Rassegna stampa formazione e catechesi

Senza mangiatoia non è Natale

natale 13Mario Grech

Nella notte in cui nacque Gesù, Maria «lo depose in una mangiatoia» (Luca, 2, 7). La mangiatoia non è un dettaglio secondario da tralasciare. Possiede invece un significato profondo che ci aiuta a contemplare questo evento, nel quale — usando le parole di San Romano il Melode — «Betlemme ha riaperto l’Eden» (Carme, 10, Proemio, 1, 2). Nell’Eden l’uomo scelse di mettere da parte Dio per fare di testa sua, e per conseguenza egli finì, come gli animali, a ruminare erbe selvatiche (cfr. Genesi, 3, 18) che portano alla morte. A Betlemme, con la nascita di Gesù, nella mangiatoia è disceso dal cielo il Pane che chi lo mangia non vede la morte. Nell’Eden l’uomo si coprì con tuniche di pelli di animali (cfr. Genesi, 3, 21), mentre il Bambino di Betlemme ci ha ridonato la veste di Figli di Dio.

Possano riecheggiare nelle nostre orecchie le parole del profeta Isaia: «Il bue conosce il proprietario e l’asino la greppia del padrone, ma Israele non conosce e il mio popolo non comprende. [...] Hanno abbandonato il Signore, hanno disprezzato il Santo di Israele, si sono voltati indietro»! (Isaia, 1, 3-4). È veramente un peccato che «l’asino possa riconoscere la greppia del padrone» e noi no, forse perché la consideriamo un semplice addobbo, o un accessorio sentimentale del presepe, quando anche la stessa parola latina præsepium significa la mangiatoia.
Nei primi secoli, quando si rappresentava l’evento di Betlemme con icone, mosaici e altre tecniche, gli artisti non mettevano mai Maria e Giuseppe, ma solo la mangiatoia con il bue e l’asino. Questo ci dà a pensare. Si omettevano Maria e Giuseppe non per mancanza di rispetto, ma per una precisa ragione teologica.
Infatti, i padri della Chiesa, nel neonato adagiato nella mangiatoia intravedevano un simbolo eloquente di ciò che comunica la notte santa di Natale: il Verbo di Dio si fece carne e abitò tra noi per riscattare l’uomo da tutto ciò che lo porta a somigliare più alla razza degli animali.
Quando l’uomo fa cose che non sono degne della sua natura, con tono dispregiativo noi osiamo chiamarlo “animale”. Sono tanti quei misfatti che ci fanno retrocedere nella categoria degli “animali”, come quando non ragioniamo, quando i nostri egoismi prendono il sopravvento, quando diventiamo insensibili, quando consciamente commettiamo ingiustizie, quando colpiamo gli altri con le nostre menzogne, quando ci divoriamo a vicenda, quando ci lasciamo guidare dalle nostre passioni. San Paolo nomina queste sortite poco dignitose per noi uomini come «opere della carne»: «fornicazione, impurità, libertinaggio, idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere» (Galati, 5, 19-21). Quant’è vero che «i desideri della carne portano alla morte» e «sono in rivolta contro Dio» (Romani, 8, 6-7).
Come scrive san Cirillo Alessandrino: «[Dio] trovò l’uomo ridotto al livello delle bestie: perciò [Cristo] è stato posto, come fosse mangime, in una mangiatoia affinché noi, avendo abbandonato la nostra vita bestiale, potessimo risalire al grado di intelligenza che benefica la natura dell’uomo. E laddove ci eravamo abbrutiti nell’anima, ora avvicinandoci alla mangiatoia, anzi alla sua propria tavola [dell’eucaristia], non troviamo più mangime, ma pane disceso dal cielo che è il corpo di vita» (Commento al Vangelo di Luca, 1)
La tradizione ebraica immagina Adamo — al quale Dio ordinò di mangiare l’erba campestre (cfr. Genesi, 3, 19) – supplicando con le lacrime agli occhi il suo Creatore: «Ti prego per la Misericordia che viene da Te o Signore, che noi non siamo considerati come il bestiame davanti a te, mangiando l’erba che si trova sulla superficie del campo»; e in una midrash si legge che, quando Adamo dopo il peccato ascoltò da Dio l’ordine di mangiare l’erba, così replicò a Dio: «Signore dell’universo, io e il mio bestiame mangeremo in uno stesso presepe, mangeremo in una stessa mangiatoia». Allora Dio decide di concedergli di mangiare il pane con il sudore della fronte (cfr. Midrash di Avot de-Rabbi Natan).
Il legame tra la mangiatoia di Adamo e quella di Cristo si intravede anche nella tradizione bizantina: il nuovo Adamo sarebbe sceso fino alle profondità della terra, fin nella nostra mangiatoia, per salvare il vecchio Adamo. Sant’Efrem Siro scrive che quando il Re Davide peccò, egli pianse perché si accorse che si era procurato la stessa sorte di Adamo, il quale dal suo trono cadde nel fango (mangiatoia) degli animali. Adamo si lasciò sedurre dagli animali (serpente) e poi diventare simile al serpente stesso.
In quest’ottica spirituale, nella quale la mangiatoia emerge nel suo legame al peccato, i padri della Chiesa insegnano che come l’animale che ritorna sempre allo stesso cibo nella mangiatoia, così l’uomo ritorna sempre al peccato. Sopraffatto dalla sua debolezza egli brama la mangiatoia. Il peccatore si identifica con la mangiatoia. Non di rado san Girolamo dice che la mangiatoia è sporca di fango — nel senso che essa è contaminata dal peccato (cfr. Omelia per la Natività del Signore, ccl 78). Perciò, quando Dio volle incontrare l’uomo, egli andò a cercarlo proprio nella mangiatoia, perché Egli sa che l’uomo è portato a ritornare là. In altre parole la mangiatoia diventa luogo d’incontro tra Dio e il peccatore. Se togliamo la mangiatoia dalla caverna di Betlemme, avremmo messo da parte un elemento importante. La mangiatoia rappresenta ognuno di noi — noi peccatori.
Di conseguenza (che) in questo Natale non ci deve essere nessun peccatore che si tiri indietro sentendosi troppo caricato del peso dei suoi peccati. Nessuno deve lasciarsi spaventare dal Bambino di Betlemme, anche se i suoi misfatti, non degni di un essere umano, lo inducono alla vergogna. Gesù nella mangiatoia significa che Egli è venuto per incontrare gli animali. Quelli che il mondo emargina e marca come “animali” sono chiamati a riunirsi attorno alla mangiatoia, questa volta non per mangiare erba selvatica, ma il Pane che dà la vita. Proprio per questo sant’Agostino accosta la mangiatoia di Betlemme all’altare del Sacrificio perché il pane che si trova nella mangiatoia è lo stesso pane Eucaristico (cfr. Discorso 190. Natale del Signore, 3).
Il Natale senza mangiatoia non è Natale. Un presepe senza mangiatoia non è presepe. Non di rado Luca, in poche righe, menziona per tre volte la mangiatoia. Il bambino «che giace in una mangiatoia» era il segno dato ai pastori per credere che il Salvatore era nato per loro (cfr. Luca, 2, 12). In questa notte santa è la mangiatoia che svela la grandezza dell’amore di Dio così da mandare suo Figlio affinché chi creda in Lui ottenga la vita.
Gesù nacque per essere deposto in una mangiatoia, e se oggi vogliamo che egli nasca di nuovo dobbiamo trovargli una mangiatoia. Non nascondiamo la mangiatoia che si trova nel nostro cuore, che si trova in ogni matrimonio fallito, in ogni famiglia lacerata, laddove ci sono attività che creano sofferenza, ingiustizia e povertà. Non nascondiamo le mangiatoie all’interno delle comunità ecclesiali. Non dimentichiamo che anche se fabbricate in mogano o indorate, le mangiatoie rimangono tali. Gesù vuole nascere in queste situazioni per trasformarle.
Se non fosse per il peccato dell’uomo, Dio non avrebbe mandato Suo Figlio nel mondo e Maria non lo avrebbe «deposto in una mangiatoia». Gesù è il dono del Padre, ma Egli ci fu donato per mezzo di Maria. «Maria è colei che sa trasformare una grotta per animali nella casa di Gesù, con alcune povere fasce e una montagna di tenerezza» (Evangelii gaudium, 286). Maria, trasportata dalla sua dolcezza e tenerezza materna, anche oggi depone Gesù bambino nella nostra mangiatoia, affinché questa sia trasformata da una mangiatoia infangata in trono della Sua gloria apparsa tra noi.

© Osservatore Romano - 22 dicembre 2019



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