A volte capita di sentire qualcuno che dice: "da ragazzo ho fatto il chierichetto... ho frequentato il collegio dei salesiani... facevo catechismo... ah, miei genitori vanno sempre in Chiesa... " ecc...
Come se l'aver fatto certe cose o frequentato certi luoghi, o certe relazioni significative garantisca il nostro conoscere Gesù. Tanto più se i nostri genitori ci hanno dato un continuo esempio di fedeltà.
Siamo superficiali.
Siamo quelli del sentito dire o dell' "io c'ero". Vogliamo essere "protagonisti" ma senza impegno, con la logica del "mordi e fuggi", "usa e consuma", "cosificando" (cioè rendendo cose ed oggetti) Dio, le relazioni e noi stessi. Ci buttiamo via nella concupiscenza e nella vanità.
Una dimensione superficiale e "leggera", non così grave, in apparenza.
Perché, dunque, Gesù ci chiama "operatori di iniquità"? Cosa abbiamo fatto di iniquo?
Abbiamo compiuto il più tremendo dei delitti: il deicidio!
Pur sapendo chi è Gesù (e lo sappiamo) l'abbiamo trattato come merce di scambio, come un oggetto di supermercato, come una "cosa" da usare per garantire il nostro successo, la nostra stima o anche il semplice "io c'ero!".
Per garantire l'ideologia del politicamente corretto e l'omologazione con la mentalità del mondo. O semplicemente per la schiavitù dorata delle nostre fragilità.
È tipico di noi "credenti" essere operatori di iniquità. Piegare Dio alle nostre miserie e fargli dire ciò che vuole il nostro tornaconto.
Proprio qui, in questo, operiamo qualcosa di cattivo. Proprio in questo siamo cultori di vanità.
Con tutta la nostra razionalità non ragioniamo e "costringiamo" la volontà di Dio ad entrare nei nostri schemi, nelle nostre rassicurazioni, nelle nostre limitatissime volontà.
Invece di portare il "sale" che abbiamo ricevuto, ai fratelli, ci siamo adeguati agli errori e alle strutture del mondo.
All'idolatria del mondo. All'avarizia del mondo. Alla fragilità della nostra persona. Alle costruzioni pagane. Lo ricorda l'apostolo Paolo nelal lettera ai cristiani di Roma:
"... essi sono dunque inescusabili, perché, pur conoscendo Dio, non gli hanno dato gloria né gli hanno reso grazie come a Dio, ma hanno vaneggiato nei loro ragionamenti e si è ottenebrata la loro mente ottusa. Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti e hanno cambiato la gloria dell'incorruttibile Dio con l'immagine e la figura dell'uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi e di rettili." (Rm. 1,21-23)
E queste figure corruttibili sono le ideologie, le costruzioni, le derive psicologiche e pedagogiche, i vaneggiamenti lamentosi, un dolce navigar di superficie mossi dal vento del nulla, che non coglie le bellezze e le fatiche del profondo. Sembra si sia profondi e sapienti ed invece si è professionisti della fuga da sé, da Dio, dalla bellezza della relazione che non gratifica (la relazione che gratifica la cerchiamo come l'aria). Drogati dell'essere drogati. Pieni di vuotidine. Apparentemente cristiani ma sostanzialmente pagani più dei pagani.
Giuda di Keriot siamo noi; sono io.
Io sono, purtroppo e spesso, idolatra. Empio.
Poniamo, spesso gradatamente, le condizioni per un'adorazione perenne di noi stessi fatta di tante piccinerie e avarizie, gelosie e macchinamenti, sprecando innumerevoli doni del tempo ed immense energie nel costruire il castello di sabbia della nostra auto-stima senza guardare a Lui, fonte di ogni bene e di tutto il bene.
Per questo Egli ci dice "non so di dove siete" perché noi per primi l'abbiamo reso "una cosa accanto le altre", un "prodotto da banco", un feticcio del politicamente corretto, un affare totalmente privato, un qualcosa che è al di fuori del nostro quotidiano e del nostro vivere.
Abbiamo cercato di piegare "la Verità" ad un'opinione e ci siamo chiusi la porta della salvezza in faccia con la scusa della democrazia e del buonismo.
Poca democrazia e bontà verso gli altri, infinita verso noi stessi.
Chi avrà il coraggio di andare a scoprire il proprio sé con disarmo per, finalmente, cambiare?
Un discorso auto-flagellante questo? No, purtroppo, la pura realtà.
Ciascuno di noi è "l'omicida" nell'accusa che muove Pietro dopo la Pentecoste: "voi, per mano di empi, l'avete ucciso!" (At. 2,23-24).
Empi sono alcuni pensieri; sono alcune scelte; sono lo strascico della mentalità del mondo con cui cerchiamo di "addomesticare" il vangelo.
Empie le gelosie, le invidie, le mormorazioni, la mancanza di rispetto ai pastori.
Empio è il vivere borghese con un cristianesimo di facciata che, purtroppo, non è solo provincialismo, ma piuttosto sclerocardia, durezza di cuore.
Empie le possessività, le intemperanze, le lussurie del cuore e del corpo.
Empio l'uso ipocrita di tanta psicologia e pedagogia.
Empia la mancanza di ordine e di gerarchia verso ciò che veramente è Vita e dona la Vita.
Questa è la porta stretta, ma è l'unica porta: proclamare Cristo Gesù Signore di tutta la tua vita, dei tuoi pensieri, del tuo progettare, del tuo camminare e del tuo coricarti.
Del tuo gioire e del tuo soffrire;
del tuo giocare e del tuo riposo;
del tuo vincere e del tuo perdere.
Oh, quanto è prezioso perdere se si guadagna tutto.
Qui non importa essere primi o ultimi, ma solo essere suoi; senza riserve.
Tutto il resto non solo non viene da Dio, ma, soprattutto, è inutile che alimenta l'inutile.
Per questo alcuni fratelli e alcune sorelle, magari in situazione di gravissima colpa, ci sorpassano, poi, nel Regno di Dio; perché sono stati generosi, disarmati e pronti nel riconoscere la Grazia che passava, senza perdere il treno della Salvezza riconoscendo la Vita che dona vita.
E qui, alla Sua Luce e Bellezza, hanno frantumato ogni liminale e profonda ipocrisia nello slancio e nello stupore dei piccoli.
Salvatore e Paul