo non c’è amore più grande per i fratelli che immergerli nel cuore di Cristo.
La resa responsabilizza Dio alla massima cura.
Qui Francesco rovescia l’atteggiamento di Adamo e di Eva con una resa perfetta e schiaccia la testa del serpente. Come Abramo e come la Signora Santa, la sempre Vergine Maria, da lui sommamente amata. “Ave Signora santa, regina santissima, Madre di Dio..” (FF. 259) E qui l’amore di Dio, forse temporaneamente obnubilato dalla grande sofferenza per i frati, viene rivisto. Lo inonda, lo colma di “enthousiasmós”, di quella gioia ispirata e danzante, di quella luce che dona Scienza, Intelletto e Sapienza, e scrive il Cantico. Probabilmente la prima bozza. Rivista poi e musicata con qualche melodia del tempo e con l’aiuto della fraternità. Qui nasce la prima composizione italiana; da questi eventi mistici. Dall’amore donato. Dal bisogno e dalla potenzialità di amare compiute in Cristo. E dalla vita fraterna. Dalla Chiesa.
Come Cristo, quella notte a San Damiano, Francesco esce sconfitto, perde. E vince in Dio. Non esige il cambiamento degli altri pur annunciandolo senza compromessi, come Cristo gli chiede, anzitutto con il suo esempio e il suo posto, e così, cambia se stesso. E diventa fecondo.
L’amore ricevuto lo trasforma in donante.
"Quanto a me... non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo" (Gal 6, 14). Così si esprime chi vive correttamente il suo bisogno e la sua potenzialità di amare.
La Carità, il dono di sé, è ineludibile.
Non basta la scienza, non basta l’intelligenza e neanche la sapienza.
Non basta conoscere e tradurre la Sacra Scrittura in tutte le lingue e conoscere tutte le profondità di Dio.
Non basta neanche la pienezza della fede.
Occorre la Carità cioè l’uscire da sé.
A fianco al Kerygma occorre un cammino liturgico, come fonte e culmine dell’uscire da sé e il laboratorio esistenziale della Carità, della condivisione, non per dire io ma per dire Dio, e per dire noi. Qui l’io ritrova sé, non si disperde.
Occorre iniziare da piccolissimi ad uscire da sé, perché la pianta malata dell’appropriazione sin da subito si fa sentire.
A cosa giova guadagnare il mondo intero se poi uno perde se stesso? (Mc. 8,36)
Queste tappe fondamentali hanno preparato Francesco all’ultima tappa. Quella in cui ciascuno di noi si “gioca” tutto. Il prepararsi alla morte. Anzi, alla buona morte.
Per vedere assieme come l’ha vissuta Francesco, compiendo se stesso e i tre bisogni di cui abbiamo parlato, ci incontreremo, se a Cristo piace, martedì prossimo. Festa di San Francesco. Grazie.
© http://www.lacrocequotidiano.it/ - 29 settembre 2016
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