Rassegna stampa formazione e catechesi

La “sora morte” di #Francesco e il nostro “frate limite”

transito francesco santa maria
Dai salmi a Fight Club, passando per Pascal e Heidegger, ogni esistenzialismo ha fatto del legame dell’uomo con la morte una delle sue cifre distintive. Non si tratta di essere cupi, tutt’altro: solo l’uomo che sa “contare i suoi giorni” e ricevere la luce e il respiro come doni conosce il senso della gioia

Cammino sui bisogni fondamentali e la filautia

 

Prima parte

Seconda parte


Terza parte

Quarta parte

Quinta parte


Chiamare la morte sorella significa averla come compagna di viaggio per abbracciare meglio Cristo e vivere, nella nostra carne, i suoi misteri di Resurrezione e di vita

            - Perché “sorella” morte?

Perché chiamare la morte “sorella”?

Non è una creatura di Dio. Anzi la morte è entrata nel mondo per effetto del peccato. Perché dunque Francesco la chiama sorella?

Lo spiega Francesco nel Cantico: “Laudato si' mi' Signore per sora nostra morte corporale, da la quale nullu homo vivente pò skappare: guai a quelli ke morrano ne le peccata mortali; beati quelli ke trovarà ne le tue santissime voluntati, ka la morte secunda no 'l farrà male.” (FF. 263)

transito di San FrancescoLa morte è Sorella perché essa è un dono prezioso che ricorda il limite, la delimitazione. Lo ricorda Gen. 3,22 Ora, egli non stenda più la mano e non prenda anche dell'albero della vita, ne mangi e viva sempre!”. La Misericordia di Dio non vuole che l’uomo nel suo disordine egolatrico si distrugga per sempre, “rimanendo confermato” nel male. Gli pone il dono del limite della morte perché possa scegliere se ripiegarsi su se stesso come Caino o dare le primizie come Abele. La morte fisica, dunque, è un dono preziosissimo e Francesco lo coglie. E’ il segno della dignità regale e della nostalgia che abbiamo nel cuore. E’ mezzo per ricordare il destino autentico e veritiero delle sue tre potenzialità e bisogni. Quello di essere amati, quello di identità e quello di amare. E’ un atto di misericordia di Dio che pone l’uomo davanti alla dignità della scelta. Quella del volto abbattuto, della pusillanimità, della fuga da sé. O quella delle primizie, dello slancio del bene e della lode, della gratuità e dello “stare” nella realtà. Dello “stabat”.

In quelle poche e scarne affermazioni del Cantico Francesco non chiama sorella, infatti, la seconda morte, ma la prima. Egli ripercorre poeticamente il rispetto che ha ricevuto da Dio. Anch’egli come Caino era tutto rivolto su di sé, sulle sue ambizioni, sui suoi progetti, sulle sue aspirazioni. Dio irrompe in essi e li “converte”, li ri-orienta verso la fonte e Francesco collabora a questo fiume. “Perché a te, perché proprio a te?” – ripete fra Masseo – «Dico, perché a te tutto il mondo viene dirieto, e ogni persona pare che desideri di vederti e d’udirti e d’ubbidirti? Tu non se’ bello uomo del corpo, tu non se’ di grande scienza, tu non se’ nobile onde dunque a te che tutto il mondo ti venga dietro?». Udendo questo santo Francesco, tutto rallegrato in ispirito […], si rivolse a frate Masseo e disse: «Vuoi sapere perché a me? vuoi sapere perché a me? vuoi sapere perché a me tutto ’l mondo mi venga dietro? Questo io ho imperciò che gli occhi santissimi di  Dio non hanno veduto fra li peccatori nessuno più vile, né più insufficiente, né più grande peccatore di me” (Fioretti, X).

Francesco non dona una risposta ad effetto. Non deve stupire, non cerca l’affermazione di Sé, la vanagloria. Non cerca più “mi piace” e consensi sui social. Non attira con le mode pastorali, con le frasi ed i temi ad effetto. Non dice come Alberto Sordi “venite, venite, che più semo più vordì che c’avemo ragione!”. Non si fa un “selfie”, non si iconizza nella prostituzione dell’immagine di sé. Non si trucca. No! Francesco rende nuda testimonianza nella sua nudità.  Francesco è scavato dallo Spirito perché ha raggiunto la verità di sé e semplicemente spiega il perché e di questo perché si gloria non per se stesso ma perché vede Dio e le sue opere. Come Gesù al ritorno dei 72, esulta nella lode e nel cuore, danza e canta: “Ti rendo lode o Padre!” (Mt. 11,25-27).

Per questo la morte è Sorella. Perché compagna di viaggio, compagna del limite. Quel limite che proprio Adamo ed Eva hanno negato in Gen. 3 con il peccato, disordinando i loro buoni bisogni e le loro potenzialità.

Francesco, riconoscendo la delimitazione di Sorella morte, è mite, della beatitudine di cui parla nostro Signore. “I miti erediteranno la terra” (Mt. 5,5). Il limite di Sorella morte quotidiana lo aiuta ad entrare nella mitezza e nel possesso di quella terra qui e ora, già e non ancora, destinata ai miti. A quelli che attendono Dio e a Dio. Fratello limite con Sorella morte apre alla Terra Promessa.

Non è forse un inno alla mitezza quello della “perfetta letizia”? Non è forse una resa totale a Dio tramite i fratelli e la persecuzione, e il morire, reso e in pace, perfino “fuori le mura di Gerusalemme”? Dice qui Francesco:

“Ecco, io torno da Perugia e, a notte profonda, giungo qui, ed è un inverno fangoso e così rigido che, alI'estremità della tonaca, si formano dei ghiacciuoli d'acqua congelata, che mi percuotono continuamente le gambe fino a far uscire il sangue da siffatte ferite. E io tutto nel fango, nel freddo e nel ghiaccio, giungo alla porta e, dopo aver a lungo picchiato e chiamato, viene un frate e chiede: "Chi è?". Io rispondo: "Frate Francesco". E quegli dice: "Vattene, non è ora decente questa, di andare in giro, non entrerai". E poiché io insisto ancora, I'altro risponde: "Vattene, tu sei un semplice ed un idiota, qui non ci puoi venire ormai; noi siamo tanti e tali che non abbiamo bisogno di te" Ebbene, se io avrò avuto pazienza e non mi sarò conturbato, io ti dico che qui è la vera letizia e qui è la vera
virtù e la salvezza dell'anima”. (FF. 278)

E a te, che scrivi e che leggi, chi ti dona il nome? Chi ti dice chi sei? Chi ti ama? Chi ti dona di amare?

                        - La morte di Cristo

Ma c’è un altro motivo per cui la morte è sorella. E Francesco lo scopre proprio passo dopo passo, luce dopo luce, proprio nella pedagogia del Padre.

Nel momento che Cristo è morto, per poi, dopo il sepolcro, risorgere, la morte è preziosa. “Preziosa è la morte dei tuoi fedeli” (Sl. 115,15).

Francesco lo aveva scoperto a San Damiano nel crocifisso sofferente ma gloriosamente danzante di quella antica icona bizantina. Dall’icona il Cristo sofferente esce, glorioso, quasi danzante e si fa carne nel lebbroso. Questo abbraccia Francesco. Cristo sofferente, morente, pronto senza sconti, alla morte, all’obbrobrio, al fetore della carne infetta. Sorella Morte Quotidiana. Da qui partirà la spiritualità di immagine del crocifisso tridimensionale a cui siamo abituati nelle odierne rappresentazioni del crocifisso, che prima, anche artisticamente, non esistevano. Basti guardare lo splendido crocifisso ligneo di Fra Innocenzo da Palermo a San Damiano.

Andiamo a morire con Lui”  (Gv. 11,16) grida, profeticamente, san Tommaso. Francesco qui viene educato nella trasformazione che la grazia opera in lui: quello che mi sembrava amaro si trasformò in dolcezza di animo e di corpo” (FF. 110).

La morte non è solo un dono di Dio che pone il retto limite del reale, creaturale. Essa è anche un mezzo di “conformazione” di “affezione” a Cristo. Il mezzo con cui, poveramente, come possiamo, schiudiamo il battesimo ricevuto e la sua grazia, il “debito nello Spirito” (Rm. 8,12-13) e aderiamo mistericamente alla morte di Cristo per partecipare alla Sua Resurrezione. La conformazione nella morte avviene per amore, per sponsale compassione, per “simpatia” (συμπάθεια), col desiderio di assomigliare a Gesù, anzi soprattutto di stare con Lui.

Di fatto questo porta a vedere la “morte”, quella quotidiana, le molti morti, come un preludio. Non si può chiamare la morte “sorella” al termine della vita senza avere vissuto con lei quotidianamente e scientemente, cioè con luce, scienza e sapienza. Senza aver fraternizzato con la morte, come la si può chiamare sorella? Senza lodare e ringraziare Dio per ogni volta che la morte si affaccia alla nostra casa, come potremmo fare un beato transito?

La minorità di Francesco non è altro che un ripercorrere i passi di Cristo kenoticamente facendo il contrario di quanto fatto da Adamo ed Eva. Mortificando, frustrando, ove necessario, piegando, digiunando, ri-orientando i bisogni principali di cui abbiamo parlato.  Dove c’è appropriazione, Francesco pone l’espropriazione, la povertà. Ripetiamo, non come luogo sociale di appartenenza ma come mezzo di restituzione e di vera ri-appropriazione di sé nella libertà che dona Dio.

Francesco guardava a Gesù alla sua fatica umano-divina di camminare tra gli uomini. A quella gioia traboccante carica di impegno misericordioso per l’uomo.  Affermando che egli conosceva solo “Gesù povero e crocifisso” rivelava che aveva meditato, gustato, per immersione disciplinata e costante, la passione del Signore. Altrimenti come avrebbe potuto avere le stimmate nella carne e di quella forma e specie? La morte di Cristo è stata la sua compagna quotidiana. Il permanere di Cristo nudo e povero sulla croce è stata la sua regola, la “forma del Santo Vangelo”. Certamente Francesco avrà visto che lo “stare” sulla croce non era possibile che per grazia e affezione. Che la conformazione è sovrumana eppure, in qualche povera misura, possibile ad ogni creatura, ad ogni battezzato.

Gesù, come ricorda in alcuni brevi e bellissimi pensieri, don Fabio Rosini, rifiuta sulla croce quel “narcotico” di acqua e aceto che rendeva più sopportabile il supplizio. Nonostante la tremenda sete maturata dalla notte insonne e dall’angoscia per tutto il peccato di ogni uomo e di ogni tempo che posava, come immensa piramide rovesciata, in un unico punto. Nonostante la emato-idrosi. Nonostante poi le percosse dalla flagellazione con verghe e flagellum. Nonostante il cammino al Calvario carico della Croce. Gesù, crocifisso, nella fatica del respirare e nell’arsura tremenda della sete, non vuole intontirsi; assaggia la bevanda, capisce e la rifiuta, vuole essere presente e lucido totalmente per chi porta nel cuore, il Padre e noi, ciascuno di noi.

In quel rifiuto lucido sono stato benedetto. Siamo stati benedetti e amati.

Questa morte nella morte di Cristo, questo rifiuto all’anestetico, pur lecito e necessario, di un tale pre-supplizio e di quel supplizio porta al dono di Parole che ricreano e che schiudono l’eternità nel tempo:

“Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno” (Mt. 23,34)

Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato” (Sl. 21,2-9; Mc 15,33-34)

“In verità ti dico, oggi, tu sarai con me in Paradiso” (Mt. 23,43)

 “«Donna, ecco il tuo figlio!». Poi disse al discepolo: «Ecco tua madre!». E da quel momento il discepolo la prese nella sua casa.” (Gv 19,26-27)

“Ho sete!” (Sl 21, 12-16; Gv 19,28-29)

“Tutto e compiuto” (Gv. 19,30)

Padre nelle tua mani consegno il mio spirito” (Mt. 23,46)

Cosa sarebbe il Vangelo senza queste parole? Cosa mancherebbe all’incarnazione senza questi pezzi di Cielo? Quanto impoverirebbe il Mistero Pasquale l’assenza di questa pienezza di umanità trasfigurata? Quale volto di Maria avremmo? Quale volto del Padre? Quale Chiesa avremmo?

Ecco Francesco si chiede in fin dei conti questo quando alla Porziuncola morente dice ai suoi frati, alla sua carne, a coloro che rimanevano nel tempo: “Cominciamo, fratelli, a servire il Signore Iddio, perché finora abbiamo fatto poco o nessun profitto!” (FF. 500)

Così, anche noi, davanti alle piccole morti di ogni giorno, chiediamoci quanto la nostra fuga da esse chiuderebbe il Regno a noi e ai fratelli. Quel mio no!, quell’accettazione del mio limite, quella presa in carico di una umiliazione. E se smettessi di fuggire con social, con il super-impegno, con le serie tv, con la rabbia e le proteste, con le distrazioni, magari raffinate, persino con la fuga delle spiritualizzazioni e narcisismi, dei convegni, delle interviste.. ebbene se smettessi di fuggire, quanto questo schiuderebbe il Regno?

Quell’accettare “l’abbraccio indecente del lebbroso” quanto mi cristificherebbe? Quel sopire l’ira, la gola, la lussuria, l’avarizia, l’accidia, la lingua, la mormorazione e la detrazione; quel morire ai vizi, quanto aiuterebbe Gesù ad insaporire la mia vita e quella dei fratelli? Quanto aiuterebbe Gesù Signore a colmare di pienezza il vuoto dentro e fuori di me?

Quanto l’accettazione della morte di un vizio, di una cattiva abitudine, di un habitus mortifero può dischiudere la vita? Alzare il volto? Offrire le primizie?

Non per una coltivazione larvatamente lussuriosa di una “teologia della croce” che alimenta il “demone della tristezza”. Quel vizio e demone che alimenta il peggior sé nell’apparente spiritualissimo disprezzo di sé, verso il nulla. Devastando tutto con la smodata ricerca del bisogno di identità, negando l’identità stessa. Con quella smodata ricerca di sé e del bisogno di identità per cui si afferma “soffro dunque (finalmente) sono”, da perenne crocerossina o perenne salvatore delle situazioni. Da donne che proiettano il proprio bisogno smodato di identità proteggendo, con intontita abnegazione, un leader o un compagno. Oppure come maschi che si ritengono “leader” necessari per la salvezza della specie, di un principio o di principi, di una corrente di pensiero. Se non ci fossi io. In entrambi i casi indispensabili. Sofferenti indispensabili.  “Signore manda me!”, scimmiottando la vocazione profetico-liturgica di Isaia. “Eh, beh, mi sono trovato davanti questa situazione. Come non potevo salvarla?”

Siamo dei poveri illusi.

L’obbedienza spezza questa catena di morte. Catena dorata che però stringe come un garrota e nega la libertà dei figli di Dio, costata a Cristo tutte le morti e la sua morte di Croce. L’obbedienza spezza queste finte chiamate perché ti pone nelle condizioni di ricevere il dono di una chiamata, non di dartela o creartela de te stesso e dalla tua vanità; dal tuo bisogno di identità ferito e gonfiato di vuoto. Quanto ci si può ingannare in questo e quanto c’è bisogno di reiterata igiene nell’umiltà e nelle sante umiliazioni. Persino in una chiamata effettiva scaturita Dio. Igiene, igiene, igiene.

“Altissimo Onnipotente Bon Signore, Tue so’ le laude, la gloria et l’honore, et honne benectione.. Signore cosa vuoi che io faccia?” (FF. 263, 587)

La nostra umile pochezza ed umiliazione serve a far trionfare la potenza di Cristo; e non secondo una logica di efficienza. Lo schiudersi della sua grazia è già donata tutta. Con la sua morte. Il nostro è balbettare. Per quanto perfetto, il nostro amare, è carico di pressapochismo ed approssimazioni. “Non a noi, non a noi, Signore, ma al tuo nome dà gloria!” (Sl. 115,1)

Non esistono super uomini né super donne e tutti siamo, se onesti, dei poveracci. Però amati da Cristo.

“Vanità delle vanità, dice Qoèlet,
vanità delle vanità, tutto è vanità.”
(Eccl. 1,2)

“L'uomo è come un soffio,
i suoi giorni come ombra che passa”
(144,4)

In effetti Havel Havelim (che traduciamo in vanità delle vanità, dal latino) in ebraico si pone più come rafforzativo.  Fiato moltiplicato; nulla esponenziale; siamo nulla.  L’umiltà consapevole e cercata è fondamentale. Umiltà conservata. Se l’autore del libro del Qoelet è Salomone, uomo di immensa sapienza che alla fine si è venduto agli idoli, spaccando il popolo. Quanto a rischio di vanità siamo anche noi? “Non può alcuna persona venire in alcuna notizia e cognoscimento di Dio, se non per la virtù della santa umiltade; imperocchè la diritta via d’andare in su, si è quella d’andare in giù.” (Detti di Frate Egidio, sull’Umiltà).

Eppure, grazie a Cristo che si è fatto carico del nostro nulla, la morte è il luogo dello schiudersi del Pneuma. Nella morte quotidiana e quella della fine della vita, vissuta con Cristo, si può compiere il passaggio (Pasqua) dalla vanità del fiato di sé e del nulla, alla effusione nello Spirito.

Dalla filautia alla sequela. Dalla tristezza alla gioia; gioia piena.

In quel rendere lo spirito, in quel grido e nella spirazione di Cristo (Mc. 15,37) c’è la potenza della Resurrezione e il riempimento dello Spirito a Pentecoste. Da quel grido e quella spirazione l’umanità è riempita. Da quella morte fatta di innumerevoli piccole e grandi morti, Cristo “fa nuove tutte le cose” (Ap. 21,5).

Sorella morte ci aiuta a cogliere questa grazia immersa nel tempo.

                        - La morte nudi e soli

Leggiamo nella Vita Seconda di Tommaso da Celano: “Si rivolse poi al medico: «Coraggio, frate medico, dimmi pure che la morte è imminente: per me sarà la porta della vita! » E ai frati: «Quando mi vedrete ridotto alI'estremo, deponetemi nudo sulla terra come mi avete visto ieri l'altro, e dopo che sarò morto, lasciatemi giacere così per il tempo necessario a percorrere comodamente un miglio».
Giunse infine la sua ora, ed essendosi compiuti in lui tutti i misteri di Cristo, se ne volò
felicemente a Dio”
(FF 850)

La morte di Francesco è avvolta da due desideri, la nudità, nella terra e la custodia del rispetto del momento più sacro. Nudità perché consapevole di restituire tutto, senza orpelli, senza glosse, senza vestiti. Nudità per assomigliare a Cristo, sposo amato. Con l’incontro delle due sorelle del Cantico, Sorella morte e Sorella terra.

Rispetto perché in quel momento la solitudine è preziosa alleata del quid unicum, del momento in cui possiamo dire sì a Dio. Veramente. Non è “solitarietà” o solipsismo, anzi è pienezza di comunione con i fratelli. I quali, però, riconoscono che quella terra, quel momento è sacro, e si tolgono i sandali. Quando Dio si manifesta, in un’anima, in un momento particolare, durante il transito, occorre rispetto. Preghiera.

La nudità di Francesco non è cosa nuova. Anzi è il mezzo efficace con cui egli ha sconfitto altre morti nel suo quotidiano. Leggiamo sempre nella Vita Seconda di Tommaso da Celano:

“..Gli manda dunque il diavolo, una violentissima tentazione di lussuria.
Appena il Padre la nota, si spoglia della veste e si flagella con estrema durezza con un
pezzo di corda. «Orsù, frate asino,--esclama--così tu devi sottostare, così subire il flagello! La tonaca è dell'Ordine, non è lecito appropriarsene indebitamente. Se vuoi andare altrove, va' pure ». Ma poiché vedeva che con i colpi della disciplina la tentazione non se ne andava, mentre tutte le membra erano arrossate di lividi, aprì la celletta e, uscito nell'orto, si immerse nudo nella neve alta. Prendendo poi la neve a piene mani la stringe e ne fa sette mucchi a forma di manichini, si colloca poi dinanzi ad essi e comincia a parlare così al corpo: «Ecco, questa più grande è tua moglie; questi quattro, due sono i figli e due le tue figlie; gli altri due sono il servo e la domestica, necessari al servizio. Fa' presto, occorre vestirli tutti, perché muoiono dal freddo. Se poi questa molteplice preoccupazione ti è di peso, servi con diligenza unicamente al Signore » “
(FF. 703)

Francesco non ha mai mancato di accompagnare la disciplina con un sano umorismo. E questo lo ha sempre aiutato a vincere le tentazioni e a mortificare il proprio io malato. Non solo. Ma l’abitudine a saper morire e a morire bene ha fatto sì che lo Spirito suscitasse in lui la fantasia e la prontezza viva nel fronteggiare le situazioni. Avere per Sorella la morte aiuta ad essere vigili, pronti, fantasiosi, creativi nella carità. La morte come Sorella schiude gli orizzonti della creatività nella carità. Allarga cuore, mente ed occhi.

                        - Dio parla dal e nel roveto

E qui veniamo al punto che compie il nostro bisogno e la nostra potenzialità di amare, il nostro debito nello Spirito. Francesco dall’incontro con il lebbroso, dal dono dei fratelli, dal curare i poveri e bisognosi, dall’evangelizzare ogni uomo, ricco, povero, brigante, soldato, ladro, contadino.. comprende che Dio parla e si manifesta nel limite puntuto delle piccole morti.

Beata dunque la spina quotidiana e beati noi se, in Cristo, ne cogliamo la bellezza.

Mosè, sensibile alla sofferenza del popolo, incontra la vera sensibilità alla sofferenza che è quella di Dio. La violenza genera violenza, non occorre uccidere l’egiziano, come fatto in passato, ma far trionfare il Regno di Dio. Dio parla nel roveto spinoso, dalle sofferenze del popolo (Es. 3,1ss). Questa è una lezione che Francesco comprende bene. Dio parla nella preghiera a San Damiano ma parla anche attraverso le piaghe del fratello. Dio è anche in quelle piaghe, in quelle ingiustizie, in quelle ferite. Mistericamente. E in quelle piaghe c’è anche il grido dell’umanità ferita e disordinata dal peccato.

Francesco capisce che in quell’abbraccio non solo incontra Dio ma incontra la sofferenza dell’uomo che è obnubilato, smarrito, perso, nichilizzato. Francesco incontra il cuore del cuore del peccatore. Francesco in fin dei conti è stato abbracciato nella sua lebbra da Cristo non può non abbracciare. Non può non usare misericordia visto che lui ne è stato inondato.  La morte è sorella perché alleata con Francesco nello scoprire i segni dei tempi, ben prima del Concilio Vaticano II e ben prima della Gaudium et Spes (GS. 4).

Sorella morte lo aiuta a moltiplicare il suo bisogno e la sua potenzialità di amare. Lo educa al dono di sé. Lo educa all’attenzione mariana dei bisogni: Non hanno più vino!” (Gv. 2,3)

Rende Francesco attento al reale, vigilante, pronto, disponibile. Lo rende amante dei poveri e, assieme a Madonna povertà, Sorella morte può rendere profeti. Come Mosè, come Francesco, come i santi che l’hanno coltivata come sorella nella paternità di Dio.

Leggiamo nella Legenda Maggiore di San Bonaventura: .. Benché, poi, con tutte le sue forze stimolasse i frati ad una vita austera, pure non amava quella severità intransigente che non riveste viscere di pietà e non è condita con il sale della discrezione.

Un frate, a causa dei digiuni eccessivi, una notte non riusciva assolutamente a dormire, tormentato com'era dalla fame. Comprendendo il pietoso pastore che la sua pecorella si trovava in pericolo, chiamò il frate, gli mise davanti un po' di pane e, per evitargli il rossore, incominciò a mangiare lui per primo, mentre con dolcezza invitava l'altro a mangiare.

Il frate scacciò la vergogna e prese il cibo con grandissima gioia, giacché, con la sua vigilanza e la sua accondiscendenza, il Padre gli aveva evitato il danno del corpo e gli aveva offerto motivo di grande edificazione.

Al mattino, I'uomo di Dio radunò i frati e, riferendosi a quanto era successo quella notte, aggiunse questo provvido ammonimento: " A voi, fratelli, sia di esempio non il cibo, ma la carità ". (FF. 1095)

Sorella morte lo aveva aiutato anche in questo. La Carità rende pronti e attenti alla voce di Dio ovunque si manifesti, anche attraverso il mistero del roveto spinoso che non si consuma, anche nell’umanissimo bisogno di aiuto e di simpatia, di compassione. Non vengono negati i principi e neanche accantonati temporaneamente con una vanagloriosa epoché valoriale, tipica del selfismo moderno, specie pastorale, a caccia di mode. I principi vengono compiuti in ciò che rimane di più prezioso, la Carità, la stima, l’affetto fraterno in Cristo. La morte aiuta dunque a renderci desti. La buona morte ci fa cogliere l’essenziale e ci aiuta a ri-orientare i bisogni che abbiamo. Quello dell’identità, quello di essere amati e quello maturo dell’amare.  

Cristo mi ama, Cristo mi dice chi sono, Cristo mi dona di amare; ma come? Risponde Sant’Agostino: “Ciascuno è tale quale l'amore che ha. Ami la terra? Sarai terra. Ami Dio? dovrei concludere: tu sarai Dio. Ma non oso dirlo io e perciò ascoltiamo la Scrittura”. (In Io. ep. tr. 2, 14)

Sorella morte e Fratello limite ci aiutino a seguire Gesù, ovunque Egli ci porta; e Dio porti a compimento, in voi, quello che ha iniziato (Fil. 1,6).

Buon cammino di Resurrezione e di discepolato, a tutti e a ciascuno, nella Festa di Santo Francesco. Grazie.


© http://www.lacrocequotidiano.it/ - 4 ottobre 2016

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