di MAURIZIO GRONCHINella santa messa del giorno di Natale la liturgia della Chiesa ci propone il prologo del Vangelo di Giovanni in cui il figlio eterno di Dio fatto carne (Giovanni, 1, 1, 14) riceve l’appellativo di Verbo, che in greco corrisponde al termine Logos. Quella che a prima vista sembra l’intuizione astorica di una condizione antecedente, da cui discende la comprensione di tutto ciò che segue, in realtà è la conclusione cui giunge l’esperienza credente dei discepoli di Gesù, a partire dalla sua morte e risurrezione. Infatti, proprio grazie alla rivelazione compiuta nell’evento pasquale è possibile attribuire a Gesù Cristo il titolo di Logos. Gli esegeti discutono la complessa questione del Logos giovanneo, in rapporto alla filosofia greca, alla parola di Dio, sapienza, torà e memrà di Jahvé nel giudaismo, a Filone di Alessandria e alla concezione gnostica. La soluzione più accreditata esclude lo sfondo greco-pagano, a favore di quello giudaico-ellenistico.
«Originariamente estraneo al pensiero greco, il concetto neotestamentario di lógos è invece divenuto più tardi il punto d’aggancio della dottrina cristiana alla filosofia greca» (Hermann Kleinknecht). «In complesso l’inno al Logos giovanneo è molto più vicino al pensiero giudeo-cristiano delle origini che non a quello gnostico, e in questo fatto dovrebbe anche ricercarsi il motivo principale della scelta del titolo di Logos […] sulla falsariga del pensiero giudaico-ellenistico, nello stesso modo in cui si è formata la concezione filoniana, cioè come un’adeguata espressione greca che si prestava ad accogliere e unire i due concetti della “parola di Dio” e della “sapienza” (o della torà)» (Rudolf Schnackenburg). Affermando che il Logos è diventato l’uomo Gesù, si potrebbe suscitare l’impressione che la sua venuta nella carne corrisponda a una riduzione rispetto alla maggior ampiezza del Logos. In verità, il processo che guida il pensiero, sia del quarto evangelista che della recezione cristiana antica, va da Gesù Cristo al Logos e non viceversa, da cui deriva la necessaria conclusione — d’importanza decisiva anche per l’odierna teologia delle religioni — che non è possibile pensare a un Logos che non sia identico a Gesù Cristo. Ed è ciò che si può sostenere proprio a partire dal prologo giovanneo, ove viene premessa la comprensione più evoluta di Gesù Cristo, scaturita dal suo evento pasquale, che prende il nome di “incarnazione”. Il problema dell’identità fra il Logos e Gesù di Nazaret si porrà, esplicitamente e per la prima volta, nel contesto della crisi nestoriana (V secolo), con forti analogie a quello contemporaneo del paradigma teocentrico pluralista adottato dalla teologia delle religioni. La conclusione cui si giunge è che tale distinzione/ separazione non sia possibile poiché non c’è un Verbo che non sia identificato con Gesù di Nazareth. […] Né il prologo di Giovanni, né i Padri, né il concilio di Calcedonia sembrano giustificare che dopo l’evento Cristo si dia un’azione del Verbo. Un importante approfondimento del termine Logos, riferito all’azione del Figlio eterno prima dell’incarnazione, venne da autori come Giustino, Ireneo di Lione e Clemente Alessandrino, al fine di illustrare l’influenza universale di Cristo, mediante i lógoi spermatikói sparsi in ogni razza umana, al di là dei confini dell’economia anticotestamentaria, come praeparatio evangelica (Eusebio di Cesarea). «Era difficile trovare una parola più suggestiva. Gli apologisti la usano per rievocare molteplici livelli: quello cosmico, in cui il Verbo è creatore e conservatore del mondo; quello intellettivo, in cui diventa la base e lo strumento della gnosi della rivelazione; quello morale, in cui è il compimento e il riassunto della Legge; quello psicologico, dove spiega il meccanismo del pensiero, dalla “parola della mente” alla “parola proferita”; e infine per quanto riguarda la storia della salvezza, dove il Verbo è il mediatore di salvezza e la parola della rivelazione» (Antonio Orbe). In tal modo, il Logos, secondo i greci principio astratto e fuori dal tempo, relegato al mondo delle idee, assume per i cristiani una tale concretezza da farsi uomo storico, capace di vivere, morire e risorgere. Anche con l’uso di questo titolo, il processo di storicizzazione del kerygma, dapprima nell’ambiente giudeo- cristiano e poi in quello ellenistico, è stato in grado di trasmettere la novitas christiana al prezzo di accogliere e, al tempo stesso, di escludere elementi presenti nella culturaambiente, ovvero di selezionarli in base alla regula fidei.
© Osservatore Romano - 31 dicembre 2015