di EGIDIO PICUCCI Gli studiosi del francescanesimo appaiono ormai concordi nel dire che la conversione di Francesco si debba più all’incontro con i lebbrosi che alle parole del Crocifisso nella chiesa di San Damiano. «Sebbene il racconto sia molto sintetico e senza indicazioni precise su quando e su come l’incontro sia avvenuto — ha scritto Pietro Maranesi (cfr. Fa c e re misericordiam.
La conversione di Francesco: confronto critico tra il Testamento e le biografie) — e abbia avuto un seguito con una permanenza del santo tra i lebbrosi, esso mostra sufficientemente come a Francesco fu chiesto di scendere dalla città di Assisi verso la valle dei poveri per incontrare Dio non nell’eccezionalità della mistica, ma nella povertà della carne di quei reietti. E con essi Francesco fa misericordia; si pone a loro servizio mediante una condivisione reale e solidale della loro condizione, diventando loro fratello». L’esperienza tra i lebbrosi che Francesco avvolge della propria misericordia (e che pare voleva fosse fatta anche da chi desiderava seguirlo) «non conferisce al Poverello una missione speciale a favore della Chiesa, ma ne fa un “fratello” e lo qualifica come “m i n o re ” all’interno della società. La conversione, cioè, non lo chiama a una missione universale, ma a un compito periferico; non a diventare cavaliere, ma fratello; non a difendere e ricostruire la Chiesa, ma a entrare nella marginalità dei poveri per rendere vero il Vangelo della misericordia di un Dio che per amore si è fatto servo cro cifisso». Tra i testi che Francesco ci ha lasciato, ce ne sono due significativi che affrontano problematiche diverse, ma accomunate da una situazione di fondo: il comportamento verso chi ha peccato e verso chi non è ancora cattolico. Quale atteggiamento dovrà assumere il frate minore di fronte a questi due casi? Indubbiamente non quello del «cavaliere che si preoccupa del regno per il quale combatte, ma quello del minore (in questo caso il frate) che si ferma a parlare con il fratello che gli è vicino». Per quanto riguarda il pensiero di Francesco sulla misericordia, gli studiosi invitano a leggere la Lettera di Francesco a un ministro anonimo (cfr. Fonti Francescane). Essa «costituisce uno dei testi più belli e sconvolgenti non solo della produzione letteraria del santo — scrive Maranesi — ma dell’intera letteratura cristiana del medioevo perché la logica evangelica scoperta e vissuta da Francesco con i lebbrosi diventa il metro di misura e lo strumento risolutivo per risolvere lo scandalo delle fragilità morali di chi ci vive accanto e di cui siamo chiamati a prenderci cura». Compresi i «servi di Dio». Al ministro che gli ha scritto chiedendo se è meglio intervenire duramente su un confratello peccatore o nascondersi in un deserto, risponde: «Io ti dico, come posso, per quello che riguarda la tua anima, che quelle cose che ti sono di impedimento nell’amare il Signore Iddio, ed ogni persona che ti sarà di ostacolo, siano frati o altri anche se ti coprissero di battiture, tutto questo devi ritenere come una grazia». Francesco, in sintesi, vuol dire al ministro di non chiedersi come risolvere il problema, ma di riflettere sulla grazia che gli sta offrendo il Signore nel fratello peccatore che gli si avvicina. Grazia che gli consentirà di conoscere meglio se stesso; di chiedersi se ama veramente il Signore, perché quando i fratelli «sono liberi dallo scandalo del peccato», difficilmente egli esaminerà attentamente il proprio cuore; di fronte a uno scandalo, invece, sarà moralmente costretto a chiedersi se ha o no la pazienza di ascoltarlo e l’umiltà di metterglisi vicino, virtù proprie del vero servo di Dio. Con questa risposta pare che Francesco stia rivelando un’esperienza personale: il suo incontro con il lebbroso, certamente non voluto, fu una grazia offertagli da Dio. «Io l’ho scoperto tardi — sembra voler dire Francesco — tu scoprilo prima, così da conoscere meglio l’anima tua (e questa è una vera grazia) e radicarla più profondamente nella logica del Vangelo». Alla grazia della verità si aggiungerà la grazia della vita: lo scandalo, con il quale potrebbe incontrarsi, gli chiederà di «fare misericordia», cioè di entrare nella vita degli altri con il cuore per trasformare il proprio. Il testo che segue nella lettera entra in questo secondo e fondamentale ambito del problema: «E così tu devi volere e non diversamente. E questo tieni in conto di vera obbedienza da parte del Signore Iddio e mia per te, perché io fermamente riconosco che questa è vera obbedienza. E ama coloro che agiscono con te in questo modo, e non esigere da loro altro se non ciò che il Signore darà a te. E in questo amali e non pretendere che diventino cristiani migliori. E questo sia per te più che stare appartato in un eremo». Qualora fosse necessario, Francesco esorta a «imporre la penitenza con misericordia». Non sappiamo se Papa Francesco conosca o no la lettera in questione; è certo, comunque, che ne conosce e ne segue lo spirito. Anche lui, come il santo d’Assisi, «sogna ministri misericordiosi» che «sappiano farsi carico delle persone», che siano «capaci di riscaldare il loro cuore», di «camminare nella notte con loro», di «saper dialogare e anche di scendere nella loro notte», nel loro buio senza perdersi; che «sappiano accompagnarle con misericordia a partire dalla loro condizione» perché gli uomini sono quelli che sono, non quelli che vorremmo che fossero; che «non si chiedano se il ferito ha o no il colesterolo e gli zuccheri alti», ma che vogliano «curare le loro ferite cominciando dal basso e con umiltà». Francesco d’Assisi e Papa Francesco usano parole che si somigliano. Anche se esse non possono cambiare taumaturgicamente il cuore dell’uomo, credenti e non credenti riconoscono d’istinto che se uno parla di misericordia e di perdono gli si spalanca il cuore.
© Osservatore Romano - 5 ottobre 2013