Il Cammino sinodale della Chiesa italiana si appresta a concludere la sua fase "profetica" con la Terza Assemblea sinodale, in programma a Roma il 25 ottobre 2025, dove sarà votato il Documento di sintesi. La bozza del testo, frutto di un lavoro di sei mesi condotto dalla Presidenza della CEI, dal Comitato del Cammino sinodale e dal Consiglio Episcopale Permanente, è stata approvata dal Consiglio Permanente in un comunicato finale datato 30 settembre 2025.
Nel documento sinodale che attende approvazione il 25 ottobre si legge al punto 30 ne “La cura delle relazioni”:
“… che le Chiese locali, superando l’atteggiamento discriminatorio a volte diffuso negli ambienti ecclesiali e nella società, si impegnino a promuovere il riconoscimento e l’accompagnamento delle persone omoaffettive e transgender, così come dei loro genitori, che già appartengono alla comunità cristiana;
… che la CEI sostenga con la preghiera e la riflessione le “giornate” promosse dalla società civile per contrastare ogni forma di violenza e manifestare prossimità verso chi è ferito e discriminato (Giornate contro la violenza e discriminazione di genere, la pedofilia, il bullismo, il femminicidio, l’omofobia e transfobia, etc.)”
A parte che l’omofobia è termine inventato a tavolino e la Chiesa, e dunque la CEI, dovrebbe avere la chiarezza antropologica e fattuale di utilizzare altri termini realmente personalistici che la contraddistinguono. Ne tratto diffusamente qui Indicazioni teologico-pastorali per la Pastorale delle Persone con omo-affettività e Persone con difficoltà di identità di genere. Mica la Chiesa deve piacere al mondo. Ho già scritto personalmente ad alcuni vescovi ma sembrano oramai in preda a scelte fatte altrettanto a tavolino e nel sottobosco che, al di là delle buone intenzioni, non assumono nessuna logica rispettosa della teologia del catechismo e mal interpretano il magistero di Papa Francesco sia nel versante dell’accoglienza che nel versante della gradualità. Proprio oggi che ricordiamo San Giovanni Paolo II ne calpestiamo il dono magisteriale impostando la pastorale non secondo un principio di gradualità ma nella gradualità del principio. E questo è veramente grave.
È presente una dimensione carsica e febbrile di illogicità che non aiuta realmente le Persone con omo-affettività, né le loro famiglie. Nella prossimità non si deve mai cedere nel lato antropologico che il Vangelo ci dona. Non si attua più la salvezza delle anime ma si pensa semplicemente a ragionare senza fede, perché i pastori rischiano di non cavalcare la crisi come un’opportunità realmente evangelica ma come una cessione al mondo. E non è la prima volta che ciò accade nella storia della Chiesa. Ragionare con chiarezza dottrinale e non mancare di uno iota di prossimità è fatica verso chi vive una discriminazione o una ferita più o meno grave e radicata. Occorre il dono da chiedere tra suppliche e lacrime rilevando sempre la nostra inadeguatezza di prossimità in situazioni pastoralmente impegnative. Reale fatica, fatica pastorale, fatica evangelica e genitoriale. Le scorciatoie sono patinature e non reale conversione ai segni dei tempi e, dunque, promuovere e sostenere termini come omo-fobia è veramente un delirio grave che non aiuta neanche il Bene Comune. Non lo illumina, anzi lo tradisce gravemente. Si smette di “salare” la realtà e se ne assume i caratteri malati ed ideologici.
Sono stato probabilmente il primo ad usare il termine omo-affettività per via del dedicato servizio di prossimità che nel tempo il Signore mi ha donato con persone, uomini e donne, che vivevano o vivono questa tensione. Oramai da circa 35 anni. Imparando sempre ed attingendo ad esperienze chiave ed incontri che il Signore ha preparato nella mia strada sin da quando avevo una tenerissima età. Un filo d’oro di sensibilità in cui il Signore mi ha preparato, senza alcun merito, alla prossimità e alla chiarezza, senza giudizio e rispettando la Persona come un sacrario della presenza di Dio. Tuttavia mai avrei pensato che l’accezione, più volte usata di “tensione” o “tendenza” o che la preposizione “con”, riferita all’omo-affettività, fosse bypassata. È un problema antropologico serio, serissimo.
Come ho avuto modo di chiarire in passato, ampiamente, il termine “persona omosessuale” usato nel catechismo, benché correttamente inteso in tutte le parti del documento che tratta questo argomento, nei punti 2357, 2358 e 2359, è già fuorviante in sé. Scrivevo quasi dieci anni fa:
“Il loro essere anzitutto “persone” è così prezioso che non può essere ridotto alla loro espressione omosessuale. Intendendo per espressione sia gli atti, comunque gravemente immorali, sia la tendenza, più o meno radicata.
Questo approccio che aveva e continua ad avere una sua importanza nella definizione ha esposto però, a mio avviso, inconsapevolmente, a due rischi.
Il primo è che centrando ed accentuando la prospettiva “personalista” distaccandolo dalla sua ineludibile connotazione sessuata, ha aperto fuori la Chiesa ed in alcune frange dentro la Chiesa ad una dimensione di “naturalità” dell’omosessualità. Ad introdurre nella riflessione, pian piano, tale tendenza, come un terzo polo sessuato, originato chissà come.
Ora, non solo la biologia e le scienze comportamentali ci dicono altro, ma anche la dimensione culturale, non come dato appiccicato ma legato strettamente al dato biologico, ci dice ben altro. Si nasce dunque persone uomini e persone donne che possono avere (quindi un dato legato all’accidente e non all’essenza della persona) tendenze e/o comportamenti omo-affettivi.
In effetti, personalmente, correggerei il catechismo in questa definizione. Non parlerei più di persone omo-sessuali ma persone con omo-affettività. Perché appunto non esiste la categoria di “persone omosessuali”, che allora, ripeto, nel Catechismo, non era fraintendibile, ma Persone, uomini o donne che “hanno” tendenze omo-affettive.” (Chiesa e omosessualità: fare chiarezza nella carità).
Il perché poi prediligo il termine omo-affettivo a quello di omo-sessuale lo spiego in quel breve trattato. Ma sul termine ci si può certamente ragionare, l’importante è non smarrire la preposizione “con” che sottolinea la dimensione di tendenza e non veicola la connaturalità, anche in situazioni oramai cristallizzate o fortemente radicate ed esperienzialmente vissute.
Mi sono infatti premurato di far correggere il testo allora pubblicato da eventuali imprecisioni e più recentemente ho scritto l’ampio vademecum, inviato a tutte le diocesi e tradotto in due lingue, che, con maggior chiarezza esprime il mio pensiero e soprattutto sviscera il frutto di tanti anni di prossimità pastorale con le Persone con omo-affettività: Indicazioni teologico-pastorali per la Pastorale delle Persone con omo-affettività e Persone con difficoltà di identità di genere.
Non è un dettaglio inserire la preposizione “con” perché come scrivo chiaramente nel recente saggio:
“NON ESISTONO CRISTIANI LGBTQ+ MA PERSONE. Se desideriamo veramente servire i fratelli e le sorelle non sarà senza prezzo lo sforzo di modificare anzitutto linguaggi e terminologie che creano uno sguardo e una mens dinsinclusiva. Un primo modo comune da rettificare e che viene usato, per comodità (psichica e sociologica) per identificare una determinata realtà è quella di “ghettizzare” e “circoscrivere” tale realtà.
Cominciamo col dire che non esistono Cristiani LGBTQ+ ma Persone (ed è qui il punto) che sperimentano, in forma più o meno radicata ed intensa, una spinta omo-affettiva oppure vivono difficoltà, anche drammatiche, di auto-riconoscimento del loro essere sessuato “anatomico” e “biologico”. Chiamare tali Persone come “Cristiani LGBTQ+” o “Cattolici LGBTQ+” capitola in una forma pietistica di ghettizzazione che ottiene il contrario dell’inclusione, di cui, piuttosto, tutti abbiamo veramente bisogno. E tutti ne abbiamo bisogno in forma bi-univoca. Perché anche chi include viene a sua volta incluso in una relazione significativa. Affermare “cattolici LGBTQ+” esclude questi fratelli e sorelle limitandoli in una categoria “protetta” che ne potrebbe alimentare alcune derive socialmente pessime (e spiritualmente sclerocardiche) quali il vittimismo, il sentirsi perseguitati oltre il reale, racchiudersi in comportamenti e modi “lobbistici”. Pertanto se amiamo questi fratelli e queste sorelle, questi uomini e queste donne, queste Persone, non è assolutamente Bene rafforzare modalità e parole disinclusive. Ci danneggia tutti. Sono tra noi e, come noi, con una dignità partecipata del Divino immarcescibile e incalpestabile e, come noi, chiamate alla Santità e alla conversione.
Varrebbe dunque la pena di purificare il linguaggio da quelle che potremmo considerare mode tipiche del mondo, mode ripiegate su ideologie soggettivistiche che rafforzano il “culto del sé” per usare, invece, una concezione della persona consona alla millenaria tradizione della Chiesa e largamente condivisa. Si eviterà di cadere in una involontaria offesa alla Dignità Personale di questi fratelli e sorelle. “Accompagnare, discernere ed integrare” si riassume bene in unico atteggiamento che è l’Inclusione evangelicamente colta ed assaporata. E, nel farlo, può essere utile pensare che non occorre costruire “ponti” ma piuttosto abbattere dei muri. Muri che non hanno nulla a che vedere con il Santo Vangelo e nulla a che vedere con una morale naturale, preambolo alla libertà del Vangelo. Una Persona è una Persona ed ogni Battezzato è carne di Cristo di cui è bene coltivare e custodire la reciproca appartenenza e il sacrario della coscienza profonda.
Appartenenza e custodia sono una grave responsabilità non invasiva, colma di profondo rispetto e tuttavia reale con cui comprendere che la coscienza di ogni Persona è in formazione permanente e in purificazione permanente, come vedremo tra breve. Qualcuno potrebbe obiettare: “Usiamo questo linguaggio per parlare come loro”. Lo sforzo di avvicinarsi anche nel linguaggio è indice di buona intenzione e di sollecitudine ma il rischio è l’“impantanamento” e la non “incarnazione” che sono alla base di pessima pastorale. Certamente, come Gesù, siamo chiamati ad adattarci al linguaggio dell’interlocutore ma affinché scopra la Sua Dignità Personale e non perché venga confermato nelle deformazioni a cui ha aderito e la Sapienza sta anzitutto nel comprendere che non c’è affatto un “noi” e “loro” ma c’è un “noi” in cui tutti siamo grati e chiamati a crescere, come discepoli di colui che è “Via, Verità e Vita” (Giov. 14,6).
Detto per inciso, dietro “l’impantanamento” potrebbe celarsi quella forma sottile di clericalismo che è vanità.
Vanità di sentirsi migliori, vanità di sentirsi avari possessori di un messaggio piuttosto che “servi inutili” (Lc. 7,10).” (Indicazioni teologico-pastorali per la Pastorale delle Persone con omo-affettività e Persone con difficoltà di identità di genere.)
L’affermazione sinodale di “persona omoaffettiva”, che, probabilmente, ha preso in prestito il termine omo-affettività da alcuni miei vecchi interventi ed ora viene usato disancorandolo dalla tensione, dall’accidente, metafisicamente inteso, ne fa un veicolo di pastorale inautentica e che manca di trascendenza e di reale incarnazione. Non vorrei che dietro ci sia la voglia e il prurito del famoso “cambio di paradigma” tipico di alcuni “teologi” e di alcuni “gruppi”, magari sostenuti da prelati dietro le quinte che, a tavolino, come accennavo, svolgono indebiti pressioni.
Ad esempio, l’appoggio a Padre J. Martin SJ che alcuni prelati, di ogni ordine e grado, hanno fornito, è infatti, in questo e nelle modalità, evangelicamente, scandaloso. Scandaloso e molto grave, anzitutto nei confronti delle Persone con omo-affettività e delle loro famiglie. Non è una pastorale di frontiera quella attuata ma una spinta alla ghettizzazione e disinclusione, senza nessuna creatività evangelica ma assumendo criteri immanentistici e mondani che tradiscono il servizio che la Chiesa è chiamata a fare nel mondo per servire il mandato di Cristo.
Ma come ho ripetuto in diversi contesti, anche or ora citati, questo è quanto di peggio si possa donare ai fratelli e alle sorelle che vivono una tensione omo-affettiva più o meno radicata. Non è più pastorale ma una pacca sulla spalla legittimante un disordine che, francamente, non è accettabile. Anche se viene da teologi, alcuni vescovi e cardinali, tra l’altro ben noti. Anche diversi Vescovi, sul tema fanno una gran confusione e sembrano animati da una “febbre” che li acceca ipervalutando le certamente presenti buone intenzionalità e non considerando bene le Persone e i loro drammi che hanno davanti e che solo il Vangelo illumina, ordina, purifica e sana. Come per tutti noi, ciascuno di noi. Più che una metànoia si cerca di dare una autentica, sostenuta da ideologie storiciste che nulla hanno a che fare con un autentico discernimento nello Spirito dei Segni dei tempi, ma asseconda narcisismi involutivi presenti in alcune storie drammatiche. Negando la Speranza di Cristo. Speranza che accoglie e trasforma proprio perché si incarna non si impantana.
La Chiesa non ha necessità di essere trionfante né piaciona, né dura né molle, semplicemente serva della Verità sull’uomo e su Dio, per questo vive di Carità e di prossimità autentica senza diminuire di uno iota il Vero sull’uomo in Cristo. Cioè la chiamata alla santità. Con tutte le sue bellezze e le sue asperità vivificanti.
Non ci può essere reale accoglienza ed inclusione se si categorizza le persone con omo-affettività in persone omoaffettive anzi si nega a loro una ricerca autentica delle radici della vita affettiva che è sempre legata al desiderio di Dio e alla possibilità, nella Grazia di scoprire la loro vocazione alla santità nella specifica unicità in cui sono da sempre amati da Dio per Cristo nello Spirito Santo.
La dimensione alla coniugalità per ogni uomo e donna non è mai negata ma trasformata nella Grazia.
La castità proposta alle persone con omo-affettività nel catechismo non è un fine sponsale ma un mezzo per la sponsalità che si può esprimere in modi straordinariamente unici ed originali. Sì anche le persone con omo-affettività, benché sperimentino questa spinta omo-diretta e riflessa, disordinata, e che può portare ad un disordine, può essere incanalata in una sponsalità.
Così come la castità è il mezzo perché gli sposi si amino unendosi ed aprendosi alla vita. Così nei Vergini o nei Celibi la castità è mezzo per vivere una coniugalità trasfigurata in un rapporto personalissimo con Cristo e a servizio attento alla comunità. La castità e un mezzo, un consiglio evangelico, per la chiamata alla santità. La “chiamata alla castità”, come viene talvolta detto, è chiamata ad usare il mezzo della castità, per tutti, per ciascuno, perché si sveli la santità a cui siamo chiamati dal Padre. In forme uniche ed originali. Qui opera il discernimento.
Anche le Persone con omo-affettività hanno in sé questa spinta coniugale ma certamente può essere vissuta non omo-affettivamente (il ché sarebbe involutivo) ma solo accolta nella Luce della Grazia in una delle molteplici ed uniche forme possibili che siano donative e che, come tali, rifulgono, per una dimensione mistericamente sponsale, in Cristo. Scrivevo nel recente saggio:
“La tensione omo-affettiva si pone, quindi, già come un disordine di ciò che l’affettività e la sessualità è, pur non costituendo una colpa ma, anzi, per paradosso, alla luce della luce dell’annuncio del Vangelo, come un’opportunità, un canale di possibile virtuosità casta sperimentabile alla Luce della Fede e ponendo la Persona con omo-affettività in un posto privilegiato di compimento di sé nonostante la ferita.”
In sostanza la persona con omo-affettività, poiché tale tensione è uno spettro, con molteplici varianti, talvolta uniche nella dimensione affettiva potrebbe, come tutti, con il mezzo della castità, vivere un compimento sponsale vero e proprio incontrando un partner dell’altrui genere sessuale e ri-costruire una vita affettiva come prevista nel matrimonio. Ad esempio, un uomo con tensione omo-affettiva potrebbe, grazie ad un cammino casto nella Grazia, incontrare una donna e compiere la Sua coniugalità. E questo, con i miei occhi, l'ho potuto con stupore constatare, e non va taciuto.
Oppure, non potendoci essere questo reale cambio di paradigma esistenziale (qui sì che c’è un cambio di paradigma) potrebbe vivere questa tensione alla coniugalità, con il mezzo della castità in una personalissima forma di donazione sponsale. Lo ricorda il n. 2358 del CCC: «Tali persone sono chiamate a realizzare la volontà di Dio nella loro vita, e, se sono cristiane, a unire al sacrificio della croce del Signore le difficoltà che possono incontrare in conseguenza della loro condizione».
Questa conformazione a Cristo e alla Croce del Signore non è un impoverimento coniugale ma, per chi lo coglie, e a chi è dato di intendere in cammino, è un centrarsi alla vera sapienza della coniugalità che apre ad una prossimità, verso Dio e i fratelli, che neanche immaginiamo. Perché qui si colloca la chiamata alla santità. Per tutti, anzi per ciascuno. E questo è il compito dei pastori e tanto più dei successori degli apostoli, prossimità carica di Speranza, senza diminuire le asperità, per la chiamata illuminante alla Santità.
Anche la Persona con omo-affettività dunque, senza cessioni accomodanti sul versante omo-affettivo, può vivere una particolarissima sponsalità per il mezzo della castità.
La castità, dunque, è un mezzo di personalizzazione piena, per tutti. Anzi, per ciascuno. È il mezzo della castità che ti aiuta ad essere Persona, pienamente, perché compie l’essenza in relazione, ragionando in termini ontologici.
Ci si augura, dunque, che il documento proposto non venga approvato in tutte le sue parti perché sarebbe un grave danno alle Persone con omo-affettività e alla comunità ecclesiale. Anzi, che, in tali passaggi, sia profondamente corretto. Altrimenti si capitolerebbe in una grave miopia.
Come dicevo nell’ultimo saggio: “Pertanto è veramente errato che la comunità cristiana si allinei nell’uso di questi termini perché tradirebbe sia i fratelli e le sorelle che vivono una certa tensione e, nel contempo, rafforzerebbe pressioni ideologiche che di cristiano e di evangelico non hanno nulla: Sarebbe omo-fila volendo non essere omo-fobica.” (Indicazioni teologico-pastorali per la Pastorale delle Persone con omo-affettività e Persone con difficoltà di identità di genere.)
Paul Freeman