Rassegna stampa formazione e catechesi
L’amore di sé e i tre #bisogni fondamentali
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- Creato: 08 Settembre 2016
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Dalla Natività della Vergine fino alla festa di San Francesco tracciamo un itinerario spirituale: indagare le concretissime profondità dello Spirito (e dello spirito) non è anzitutto un modo per conoscere se stessi, ma porta alla conoscenza di sé mediante un serio cammino di discepolato
di Paul Freeman
Premessa
“Dov’è il sapiente? Dov’è il dotto? Dov’è il sottile ragionatore di questo mondo? Dio non ha forse dimostrato stolta la sapienza del mondo? Poiché infatti, nel disegno sapiente di Dio, il mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio, è piaciuto a Dio salvare i credenti con la stoltezza della predicazione. E mentre i Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio. Perché ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini.” (1Cor. 1,20-25)
Questa necessaria premessa per ricordarci che quando parliamo delle profondità concretissime dello Spirito non possiamo farlo che nella Sapienza di Dio. La quale necessita di una umiltà radicale, profonda. E che tali misteri si innestano nei due fondamenta che ci accompagnano come discepoli: l’incarnazione e il mistero Pasquale.
In secondo luogo, indagare sulle profondità concretissime dello Spirito non è un sussidio per conoscerci, facendoci capitolare in quella sorta di “lussuria” di avere una fede su misura, ma anzitutto per iniziare seriamente un cammino di discepolato.
Significa iniziare a prendere sul serio la vita di preghiera e la direzione spirituale.
Dietro la Teologia, sia essa fondamentale che spirituale. Dietro anche alcune devozioni, infatti, si può nascondere, ben bene, una sorta di narcisismo spirituale che si maschera di cammino “in alto” ma che in realtà ci trae in errore subdolamente. Anzi, spesso, è un auto-inganno. Questo perché ricentra l’io sull’io e non su Dio. Sembra un cammino mistico quando invece è, drammaticamente, carnale.
Questa è una delle urgenze della Chiesa. La stessa esortazione apostolica, “Amoris Laetitia” non è un documento “semaforo” che dice questo sì e questo no, ma piuttosto un documento spirituale e profetico che deve poter essere preso sul serio, anzitutto dal clero, perché spinge – come altri interventi recenti del Santo Padre, come quello fatto ai Vescovi polacchi – alla formazione spirituale. Chi infatti può “dirigere” se non è “diretto” e non è nel “giogo” dell’obbedienza? Solo chi obbedisce ascolta la voce, con il diretto, per obbedire allo Spirito: “A mezzanotte si alzò un grido: “Ecco lo sposo! Andategli incontro!” (Mt. 25,6)
In terzo luogo su cosa sia la Direzione spirituale e da come si distingua sia dall’apporto piscologico, che ha una autonomia sua propria, sia dalla confessione (di questo bisogna essere chiari nell’approcciare il documento Amoris Laetitia) ne ho parlato in passato qui http://www.ilcattolico.it/catechesi/spiritualita/la-direzione-spirituale.html, pertanto non mi dilungo oltre.
Entriamo nel vivo
Nell’ultima riflessione prima del Perdono di Assisi avevo ricordato che l’umanità creata da Dio, l’uomo e la donna, presenta chiari sin da subito tre bisogni, tre attitudini e potenzialità fondamentali. Il bisogno di essere amati, il bisogno di amare, il bisogno di identità.
Proviamo a balbettare qualcosa su questi tre bisogni fondamentali e di come, il peccato di origine li abbia disordinati nell’espressione che gli antichi padri riconoscono come “Filautia”, l’amore disordinato di sé.
Questi bisogni sono strettamente legati al nostro essere ad immagine e somiglianza di Dio (Gen. 1,27).
Se in Dio l’essere amato, l’amare e l’identità si pone non come bisogno e come necessità ma come sussistenza nell’incessante fiume di amore che intercorre nella Santissima Trinità, in noi, che abbiamo il dono dell’essere da Colui che solo è, tali attitudini e sussistenza, è partecipata, creata per puro dono e riposa solo nel Creatore stesso.
Cioè il nostro bisogno di essere amati, di amare e di identità, trova solo in Dio, generazione, compimento e riposo. Culmine. Tocca la nostra ontologia profonda. E’ qualcosa che va oltre la nostra capacità di comprendere ma tocca le midolla di ciò che siamo. Per questo parliamo sia di bisogno che di potenzialità. L’essere amati, l’identità e l’amare non è solo un bisogno ma un quid di immagine che ci spinge ad essere ciò che siamo come incipit e come orizzonte.
Qui si spiega e si dispiega la nostra vocazione.
Nel peccato di origine (Gn. 3,1ss) viene toccata proprio questa profondità e viene toccata dal nemico “omicida e menzognero sin dal principio” (Gv. 8,44) che, conoscendo questi bisogni e potenzialità, con astuzia (arum, in ebraico), perverte questa caparra della nostra futura divinizzazione in Cristo, inquinandola a cominciare dal più liminale di questi bisogni.
Se infatti il bisogno di essere amati ci fonda come creature e il bisogno di amare ci compie nella maturità a cui siamo chiamati in Cristo, è proprio il bisogno di identità, il più liminale di questi bisogni che viene anzitutto “toccato” dalla prova nel Paradiso terrestre che farà capitolare Eva ed Adamo. Bisogno importantissimo che ci spinge – in cordata stretta con gli altri due bisogni – alla nostra trascendenza. Siamo infatti chiamati “ad essere simili a Dio perché lo vedremo così come Egli è” (1 Giov. 3,1-2). Ma vediamo cosa accade in Genesi 3 nel dialogo tra Eva e il serpente.
Il bisogno di identità viene distorto
Anzitutto il capitolo secondo del libro della Genesi conclude con una affermazione fondamentale: “Ora tutti e due erano nudi, l'uomo e sua moglie, ma non ne provavano vergogna.” (G. 2,25). Questo essere nudi viene definito in ebraico con il termine “arummim” da non confondere con “arumim” che è il plurale del termine “arum” indicato per definire il serpente, cioè “astuto” o, in alcune declinazioni, come “saggio”. Il primo termine significa proprio “nudi”, ed è da intendere nel senso più profondo di tale termine, cioè come totalmente innocenti e dipendenti da Dio. Questo essere nudi, innocenti e dipendenti da Dio, non crea imbarazzo nella primigenia umanità ma viene vissuto come naturale.
La narrativa ebraica che non conosce la divisione in capitoli del Genesi, adottata successivamente, gioca sulla sonorità dei termini per introdurre il discorso della tentazione e della prova. Il serpente viene presentato con una connotazione sia neutra che creante una tensione narrativa. Neutra perché l’astuzia non è un male in sé, dipende da come viene usata. Crea una tensione perché l’assonanza con arummim sembra celare una maschera di apparente innocenza dietro “l’astuzia” del serpente, ma che sta per far subentrare un dramma. Così comincia la prova, con l’apparenza di innocenza.
Anche la domanda che troviamo fatta dal serpente successivamente sembra introdurre la questione in maniera grossolana e quindi facilmente individuabile, riconoscibile: «E' vero che Dio ha detto: Non dovete mangiare di nessun albero del giardino?» (Gen. 3,1). Tuttavia il testo originale non pone esattamente la questione in forma interrogativa ma piuttosto espositiva, come a dire: “.. Dunque Dio vi ha detto che..”. Una domanda, infatti, avrebbe fatto mettere Eva sulla difensiva. Mentre una affermazione pone Eva in un eccitamento del suo bisogno di identità perché la spinge a ristabilire la questione, spiegando; il serpente la mette in cattedra. Eva risponde sembrando di ristabilire come stanno le cose: «Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell'albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: Non ne dovete mangiare e non lo dovete toccare, altrimenti morirete». (Gen. 3,3-4)
Anche qui, piccola premessa. Troppo facilmente pensiamo a tale albero come la rappresentanza di una realtà duale, il bene ed il male. Invece va intesa tutta la realtà che intercorre tra ciò che è bene e ciò che è male. Cioè Dio, con amore, ricorda ad Adamo ed Eva che non sono in grado in accedere a quell’albero perché non conoscono tutta la realtà, non sono Dio. Sono appunto creature, nudi, innocenti e bisognose.
Ecco che l’affermazione del serpente suscita una risposta in Eva che è già ferita, anzitutto perché nello spiegare sembra distaccare e dimenticarsi l’amore che Dio ha per loro e nel contempo introduce il fatto che dell’albero non bisogna neanche “toccare”. Cosa che nell’indicazione/divieto di Dio non era presente. Insomma, del Leone ruggente ti accorgi, eccome, anche se “va in giro cercando chi divorare” (1Pt. 5,8), ma del serpente no. E ti morde e ti porta la dove ti voleva portare.
La donna dimentica tutto il bene di Dio, cioè per esteso “tutti gli alberi del giardino”. Dicendo, inoltre, una cosa non detta, cioè di “non toccarlo”, la donna dimostra di non aver ricordato, fatto memoria, del comando/avviso di Dio. Cioè smette di essere ragionevole; la tentazione si sta per consumare.
Infine la donna dimentica che il divieto non riguardava anche l’albero della vita, anch’esso al centro del giardino. Dunque la donna è nella totale confusione. Confondendo i due alberi già ha in sé il seme di sfiducia verso la vita che, solo, viene da Dio. Già si è distaccata con un moto disordinato nella sua relazione con Dio. La donna è così in confusione che percepisce l’avviso di Dio come un comando che la frustra nel suo bisogno di identità. Come qualcosa che non le concede di vivere e di essere (bisogno di identità) in pienezza.
A questo punto il nemico ha portato Eva dove egli voleva, cioè a dubitare totalmente di Dio e all’assurdo di darsi l’essere da sola, a perdere ogni innocenza. «Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male» (Gen. 3,4-5)
Cioè il nemico prima pone una falsa affermazione, poi mette in cattedra Eva e poi gli dice “brava! è proprio come dici, non muori se decidi di essere dio senza Dio”. Infatti Dio non ti vuole bene. Se non ti vuoi bene tu, da sola, non saprai mai chi sei.
Ed ora, cambiato il cuore, tutto quello che Dio mi pone come un limite diventa desiderabile.
Con una battuta potremmo dire che il motto di Eva e di Adamo è “Io sono, perché trasgredisco”, ma in realtà non si trasgredisce un bel nulla piuttosto ci si avvelena e si impoverisce sempre di più sia la capacità di ragionare che quella di discernere.
Certo detto così fa sorridere, eppure è proprio il meccanismo e la ferita che ci portiamo dietro ad ogni peccato.
Inoltre, il gesto di dare il frutto al marito sembra apparentemente bello, di condivisione, in armonia con Gen. 2,24
(che parla del coniugio); ma si rivela piuttosto il modo di dar-si la morte. Morte che si manifesta con il reciproco accusarsi a vicenda finché si vuole far ricadere la responsabilità su Dio: “La donna che Tu mi hai messo accanto”.
Il nemico ha usato la sua astuzia per pervertire l’umanità e togliergli l’innocenza e lo ha fatto solleticando il bisogno di identità, caparra e propellente della nostra santificazione ma dissociandolo dalla memoria e dal fatto che siamo amati da Dio. Solo Dio colma il primigenio bisogno di essere amati e compie la bellezza sconfinata dell’amore, del donarci in Dio. Quest’ ultimo, bisogno ed attitudine della maturità cristiana.
La narrazione continua con l’avvicinarsi di Dio e i due potrebbero ancora essere facilmente sanati ma invece di chiamare le cose per nome si nascondono. Questo atteggiamento sembra far sorridere ma sui modi di come noi ci nascondiamo e fuggiamo ci sarebbe da aprire un trattato.
Da quelli grossolani alle spiritualizzazioni, al molto lavoro “per il Regno”…
Tuttavia, l’amore di Dio è incessante, imperterrito e continua con tenerezza, quella vera, e chiede: «Dove sei?» Il peccato infatti ha questo primo effetto ti pone fuori orbita. Ti perde. Ti lancia verso il nulla. Dio non ti accusa ma ti chiede dove sei finito.
Accade però un aggravamento della situazione. Adamo insiste nel non chiamare le cose per nome. La realtà non è più evidente e l’uomo descrive gli effetti non i prodromi: «Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto» (Gen. 3,10). Interessante è che il termine nudi e nudo qui viene detto come “erommim” ed al singolare “erom”. La radice è simile a quella di Genesi 2, ma la flessione leggermente diversa. Come a ricordare, nella narrazione, che, dopo il peccato, l’innocenza e la vera nudità si è persa.
Dio ancora, nella Sua bontà, chiede, invitando alla verità di sé e dei fatti. E, ricordiamo, per Adamo ed Eva, pur smarriti, era di gran lunga più facile chiamare le cose per nome che per noi: «Chi ti ha fatto sapere che eri nudo? Hai forse mangiato dell'albero di cui ti avevo comandato di non mangiare?» (Gen. 3,11).
Questa tenerezza e radicale umiltà disarmata di Dio, prova a suscitare un atto di verità, che aprirebbe ad una sanante contrizione. Ad un abbassamento totale delle difese da parte dell’uomo. Ma niente, invece di chiamare le cose per nome e descrivere i fatti, cosa che, appunto, avrebbe aperto ad una immediata guarigione, Adamo ed Eva si accusano, si addossano la colpa l’un l’altro senza avere la schiettezza che avrà poi Davide davanti a Natan: “ho peccato contro il Signore” (2 Sam.12,13)
Orgoglio, Vanagloria, Filautia
Ecco, pur brevemente, abbiamo visto come in nome di una ricerca disordinata di sé sia stato generato nel cuore un moto di orgoglio, cioè la superbia, un disordine nei confronti della relazione con Dio. Tutta quella somma di sfiducia profonda, subliminale, nei confronti della provvidenza divina, nei confronti del Padre, che avvelena i nostri passi e che ci fa percepire Dio come un nemico del nostro bene. In nome di una promessa fatua, quella di essere dio senza Dio si è diventati vanagloriosi donando la morte al proprio compagno, al proprio fratello. Riempiendoci di niente. Nel contempo questo ha comportato un amore disordinato di sé, la Filautia, che legata all’orgoglio verso Dio, e alla vanagloria verso gli altri crea l’abisso di disistima che ci portiamo dalla colpa di origine. Abisso che solo l’amore di Dio può sanare. Nessuna terapia personale o di gruppo, nessun cammino di autocoscienza porta alla sanazione profonda, radicale e stabile dell’amore di sé se non il ritorno (Shuv) verso Dio.
In nome della vanagloria, dell’orgoglio e dell’amore disordinato di sé ci giochiamo tutto. Ci giochiamo il Paradiso.
E, si badi bene, questo non avviene solo a livello grossolano, grezzo, con il culto di sé, la moda e le mode, il look, la somatolatria. I corsi multilevel, la carriera. Questa dimensione c’è ma è piuttosto vanità di bassa lega. La seduzione al suo primo stadio. No, la vanagloria colpisce chi è più in alto nel cammino, come Eva ed Adamo, che erano al culmine dell’innocenza. In nome della ragione, in nome di uno spazio, di un po’ di notorietà ecclesiale, che sia allineata o in contro-tendenza, in nome di un po’ di papismo o di anti-papismo, in nome delle mode pastorali, del parolaio ecclesiale o della critica di esso, in nome di uno starnuto di apprezzamento.. ci giochiamo tutto. Ci giochiamo il Paradiso. Ci giochiamo la Vita Eterna.
Puritanesimo e vanagloria
Tuttavia dopo il peccato e nonostante la grazia del Battesimo e dei sacramenti, è difficile per noi entrare in una dimensione di amore totalmente donativo, scevro dal fomito profondo del “dubbio su Dio” e pulito dalla vanagloria e dalla stima distorta di sé.
E’ proprio il contrario della vanagloria saper cogliere il bello e il buono, il gratuito, il donativo, dove esso si presenta, seppur in germe.
Saperne gioire (Fil. 4,8).
Saper stimare (Rm. 12,10). Senza irrigidirci.
Tuttavia quanto detto, che colpisce e distorce questo nostro “bisogno e attitudine di identità”, va tenuto sotto controllo personalmente. Educato, Umiliato e mortificato, con la gioia dei redenti.
Chi è leader, chi scrive, chi fa catechesi, esercizi spirituali, guida comunità o semplicemente la propria casa non deve mai dimenticare le parole di Pietro:
“Rivestitevi tutti di umiltà gli uni verso gli altri, perché Dio resiste ai superbi, ma dà grazia agli umili.” (1PT.5,5)
Se è vero che la “grazia suppone la natura” è anche vero che la “grazia suppone la grazia” ed “una costante disciplina nella grazia”.
Lo ricordava Paolo alla comunità di Corinto:
“Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna.
E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sono nulla.
E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per esser bruciato, ma non avessi la carità, niente mi giova.
La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell'ingiustizia, ma si compiace della verità.
Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La carità non avrà mai fine.” (1Cor. 13,1-8)
Insomma uno potrebbe avere tutti i doni di questo mondo, persino parlare la lingua degli angeli o avere la pienezza della fede, persino farsi uccidere bruciato.. ma se non ha l’amore maturo, la Carità, che è Cristo, ed ha, piuttosto, nel cuore, la vanagloria, l’orgoglio, la filautia.. perde tutto.
E se qualcosa inquina il nostro cuore è bene tagliarlo (Marco 9,43-47).
Dove il “bisogno e l’attitudine di identità” è distorta occorre disciplina severa, obbedienza, mortificazione, digiuno e sano umorismo.
Gesù stesso ha affrontato così la prova nel deserto; con il digiuno, con il chiamare le cose con il proprio nome e con un filo di sano umorismo verso l’asfissiante tentazione all’ego del nemico.
Altrimenti, ci perdiamo il meglio, di cui, se il Signore ci dà grazia, parleremo successivamente.
© http://www.lacrocequotidiano.it/ - 8 settembre 2016
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