"Ti consiglio di leggere i cartelli" dice un volontario dell'ufficio stampa a un giornalista appena arrivato nello stadio Helvia Recina, spiegandogli da dove si comincia a descrivere un evento come il pellegrinaggio Macerata-Loreto, "questa notte così strana in cui si cammina verso il luogo in cui Dio si è fatto carne" come la definisce il vescovo di Fabriano, monsignor Giancarlo Vecerrica, promotore di un gesto che si ripete ogni anno dal 1978. 
Guardare i cartelli, scritti all'ultimo minuto con un pennarello e illuminati da una torcia elettrica fissata con il nastro adesivo, o preparati con cura da casa, decorati da led luminosi o incorniciati da complesse architetture di neon, è un modo per capire cosa muove le novantamila persone che si sono messe in cammino per raggiungere la loro meta; i cartelli non indicano solo la provenienza dei singoli gruppi, ma anche la gioia di appartenere a un popolo, a un'"etnia sui generis" come la definiva Paolo vi. 
Dal modellino a intaglio del santuario alle strutture gonfiabili - per ridurre al massimo il peso senza rinunciare alla creatività - con le scritte "Noto", "Lugano", "Buccinasco", incastrati alla bell'e meglio dentro uno zaino o portati in processione - perché di questo si tratta, di una processione lunga una notte - con solennità e compostezza, i cartelli sono il simbolo visibile della decisione di condividere la fatica ma anche la gioia di consegnare tutta la propria storia e le intenzioni proprie e degli amici alla Madonna; nei foglietti piegati in tasca ci sono volti amati, ferite che non si rimarginano, la gioia di un sogno realizzato, insieme all'amarezza per il proprio male e al dolore di non essere neppure capaci di pregare. 

Anche a Loreto si arriva "armati" di luci colorate, che un colpo di vento o un attimo di distrazione bastano a spegnere; l'attenzione a che la fiamma non entri in contatto con la carta è simbolo della cura che meritano i nostri desideri più grandi e più veri, così facili da dimenticare sotto la pressione continua della mentalità dominante. Ma camminando nella notte, per fortuna, la realtà prevale sui pensieri; basta guardarsi intorno per vedere le migliaia di persone che precedono e seguono sulla stessa strada, per ascoltare l'eco dei canti attraverso i campi di Fontenoce, punteggiati di lucciole, e oltre l'abbazia di San Firmano, quando nelle pause tra una testimonianza e una preghiera è ancora possibile ascoltare il gracidare delle rane. Durante il cammino tutto si carica di senso: un distributore di benzina diventa un'oasi dove attingere acqua o riposare due minuti, la tazza di caffè offerta dal vicino a notte fonda o la torcia che illumina il ciglio della strada sono l'aiuto necessario per continuare a camminare. Già a Sambucheto, al termine della prima tappa del percorso, ci si accorge che da soli sarebbe quasi impossibile non cedere al sonno o alla stanchezza. Lungo il cammino tutto parla di una bellezza incontrabile, nascosta nella realtà di ogni giorno, dal profumo dolce dei tigli all'odore acre dei bracieri che ai due lati della piazza, all'ingresso del Santuario, portano verso il cielo le domande dei pellegrini.
A sorpresa, quest'anno è arrivato anche il saluto della Nazionale italiana di Marcello Lippi dal Sud Africa - "Saremo idealmente con voi in questo cammino" - insieme alle intenzioni dei tanti "supporter a distanza". Hanno inviato messaggi e intenzioni via mail (tra cui Aldo Cazzullo, giornalista del "Corriere della Sera", e i fedeli di cinque parrocchie a Chia, in Colombia, che hanno pregato per accompagnare il loro vescovo, Hector Cubillos). Sono giunte le testimonianze di Rose Busingye, infermiera Avsi in Uganda (che ha citato la Deus caritas est, parlando della "pazzia divina" che travolge e riempie di dolcezza la vita di chi incontra Cristo), di tre ragazzi della comunità Pars di Guidonia ("non sono cristiano, voglio solo imparare uno sguardo nuovo sulle cose" ha detto uno di loro), di Claudia Koll (che sta girando un film su La bottega dell'orefice di Giovanni Paolo ii) e di Alessandro Banfi, vicedirettore del Tg5, che ha letto un brano dello scrittore ungherese Imre Kertész, Nobel per la letteratura nel 2002, e un passo tratto da Se questo è un uomo. Come Primo Levi, anche Kertész è un sopravvissuto di Auschwitz; otto anni fa l'Accademia svedese l'ha premiato per il suo Essere senza destino, un'opera "che pone la fragile esperienza dell'individuo contro la barbara arbitrarietà della storia". Per Kertész, vittima del nazifascismo ma anche del totalitarismo comunista che ha messo al bando la sua opera, Auschwitz non è un "corpo estraneo" nella storia del mondo occidentale, ma l'immagine dell'ultima verità sul degrado dell'uomo nella vita moderna.
"Che significa "non sono pronto per un figlio" o "non sono pronto per sposarmi"? - si domanda Laura, in attesa del quarto figlio, durante il cammino, commentando le parole di Claudia Koll sulla nostra paura del "per sempre" - non si è mai pronti per le cose importanti della vita. Per me la certezza arriva solo chiedendo alla Madonna la forza di fare un passo dopo l'altro".
(©L'Osservatore Romano - 14-15 giugno 2010)
