Rassegna stampa formazione e catechesi

Alcune “note difficili” intorno all’#esortazione Amoris Lætitia

gp2 ed EucarestiaIl forte accento sul “discernimento” incoraggia la discussione, ma non può aprire al relativismo.
di Paul Freeman

“Panis angelicus, fit panis hominum;
dat panis caelicus figuris terminum;
O res mirabilis: manducat Dominum pauper, servus et humilis.”

Questo intervento, poste le basi del precedente, vuole continuare, con umiltà e rispetto, le riflessioni attorno ad alcuni aspetti “difficili” della ricchissima e lirica esortazione apostolica “Amoris Laetitia”, del Santo Padre.
Offrendo il mio contributo sensibile al tema, avendo avuto la grazia di lavorare nella pastorale familiare per molto tempo, al fianco di appassionati ministri, spesso in situazioni complicate e non lineari, come spesso è la nostra vita.
Mi scuso con il lettore se urto qualche sensibilità, non è di certo mia intenzione.
Anzi è mio desiderio obbedire, di vero cuore, all’incipit del Santo Padre nell’Amoris Laetitia dove dice: “La riflessione dei pastori e dei teologi, se è fedele alla Chiesa, onesta, realistica e creativa, ci aiuterà a raggiungere una maggiore chiarezza.” (A. L., 2)

L’Eucarestia è il bene più prezioso che abbiamo.
E’ Lei che compie la comunione, effettiva prima che affettiva, che lo Spirito crea, ex-nihilo (non dimentichiamolo) con il Battesimo.
Bene fa Pietro a ricordare che “L’Eucaristia, sebbene costituisca la pienezza della vita sacramentale, non è un premio per i perfetti ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli.” (E. G. 47)

Il Sacerdote, e noi con lui, personalmente, pronunciamo quelle parole terribili prima di accedere alle Specie Eucaristiche: “Oh, Signore non sono degno di partecipare alla tua mensa: ma dì soltanto una parola e io sarò salvato”. Terribili perché belle, autentiche. Costruite sull’ineludibile dono previo del “Timor di Dio” dello Spirito Santo. Sono costruite sulla dichiarazione di fede del Centurione (Lc. 7,1-10).
Certo Dio è Padre, anzi Abbà, caro babbo mio, in quell’aramaismo onomatopeico e affettivo rivelato pienamente dal Figlio. Ma non cessa di essere anche l’Altissimo, l’Onnipotente, l’Onnisciente. La coniugazione nell’Amore di questi attributi, anzi di queste realtà inenarrabili di Dio nello spazio circoscritto di un po’ di Pane e un po’ di Vino non possono non suscitare Timore (che non è paura), Lode, Azione di Grazie, cessazione di ogni superbia, danza del cuore.
Perché nell’Eucarestia vi è il culmine dell’incarnazione e della redenzione.
Il culmine della Bellezza.
La carta di identità di Dio.
E’ quell’umiltà che crea e ri-crea.

Nessuno ne è degno e tutti siamo debitori, grati, davanti all’evento che svela che solo Dio è umile, discende. La nostra umiltà è realismo. Non ci sono fratelli “più degni” o sorelle “più degne”. Ci sono, piuttosto, condizioni oggettive e simboliche (dove il simbolo unisce realtà visibili e realtà eterne) che lo Spirito Santo ha donato alla Chiesa per rispettare, il più possibile tale dono inenarrabile.

Vediamo ora cosa ricorda il catechismo.

Nel catechismo al n° 1393
"La Comunione ci separa dal peccato.
Il Corpo di Cristo che riceviamo nella Comunione è « dato per noi », e il Sangue che beviamo è « sparso per molti in remissione dei peccati ». Perciò l’Eucaristia non può unirci a Cristo senza purificarci, nello stesso tempo, dai peccati commessi e preservarci da quelli futuri: «Ogni volta che lo riceviamo, annunziamo la morte del Signore. Se annunziamo la morte, annunziamo la remissione dei peccati. Se, ogni volta che il suo sangue viene sparso, viene sparso per la remissione dei peccati, devo riceverlo sempre, perché sempre mi rimetta i peccati. Io che pecco sempre, devo sempre disporre della medicina ». (S. Ambrogio, De Sacramentis)

Ad una lettura, a mio avviso superficiale, fatta in questi giorni, si fa in sostanza dire a S. Ambrogio che l’Eucarestia rimette “tutti i peccati” e si fa intendere che questa sia la via dell’Amoris Laetitia. Almeno in alcuni casi. Al n° 47 dell’esortazione che cita così “L’Eucaristia, sebbene costituisca la pienezza della vita sacramentale, non è un premio per i perfetti ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli.” Nella cui nota rimanda di nuovo al De Sacramentis, come il Catechismo.
Basta leggere il celebre saggio di S. Ambrogio per comprendere il contesto patristico in cui esso è inserito, e cioè non nell’impossibilità di accedere al Sacramento ma nell’indegnità che tutti, anche riconciliati (e peccatori in cammino) abbiamo di fronte al Sacramento dell’Eucarestia.
Ora, è vero che alla globalità del rito eucaristico, in quanto memoriale della Pasqua del Signore, è sempre stato riconosciuto il valore remissivo dei peccati. Questo sia dalla tradizione patristica, che da quella liturgica, che da quella teologica. E persino dalla traditio dogmatica (Cit. Conc di Trento: “Hujus quippe oblatione placatus Dominus, gratiam et donum paenitentiae concedens, crimina et peccata etiam ingentia dimittit”), come ricorda, Don Maurizio Gronchi, su Famiglia Cristiana dell’8 aprile 2016.
Ma nessuno ha mai inteso bypassare il sacramento della riconciliazione (gratiam et donum paenitentiae concedens) che rimane sottinteso nella globalità del rito Eucaristico.
Come spiega bene, ad esempio, il catechismo:
1394 "Come il cibo del corpo serve a restaurare le forze perdute, l’Eucaristia fortifica la carità che, nella vita di ogni giorno, tende ad indebolirsi; la carità così vivificata cancella i peccati veniali. Donandosi a noi, Cristo ravviva il nostro amore e ci rende capaci di troncare gli attaccamenti disordinati alle creature e di radicarci in lui: « Cristo è morto per noi per amore. Perciò quando facciamo memoria della sua morte, durante il sacrificio, invochiamo la venuta dello Spirito Santo quale dono di amore. La nostra preghiera chiede quello stesso amore per cui Cristo si è degnato di essere crocifisso per noi. Anche noi, mediante la grazia dello Spirito Santo, possiamo essere crocifissi al mondo e il mondo a noi. [...] Avendo ricevuto il dono dell’amore, moriamo al peccato e viviamo per Dio ». (San Fulgenzio di Ruspe, Contra gesta Fabiani, 28, 17)
1395 "Proprio per la carità che accende in noi, l’Eucaristia ci preserva in futuro dai peccati mortali. Quanto più partecipiamo alla vita di Cristo e progrediamo nella sua amicizia, tanto più ci è difficile separarci da lui con il peccato mortale. L’Eucaristia non è ordinata al perdono dei peccati mortali. Questo è proprio del sacramento della Riconciliazione. Il proprio dell’Eucaristia è invece di essere il sacramento di coloro che sono nella piena comunione della Chiesa."

Questo per indicare che, taluni aspetti difficili dell’Amoris Laetitia non possono essere compresi se non dentro uno sforzo di integrazione e non di concessione.

Come ricordato anche dal Card. Schonborn nella presentazione dell’esortazione:
“La mia grande gioia per questo documento sta nel fatto che esso coerentemente superi l’artificiosa, esteriore, netta divisione fra “regolare” e “irregolare” e ponga tutti sotto l’istanza comune del Vangelo, secondo le parole di San Paolo: “Dio infatti ha rinchiuso tutti nella disobbedienza, per usare a tutti misericordia!”(Rom 11, 32). Questo continuo principio dell’ “inclusione” preoccupa ovviamente alcuni. Non si parla qui in favore del relativismo? Non diventa permessivismo la tanto evocata misericordia? Non esiste più la chiarezza dei limiti che non si devono superare, delle situazioni che oggettivamente vanno definite irregolari, peccaminose? Quest’Esortazione non favoreggia un certo lassismo, un “everything goes”? La misericordia propria di Gesù non è invece, spesso, una misericordia severa, esigente?“

Quello che conta, nell’esortazione Amoris Laetitia, sono le due polarità davanti all’annuncio bello del Vangelo della Famiglia (Evangelii Nuntiandi, 71): L’integrazione di ogni situazione nella comunità cristiana e il principio di gradualità (A.L., 293).
Tra l’altro la conversione non è atto acquisito ma un atto in continua crescita, in continua verifica, anzi in continua formazione (Humanae Vitae, 25) . La formazione permanente è per tutti, sembra ricordare il pontefice (Amoris Laetitia, 58) e per ciascuno c’è un parola buona e bella in ogni situazione.

Nella Formazione permanente occorre anche formare al desiderio. Lo ricordava Benedetto XVI nella S. Messa in Coena Domini del 2011, facendo un’analisi del “desiderio di Cristo”:
“E noi, abbiamo veramente desiderio di Lui? C’è dentro di noi la spinta ad incontrarLo? Bramiamo la sua vicinanza, il diventare una cosa sola con Lui, di cui Egli ci fa dono nella Santa Eucarestia? Oppure siamo indifferenti, distratti, pieni di altro?”

Leggiamo nel Vangelo di Luca “Ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione” (Lc 22,15) Ma una traduzione più felice dal greco potrebbe essere “Con desiderio ho desiderato”. Una affermazione di Cristo che richiama ad un probabile aramaismo lirico, con uno stile che si può trovare nel Cantico dei Cantici.
Occorre dunque una formazione permanente del fedele, di ogni situazione, “regolare ed irregolare”, in questo desiderio.
Questo – a mio parere – non toglie le condizioni oggettive presenti nel Magistero ma le ri-significa.
Infatti l’accesso di desiderio, come tensione, all’Eucarestia, pur non completato oggettivamente, può essere più pregnante per la cristificazione della “coppia irregolare” del cammino di una coppia “regolare”, ma distratta nel desiderio di Cristo.
Con questo non sto parlando di ciò che viene definita “comunione spirituale”. Perché essa è possibile solo nelle condizioni oggettive anche se non adempiute fisicamente. Ma parlo di una lievitazione soggettiva del desiderio personale e di coppia nel “desiderio desiderato” di Cristo. Specie in quelle situazioni “irregolari” in cui la “regolarità” sarebbe possibile per “materia” ma non attuabile per prassi per una serie di circostanze. E che pertanto sono mistericamente crocifisse.
Il “desiderio” dunque, nella rinuncia all’Eucarestia, oggettivamente parlando, diventa anch’esso “pane per i deboli” e strumento di salvezza.
Ricordava Benedetto XVI nella Sacramentum Caritatis 15: “È significativo che la seconda preghiera eucaristica, invocando il Paraclito, formuli in questo modo la preghiera per l’unità della Chiesa: « per la comunione al corpo e al sangue di Cristo lo Spirito Santo ci riunisca in un solo corpo ». Questo passaggio fa ben comprendere come la res del Sacramento eucaristico sia l’unità dei fedeli nella comunione ecclesiale.”
Pertanto inversamente, credo si possa dire, che il pontefice, con questa esortazione spinga a quella realtà di comunione tra i fedeli in cui la comunità crei e sveli con amore e appartenenza, verso le situazioni oggettivamente irregolari, una “res” in una “forma Eucaristica”.
La grazia della Chiesa, esplicitata, da una direzione spirituale mirata e da una comunità accogliente, completerà, per quanto possibile, quello che oggettivamente non è possibile completare.
Senza facili concessioni ma con l’abbraccio grande della ministerialità e del servizio attivo nella comunità.
Ricorda il Pontefice: “Essi non solo non devono sentirsi scomunicati, ma possono vivere e maturare come membra vive della Chiesa, sentendola come una madre che li accoglie sempre, si prende cura di loro con affetto e li incoraggia nel cammino della vita e del Vangelo. Questa integrazione è necessaria pure per la cura e l’educazione cristiana dei loro figli, che debbono essere considerati i più importanti” (A. L. , 299)

Questo però fa maturare l’aspetto più “ostico” ed affascinante dell’esortazione, da non dare per scontato, sarebbe, infatti, avventato e pericoloso, e che mi pare nessuno abbia colto nel suo orizzonte. Anche immediato. Un maggior discernimento e cammino con le situazioni ferite della famiglia comporta una maggiore formazione spirituale. A tutto tondo.
Ed una maggiore attenzione alle situazioni, cuore per cuore, persona per persona, situazione per situazione, comporta inevitabilmente, se siamo realisti, una riforma del clero.
Sia negli aspetti spirituali che nella vita fraterna, prima che in quelli pastorali.
Il “foro interno” non è un luogo di “coscienza libera” e soggettiva. Non è il luogo della “doppia morale” (Veritatis Splendor, n° 56) ma il luogo della maturità “del cuore del cuore”, del “Lev” biblico, nudo davanti a Dio.

Il dono di Scienza dello Spirito, dono legato agli altri doni strettamente, ma mirato alla guida spirituale, al “vedere, co-intuire, in Dio”, comporta una purezza di vita ed una maturità umano-cristiana non comune. Una robusta vita orante, approfondimento, vita fraterna.
Ad esempio tutti i sacerdoti sono potenzialmente esorcisti ma non tutti esercitano questo servizio ecclesiale.
E non solo perché non hanno il mandato dal Vescovo ma anche perché non hanno, o non possono vivere, le caratteristiche oggettive per poterlo esercitare.
Sono magari ottimi sacerdoti e anche ottimi confessori, ma, ad esempio, accompagnare le anime in un percorso di discernimento è un lavoro che comporta una cura di sé nello Spirito Santo, non comune. Occorrono alcune caratteristiche e chiavi vocazionali chiare.

La confessione poi è un piano distinto dalla guida spirituale, anche se sovente vi si accompagna. Pertanto per maturare quelle condizioni necessarie al discernimento delle situazioni familiari, credo che il clero sarà chiamato ad interrogarsi fortemente sulla sua modalità di esercitare il ministero.
Credo che il Pontefice voglia responsabilizzare al massimo i laici, negli spazi che sono loro propri, ed indicati dal Concilio Vaticano II, per fare in modo che i sacerdoti, e specie i vescovi, possano sempre più “slegare” il sacramento dell’ordinazione e la grazia di stato ricevuta. D’altronde a quello sono stati chiamati.
Lo ha ricordato proprio domenica 17 aprile nella S. Messa con ordinazioni presbiterali: “Riconoscete dunque ciò che fate. Imitate ciò che celebrate perché partecipando al mistero della morte e risurrezione del Signore, portiate la morte di Cristo nelle vostre membra e camminiate con Lui in novità di vita. Portare la morte di Cristo in voi stessi, e camminare con Cristo in novità di vita. Senza croce non troverete mai il vero Gesù; e una croce senza Cristo non ha senso.”

L’esortazione, dunque, con il suo accento al discernimento, pone una nuova sfida alle Diocesi e alla Comunità Cristiana che accoglie ed integra e specie ai sacerdoti per il sacramento della riconciliazione e per il discernimento.
Lo ha ricordato anche il card. Bagnasco presentando l’Esortazione a Genova, il 15 aprile pomeriggio:
“Con acutezza di analisi il Papa indica le difficoltà che facilmente si presentano alla coppia mettendola a rischio: lo fa con fiducia, con la serenità che viene dalla fede nella grazia di Dio e nella buona volontà dei cuori che si sono scelti per la vita. In questo capitolo si entra nelle situazioni più delicate: riprendendo l’insegnamento costante dice che “bisogna riconoscere che ci sono casi in cui la separazione è inevitabile” (n.241), e che “un particolare discernimento è indispensabile per accompagnare pastoralmente i separati, i divorziati, gli abbandonati” (n. 242), e ricorda che “le persone divorziate ma non risposate (…) vanno incoraggiate a trovare nell’Eucaristia il cibo che le sostenga nel loro stato (…), (e) ai divorziati che vivono una nuova unione è importante far sentire che sono parte della Chiesa, che non sono scomunicati e non sono trattati come tali” (n. 242, 243). In questo orizzonte il Papa, facendo suo un auspicio dei Padri Sinodali, invita a considerare l’eventuale “riconoscimento dei casi di nullità” attraverso i Tribunali ecclesiastici oppure, in casi precisi, attraverso il Vescovo stesso (cfr n. 244). Il Papa afferma che “il divorzio è un male, ed è molto preoccupante la crescita del numero dei divorziati” (n.246). Nell’affrontare queste situazioni particolari, usa tre verbi molto presenti nel testo: “discernere, accompagnare e integrare”.”

A noi non resta che accogliere questo dono dell’esortazione e nel contempo correggere, amorevolmente, fraternamente e fermamente, le letture devianti e semplicistiche che ne fanno i commentatori, anche autorevoli, ma lontane dal centro del Magistero e della Tradizione, che pur in crescita continua di autocoscienza, nello Spirito Santo, come ricordato anche dal pontefice ai primi paragrafi dell’esortazione, esso mantiene una “necessaria unità di dottrina e di prassi” ed una feconda continuità per propria natura.

© http://www.lacrocequotidiano.it/ - 19 aprile 2016

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