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La pedagogia del dolore innocente
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- Creato: 27 Febbraio 2016
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Premessa, Enigma o Mistero?
Il titolo appare impegnativo, perché si tratta di chiedersi se c’è una ragione umana, un significato possibile e plausibile del dolore, soprattutto di quello innocente, e se a quel significato si possa educare. Riconoscere la possibilità di un senso è sempre dare nome alle cose. All’inizio, la Scrittura lo riconosce: dopo che Dio ebbe dato nome alle cose, vide che erano buone. Ogni fatto umano - senza senso - diventa inumano e si avvia verso i possibili percorsi del disumano. È possibile, allora, dare un nome al dolore? Questa è la sfida di don Carlo Gnocchi, che di fronte alla sofferenza chiama il dolore “croce”: è la pretesa che questa realtà così difficile e misteriosa abbia in sé una qualche possibilità di senso (come significato e come direzione). Don Carlo parla di “dolore innocente” (non degli innocenti) quasi a dire che l’inganno, il dolo (= dolo-re) è in qualche modo senza colpa, non porta danno (= non nuoce). Semmai è un dono, che è sempre imprevedibile, inatteso, sorprendente, talvolta addirittura promettente.
“Pedagogia del dolore innocente” del beato don Carlo Gnocchi è il titolo dello scritto-testamento spirituale composto nel periodo della sua ultima dolorosa malattia. Riprende quasi interamente, ampliandolo, il precedente scritto “Suscipe Sancte Pater hanc immaculatam hostiam”. La prima edizione fu distribuita in occasione dei suoi funerali. In un convegno di qualche anno fa sul tema della sofferenza e del servizio ai malati, il cardinale Angelo Scola sostenne come i due trattati sul dolore più originali e significativi del ventesimo secolo - in contesti differenti e con autorevolezza e peso specifico diversi - fossero “Pedagogia del dolore innocente”, di don Carlo Gnocchi (vero e proprio testamento spirituale dell’indimenticato “papà dei mutilatini”, dettato in punto di morte e pubblicato postumo) e la lettera apostolica “Salvifici doloris” (1984) del compianto beato, ed oramai prossimo alla proclamazione a santo, papa Giovanni Paolo II.
Uomini di Dio e amici dell’uomo, profondamente incarnati nel proprio tempo, il santo Karol Wojtyla e il beato don Carlo Gnocchi in questi testi ricchi di umanità e di Vangelo non solo hanno dato una descrizione della sofferenza («Vi sono altri criteri, che vanno oltre la sfera della descrizione, e che dobbiamo introdurre, quando vogliamo penetrare il mondo dell'umana sofferenza»), ma hanno posto interrogativi di fondo e cercato le risposte: un cammino incontro al sofferente per condurlo alla comunione con Cristo, mostrando come accogliere i più fragili sia rendere loro la propria dignità di immagine di Dio.
1. Il beato don Carlo, figura poliedrica dai molteplici profili: testimone della carità e profeta del dolore innocente
Di questo prete, testimone della carità e profeta del dolore innocente, voglio suggerire solo qualche tratto, per me significativo, anche se si corre il rischio di una possibile semplificazione riduttiva, per introdurre il suo straordinario testamento spirituale “Pedagogia del dolore innocente”.
Si può tranquillamente affermare che il presente, abitato dall’uomo postmoderno si apra al futuro ed egli sia in grado di propiziarlo se ha memoria della propria storia. In un tempo - il nostro - nel quale crescono, soprattutto nel mondo giovanile, amnesia e rimozione del passato, fare memoria di un santo è sempre in qualche modo icona dell’eucaristia, perché, in un Santo, rendimento di grazie e gratitudine si danno vicendevolmente la mano. Don Carlo Gnocchi, figura poliedrica (formidabile educatore dei giovani, indimenticato cappellano volontario degli alpini, eroe della solidarietà, padre dei mutilatini, angelo dei bimbi, apostolo del dolore innocente, precursore della riabilitazione, imprenditore della carità, anticipatore del dono d’organi, profeta del dolore innocente) fu sempre fedele alla sua vocazione di uomo vero e di prete autentico.
Ha voluto seguire i suoi giovani, all’oratorio della popolosa e popolare parrocchia milanese di S. Pietro in Sala, all’Istituto Gonzaga dei Fratelli delle Scuole Cristiane e all’Università Cattolica del Sacro Cuore, quando il dovere istituzionale li aveva chiamati alla triste esperienza della guerra. Don Carlo ha consumato la sua esperienza nella terribile sequenza della ritirata di Russia: dalla defigurazione del dolore, della sofferenza, della violenza, della morte alla trasfigurazione della prossimità, del debito verso i suoi alpini.
L’opera “Cristo con gli Alpini” - pubblicata in prima edizione 1942 con recensione di don Mazzolari su “Italia” - rappresenta una narrazione con stile tra diario e confessione di quell’esperienza, così fulgidamente evocata dal compianto mons. Aldo del Monte, confratello cappellano in Russia di don Carlo2 . Scriverà don Carlo ad un amico: «Il Signore mi ha tratto prodigiosamente incolume da una tragica se pur gloriosa vicenda. Sono in Italia sano e salvo. Ringrazi anche lei don Orione per me. A lui mi sono raccomandato sempre. Da lui spero la grazia di spendere completamente questa vita “prorogata” solo per la carità. Come non si può sentirne la passione, dopo tutto quello che ho veduto e sofferto?».
È questo il paradigma di ogni vita umana: quando la croce incontra l’umano, dalla provocazione della sofferenza, talvolta tanto inedita quanto inaudita, nasce una profonda e intima invocazione o, al contrario, esplode la deprecazione disperata della ribellione, del rifiuto, della fuga o la forza incontenibile e prorompente della vita, per la prossimità di chi ti tiene e di dà la mano. Scrive don Gnocchi, in “Pedagogia del dolore innocente”: «Io credo che, quando si arriva a comprendere il significato del dolore dei bimbi, si ha in mano la chiave per comprendere ogni dolore umano e chi riesce a sublimare la sofferenza degli innocenti è in grado di consolare la pena di ogni uomo percosso e umiliato dal dolore».
Fu questa la profezia di don Carlo. Tornano alla mente le parole di Giovanni Paolo II: «All’interno di ogni singola sofferenza provata dall’uomo e, parimenti, alla base dell’intero mondo delle sofferenze appare inevitabilmente l’interrogativo: perché? È un interrogativo circa la causa, la ragione, ed insieme un interrogativo circa lo scopo (perché?) e, in definitiva, circa il senso. Questa è una domanda difficile, così come lo è un’altra, molto affine, cioè quella intorno al male. Perché il male? Perché il male nel mondo? Quando poniamo l’interrogativo in questo modo, facciamo sempre, almeno in una certa misura, una domanda anche sulla sofferenza».
Don Gnocchi ha espresso nella sua vita l’anticipazione trasfigurata della resurrezione, quando anche lui stesso è stato segnato dall’esperienza della morte dei suoi alpini. Per i mutilatini invoca ed esige la restaurazione della persona umana: non si tratta solo di assistere anche solo ciò che resta della vita, ma soprattutto di riabilitare, di abilitare tutto ciò che non c’è, ma che potrebbe esserci: perché la vita possa chiamarsi ed essere vita buona.
2. I tratti fondamentali della Pedagogia del dolore innocente
Evochiamo, solo per cenni fugaci, i profili fondamentali del suo itinerario spirituale:
- il dolore innocente è il “caso limite” che ci dà la chiave per comprendere ogni dolore umano;
- il dolore umano non ha un’attribuzione individualistica; nell’economia cristiana l’umanità forma un’unità vivente e l’arcana solidarietà agisce in senso verticale ed orizzontale; la comunione del dolore innocente (con Adamo e con tutta l’umanità) sta emblematicamente scritta sulla tomba di un bambino (Cimitero “Staglieno” di Genova) “Visse, pianse e morì. Breve compendio della più lunga vita”;
- gli è che tutto si tiene, tutto è corale nella vita, “tutto il mare cresce per una pietra che vi si getti” (PASCAL). Ogni bimbo è parte dell’umanità. Non si può fargli una storia e un destino a parte;
- il dolore non è solo espiazione: è purificazione e redenzione;
- il valore supremo ed arcano del dolore. “Vale anche per i fanciulli la bella leggenda che S. Francesco di Sales applica al Cristo Redentore”;
- occorre vigilare sul rischio che il grande dolore dei bimbi possa cadere in un inutile e insignificante vuoto;
- occorre scoprire nel cuore dei bimbi un incredibile potenziale di fede e di amore: “tutto è nel marmo”. L’arte sta nel saperlo trarre;
- gli uomini, pur tanto solleciti nella valorizzazione dei tesori materiali e ciecamente credenti nella forza delle potenze terrene, non si curano di valorizzare i tesori spirituali nascosti nelle anime degli innocenti;
- la pedagogia del dolore innocente tende ad insegnare ai bimbi che il dolore non si deve tenerlo per sé, ma bisogna farne dono agli altri;
- occorre all’educatore un’opera sottile di sublimazione e di santificazione del dolore innocente;
- è il dono simbolico, portato a Pio XII nel 1950, del chi, monogramma di Cristo (formato da due stampelline, composto da tante perline, ognuna delle quali traeva origine da un intervento chirurgico o da una medicazione sopportati senza lamento);
- il dolore s’invera come complemento della generazione umana e completamento della redenzione cristiana;
- la lotta e la vittoria contro il dolore innocente sono una seconda generazione, non meno grande e dolorosa della prima;
- chi riesce a ridonare ad un bimbo la sanità, l’integrità, la serenità della vita non è meno padre di colui che, alla vita stessa, lo ha chiamato la prima volta;
- si potrebbe domandare se l’inestimabile valore soprannaturale del dolore innocente non possa, almeno in parte, attenuare l’importanza e l’impegno che la scienza, l’arte e la carità congiuntamente mettono nella lotta contro il dolore e contro le sue cause multiformi; risponde, mirabilmente, don Carlo: “Il dolore degli innocenti, nella misteriosa economia cristiana, è anche per la manifestazione delle opere di Dio e di quelle dell’uomo: opere di scienza, di pietà, di amore e di carità. Nella misteriosa economia del cristianesimo, il dolore degli innocenti è dunque permesso perché siano manifeste le opere di Dio e quelle degli uomini: l’amoroso e inesausto travaglio della scienza; le opere multiformi dell’umana solidarietà; i prodigi della carità soprannaturale”;
- per questo don Carlo, nell’introduzione al testo “La Madonna e l’Italia”; quando egli parla della sua opera, evocando il dolore di un bimbo, dice: “La Pro Juventute ha scelto a protettrice ufficiale la Vergine Madre ed a essa ha dedicato e consacrato i suoi collegi. E ciò perché un fanciullo non può, nel dolore, non invocare la mamma; perché la predilezione di ogni madre è necessariamente per il figlio che soffre; perché il dolore di un bimbo, prima di tutto è il dolore delle viscere che lo hanno generato. Per questo la Pro Juventute è l’opera della Madonna”.
3. Il volto della testimonianza personale di Don Carlo: dalla vita alla parola; dalla parola alla vita
Da dove, allora, il valore del suo messaggio? Esso proviene ed è generato dalla sua vita e dalla sua testimonianza. Gli scritti, le molte lettere agli amici raccontano la sua esistenza e testimoniano il suo amore e servizio alla vita dolente. Davvero don Carlo ha incarnato quanto avrebbe più tardi evocato l’amico card. Montini, arcivescovo di Milano e futuro papa Paolo VI: il bisogno, più che di maestri, di testimoni; e si è maestri, perché si è (stati) testimoni: è il circolo ermeneutico virtuoso degli scritti e della vita (delle opere) di don Carlo: dalla vita alla parola e dalla parola alla vita. C’è una testimonianza (marturìa), che nasce dalla profonda condivisione con la morte innominabile, indicibile ed inaudita dei soldati nella ritirata di Russia; è una testimonianza che si fa germoglio negli scritti e nelle opere, per i vulnerati dalla guerra e per i feriti dalla vita o dalla storia.
Possiamo raccogliere in qualche semplice tratto descrittivo il valore della sua esperienza esistenziale, consegnata al suo testamento spirituale (Pedagogia del dolore innocente): una parola che racconta l’evento; un evento che illustra la parola, in quell’ermeneutica esistenziale che fa di un prete un santo.
Don Carlo Gnocchi ha dato un nome al dolore: che è innocente, perché non nasconde inganno o dolo (dolo-re) e non “nuoce” (in-nocente), se ha in sé la potenza della ricostruzione, della riabilitazione, della restaurazione: cioè della “resurrezione”. Come ricorda Giovanni Paolo II: «Per ritrovare il senso profondo della sofferenza, seguendo la Parola rivelata di Dio, bisogna aprirsi largamente verso il soggetto umano nella sua molteplice potenzialità. Bisogna, soprattutto, accogliere la luce della Rivelazione non soltanto in quanto essa esprime l'ordine trascendente della giustizia, ma in quanto illumina questo ordine con l'amore, quale sorgente definitiva di tutto ciò che esiste. L'Amore è anche la sorgente più piena della risposta all'interrogativo sul senso della sofferenza. Questa risposta è stata data da Dio all'uomo nella Croce di Gesù Cristo».
Don Carlo Gnocchi ha condiviso il quotidiano, come luogo della “rivelazione”: l’oratorio, la guerra, il ritorno, la ricostruzione (non solo delle città) ma delle vite ferite e vulnerate degli indifesi, dei vuoti a perdere, degli ultimi della fila: i mutilatini e gli orfani, i poliomielitici, i disabili...
Don Carlo è stato anticipatore e profeta del discorso educativo: educazione del cuore, come valorizzazione del positivo, del residuo, dell’apparentemente povero o fragile: “cum reciditur coronatur”. La pedagogia come anticipazione, accompagnamento, significazione esistenziale, del senso promettente e sorprendente della vita (buona). Don Carlo, non a parole, ma nella concretezza operativa, ha fatto degli ultimi della storia una frontiera dell’umanità; non dove i potenti si sono divisi e si dividono la terra, ma dove si ricostruisce la persona umana. È la restaurazione di cui aveva parlato in un suo memorabile testo: “La restaurazione della persona umana” (1946). Per questo potrà scrivere: “La nostra attitudine interna ed esterna di fronte ad un bambino che soffre per invalidità, per deficienza, per mutilazione, per povertà, per malattia, per ignoranza, per abbandono e per qualsiasi altra causa, deve essere dominata anzitutto da un profondo senso di rispetto, di venerazione; direi quasi di culto....”.
Don Carlo ha in qualche modo dato avvio alla riabilitazione come scienza: infatti scienza e assistenza, riabilitazione ed antropologia, ben-essere e bene sono parole da lui assunte, approfondite, che attraversano le problematiche di questo terzo e nuovo millennio. Nella stagione postmoderna all’acuzie - in sanità - si accompagnano le problematiche della riabilitazione, dell’abilitazione, dell’integrazione sociosanitaria e dell’assistenza: per le malattie croniche, degenerative, irreversibili, incurabili, inguaribili, terminali.
Don Carlo ha iniziato a dare nome alla riabilitazione, vista nell’approccio globale della persona umana (la restaurazione): si tratta della “restitutio ad integrum”, ma anche del blocco degenerativo dell’evento lesivo, di tutte le abilitazioni suppletive e/o compensative, dell’evocazione di funzioni alternative inerti, a fronte dell’insulto di un evento spesso devastante. Don Carlo ha giocato la sua scommessa sul futuro: se il bambino o il giovane è abilitato a cogliere il senso del dolore è per ciò stesso abilitato a vivere dignitosamente la sua esistenza. «Poiché un’ora di dolore fisico o morale, di malessere, di malattia, di insuccesso o di pianto viene per tutti i bimbi e spesso assai frequentemente, l’educatore cristiano deve conoscere le arti delicate e sublimi della pedagogia cristiana del dolore, onde arricchire l’anima dei suoi figli, corrispondere alla sua vocazione di custode e valorizzatore delle loro possibilità spirituali e non defraudare la Chiesa e la società di un apporto sul quale Iddio ha fatto conto, nell’economia generale del mondo».
4. L’attualità del messaggio di don Carlo
Abbiamo visto che don Carlo ha dato il nome di croce al dolore. V’è dunque, nel suo scritto, nella testimonianza di vita una pedagogia, iscritta nel dolore innocente. Ma per rispondere a questa domanda, vogliamo chiederci (a livello singolo, personale, individuale) quali siano gli impedimenti per riuscire a mantenere il dolore nel quadro del senso della vita, o meglio, della vita che ha un senso:
- il titanismo: è giusto che ci sia il dolore. L’uomo non può essere che un lottatore. L’uomo deve diventare un eroe. Qui non si tratta di capire il dolore, non c’è il problema di nominare e interpretare il dolore. La stessa parola del dolore ultimo, che è l’agonia, evoca questo senso della lotta. Ma non possiamo dimenticare che anche Cristo ebbe paura. Anche don Carlo ebbe paura;
- la rassegnazione: il dolore è un subire. Si cerca di ridurre il dolore a un’illusione. Si cerca di sopprimere la coscienza del patire. In fondo è un tirarsi indietro. E’ un fuggire;
- la rivolta: alcuni affermano che non può essere così, perché non deve essere così. C’è una ribellione muta e chiusa. Come quella di Giobbe, che diventa poi, in maniera molto pesante, una ribellione aperta, dichiarata e gridata.
- la disperazione: il bisogno di speranza è radicalmente frustrato, è un abisso nel quale si precipita.
Di fronte a questi quattro impedimenti ci chiediamo: c’è una risposta al dolore personale e individuale? Forse no. Ci sono eventi che, più che dare risposte, pongono interrogativi e possono diventare itinerari. Forse la risposta è solo alla fine.
1.Un primo itinerario, che il dolore (innocente) ci chiede - quello evocato da BONHOEFFER - potrebbe essere definito: come resistenza e resa. “Resa” non al dolore, ma al mistero della vita. E’ un fidarsi, un affidarsi, un confidare nella vita, o per il credente, in Dio. C’è una “resistenza”: io sono più grande del dolore che vivo. Il dolore purifica, segna la vita, fa trovare forme inedite di solidarietà. Quando il dolore è questa resistenza che nasce dalla resa, allora vuol dire che l’uomo l’ha guardato in faccia e che gli ha dato un nome. E può quindi - come il Dio agli albori della storia - balbettare: < vide che era buono >.
2.Un secondo itinerario che il dolore (innocente) mette in luce ed evidenzia inesorabilmente è la dimensione della separazione e dell’individuazione. L’amore di una madre spinge il figlio a uscire dal suo seno, ad aprire la porta di casa. Lo rende capace, in qualche modo, di morire. La morte, nel dolore innocente dei bimbi, ci chiede alla fine due percorsi:
a) il primo è relativo al fatto di essere stati amati e di avere amato al punto di essere capaci di partire, senza che nessuno ci debba condurre per mano. Il bambino, quando è stato amato sufficientemente, è in grado di uscire di casa senza tenere la mano della madre; e dunque può anche uscire di scena. È già sufficientemente sicuro di una presenza che si porta dentro. Sono i primi passi di un processo, che dura tutta la vita. Separandoci ci individuiamo. È partendo che si arriva. E’ il paradosso del simbolo che tiene insieme parole o significati apparentemente contraddittori. Il rischio della cultura contemporanea è che l’uomo viva in maniera divisa, separata, schizofrenica “separazione e individuazione”. Non per nulla la “parola diabolica” (diavolo: dal greco dià-ballo) ha nella sua etimologia il senso del dividere, del separare i due momenti. La separazione, da sola, appare come perdita. L’individuazione, da sola, appare soltanto acquisizione, possesso e invadenza. La morte deve trovarci così pieni delle presenze altrui da essere capaci di partire, senza che nessuno ci conduca per mano. La separazione ultima è l’ultima individuazione. Il passaggio dal “dia-volo” al “sim-bolo” avviene attraverso il dia-logos (dialogo) che relaziona le diversità. Tutto ciò, per don Gnocchi, appare nella sua compiuta verità e nella sua completa evidenza nel “dolore innocente dei piccoli”.
b) Il secondo percorso che il dolore innocente - nel morire - ci richiede è di essere capaci di oblatività al punto di saper consegnare tutto, senza trattenere nulla per noi. La vita continua perché chi muore consegna tutto: la sua esperienza, la sua ricchezza, la sua capacità di amare. Per un bambino che muore, ben si può dire con la Scrittura “Consummatus in brevi, explevit tempora multa” (Sap. 4, 13). La morte così diviene il criterio supremo della vita. Noi siamo quello che diventiamo con le nostre scelte. Questa è la pedagogia del dolore innocente. Siamo, quindi, nella nostra realtà, il giudizio di noi stessi. La morte diventa il criterio della vita perché offre le due indicazioni fondamentali:
interiorità, che si esplicita, soprattutto e in modo particolare, nel dolore. L’interiorità è la capacità di mantenere presenti, dentro di noi i doni che gli altri ci fanno continuamente. Attraverso di essi acquisiamo la nostra identità, la nostra maturità. Interiorità come il “far vivere gli altri dentro di noi”. Diversamente, se c’è poca interiorità, si occupano le cose e si possiedono le persone. In qualche modo potremmo dire, si “colonizza” la vita;
oblatività, che è la capacità di offrire vita agli altri, senza attendere ricambio o gratitudine. Vogliamo non il bene di un altro, ma il bene “per” l’altro. Oblatività come il “far vivere il noi dentro gli altri”.
3. C’è un terzo itinerario sul dolore (innocente) che si riferisce alla dialettica: silenzio e parola. Il silenzio, senza parole, rischia di essere mutismo, ma la parola senza silenzio rischia di essere verbosità, parola effimera. Nella dialettica esistenziale, il silenzio e la parola generano l’incontro. Torna alla mente il pensiero, peraltro inatteso e sorprendente, del filosofo nichilista: “Il grande dolore soltanto, quel lungo, lento dolore che vuole tempo... costringe a discendere nelle nostre ultime profondità... Dubito che un tale dolore <renda migliori>; eppure so che esso ci scava in profondo... Non vorrei alla fine che passasse sotto silenzio la cosa più importante: da tali abissi, da tale grave malanno... si torna indietro rinati, con la pelle cambiata... con sensi più giocondi, con una seconda più pericolosa innocenza nella gioia, più fanciulli e al tempo stesso cento volte più raffinati di quanto per l'innanzi ci fosse accaduto”.
Conclusivamente: possiamo dire che il dolore non è invocato, provocato o evocato da noi. Non siamo noi a chiamare il dolore (innocente). Il dolore chiama noi: dobbiamo riconoscerlo e sapergli dare nome, soprattutto quando esso si annuncia come “innocente”. Il dolore è come la verità; non siamo noi a cercarla; ci viene incontro: agli inizi nell’abbraccio e nel sorriso di nostra madre. Così sarà alla fine, soprattutto per un bambino che muore.
5. La pedagogia del dolore innocente, oggi
Don Carlo ha saputo dare nome, dunque al “dolore innocente”. Cosa ci riconsegna, allora, la sua pedagogia del dolore innocente a partire proprio dall’esperienza della Russia e del breve tempo che lo ha accompagnato sino alla morte? Che cosa annuncia don Carlo all’oggi della nostra storia? Quale scenario socioculturale ci riserva il futuro? Ancora la censura del dolore, della sofferenza e della morte? Don Carlo è attuale, perché ci educa a non nascondere il volto, di fronte a questi eventi difficili, a scommettere su una prossimità esigente, senza distanze di sicurezza.
Cosa annuncia don Carlo all’oggi della nostra convivenza civile? Quale scenario socio-istituzionale ci riserva la sanità, nel nostro e negli altri paesi del mondo? Quello di curare solo il “guaribile”, considerando, subdolamente “incurabile” colui che è considerato “inguaribile”? Quali presupposti antropologici mettere in atto, anche nelle forme corrette dell’universalismo selettivo, quando si vanno a (ri)definire i Livelli Essenziali di Assistenza, come nel nuovo Patto per la salute?
Cosa annuncia don Carlo al domani della nostra storia e della nostra convivenza civile? Mi pare che don Carlo insegni a tutti gli uomini e consegni, soprattutto alla sua Fondazione sulle frontiere del servizio alla vita, itinerari ancora inediti. Sono i paradigmi e gli approcci che:
- accompagnano la persona dentro i percorsi carsici, che le consentono di abitare il proprio nome, segnato dalla malattia lunga e degenerativa;
- si propongono di fare del limite un’invocazione e non una maledizione, perché non chiamano la malattia con il solo nome della perdizione, non considerano la disabilità come ostacolo, ma la accolgono come provocazione e la assumono come una domanda, un grido, un appello per tutti;
- considerano la malattia in-guaribile un evento esistenziale, non da esorcizzare o da maledire, ma che interpella la libertà alla ricerca, nelle pieghe silenziose e misteriose del dolore, di una qualche compatibilità esistenziale. La sofferenza, soprattutto esistenziale, spingerebbe a sottrarre il senso della vita; la fiducia, la solidarietà umana e la prossimità incoraggiano a lasciarglielo. La cura, l’assistenza e la riabilitazione sanno dunque liberare significati inediti e censurati nell’ordinario contesto del vivere; abilitare e riabilitare il tempo della malattia. Malattia, in quanto non solo evento dal quale liberarsi, bensì evento da liberare. In una parola potremmo dire che don Gnocchi appare, come è dei grandi personaggi della storia, contemporaneo ai nostri problemi e ai nostri vissuti. Antesignano della riabilitazione, quando a mala pena si dava dignità all’assistenza; anticipatore in prima persona dei trapianti, quando anche quelli di cornea non erano ancora consentiti dalla legge; profeta della prossimità e della carità, come compimento e radice delle forme anche più mature di giustizia.
Per questo la Fondazione ha deciso di farsi carico e di prendersi cura dei pazienti terminali (con l’avvio di 3 Hospice), del disabili gravi e gravissimi, dei pazienti affetti da SLA, dei pazienti in stato vegetativo permanente/persistente (PVS), dell’oncologia geriatrica…
Io credo si iscriva qui il titolo attribuito a don Carlo: servitore della vita. È il carisma che chiede, soprattutto alla Fondazione, di testimoniare ininterrottamente, in un rinnovato “innesto” del dono degli occhi, perché non solo metaforicamente sia donato, all’opera che porta il suo nome, uno sguardo che dalla cura della persona fragile transiti agli itinerari del prendersi cura; dalla risposta al bisogno (di salute) custodisca e coltivi il desiderio (di salvezza).
L’innesto di uno sguardo nuovo e altro dice anche che non basta la qualità della vita se non è propiziata e custodita la vita di qualità; che non è sufficiente preoccuparsi dell’aggiungere anni alla vita se non ci si preoccupa di aggiungere vita agli anni; che la malattia del senso, quando l’orizzonte del significato è censurato e rimosso, depriva e oscura anche il senso della malattia. Infine lo sguardo di don Carlo GNOCCHI chiede alla Fondazione e al mondo della salute di promuovere la scienza con la prossimità esigente di una compagnia insostituibile: la co-scienza.
“Accanto alla vita, sempre”: è l’icona evocata da Papa Benedetto XVI nel messaggio in occasione della beatificazione di don Carlo in piazza Duomo a Milano, trasformata in autentica cattedrale a cielo aperto con la presenza di oltre 50 mila fedeli. Una vita di eroico testimone di Dio e di coraggioso amico e servitore dell’uomo, condensata in una espressione testamentaria, consegnata ad un’ultima lettera, sazia di amore e carica di futuro: «Altri potrà servirli meglio ch’io non abbia saputo e potuto fare; nessun altro, forse, amarli più ch’io non abbia fatto».
Conclusione
Consegno la conclusione di questa mia breve testimonianza al frammento di un racconto. Si tratta di un passaggio estremamente provocatorio di un libretto molto suggestivo.
È la storia di un bambino di nome Oscar; un bambino di dieci anni, pieno di curiosità verso il mondo, vivace, generoso, con una grande voglia di farsi degli amici. Ma Oscar è malato, e vive in ospedale. Soffre di una grave forma di leucemia, che non può essere curata. I medici non hanno ancora avuto il coraggio di dirglielo, ma Oscar sa benissimo che presto morirà. E’ stata Nonna Rosa a dirglielo. Sempre vestita di rosa, l’anziana dama di carità è l’unica persona adulta con cui Oscar si possa confidare, l’unica con cui stringere un sincero legame d’affetto.
E così quando Nonna Rosa gli propone un gioco un po’ bizzarro, Oscar accetta subito. Le regole sono molto semplici. Basta fingere che ogni giorno duri dieci anni, e poi scrivere, tutti i giorni una lettera a Dio nella quale raccontare le esperienze di un intero decennio, le fantasie e le paure, il rapporto conflittuale con i genitori e l’amore innocente per una bambina ricoverata nello stesso istituto. Tredici giorni, dodici lettere: tenere e coraggiose, ricche di sorprese, di momenti poetici, di personaggi buffi e scapestrati… come la vita.
“Caro Dio,
oggi ho avuto da settanta a ottant’anni e ho molto riflettuto. Ho usato il regalo natalizio di Nonna Rosa. Non so se te ne avevo parlato. E’ una pianta del Sahara che vive tutta la sua vita in un solo giorno. Non appena il seme riceve dell’acqua germoglia, diventa stelo, mette le foglie, fa un fiore, produce dei semi, avvizzisce, si appiattisce e la sera è morto. E’ un regalo straordinario, ti ringrazio di averlo inventato. L’abbiamo innaffiata stamattina alle sette, Nonna Rosa, i miei genitori ed io ho potuto seguire tutta la sua esistenza. Ero commosso. E’ piuttosto gracile e striminzita, non ha nulla di un baobab, ma ha fatto valorosamente tutto il suo lavoro di pianta, come una grande, davanti a noi, in una giornata senza fermarsi. Con Peggy Blue abbiamo letto a lungo il Dizionario medico. E’ il suo libro preferito. Le malattie l’appassionano e si chiede quali potrà avere in futuro. Io ho cercato le parole che mi interessano: <vita>, <morte>, <fede>, <Dio>. Forse non mi crederai, non c’erano! Nota, questo prova già che né la vita, né la morte, né la fede, né tu siete della malattie. Il che rappresenta una notizia piuttosto buona. Però in un libro così serio, dovrebbero esserci delle risposte alle domande più serie, no?”
“Nonna Rosa, ho l’impressione che, nel Dizionario medico, ci siano solo delle cose particolari, dei problemi che possono capitare a questo o a quel tizio. Ma non ci sono le cose che ci riguardano tutti: la Vita, la Morte, la Fede, Dio”.
Questa è la domanda che la medicina narrativa, la medicina della complessità pone quando la terapia non rimuova, censuri o dissimuli il suo riferimento alla vita buona e degna e dunque si interroghi, senza reticenze e falsi pudori, soprattutto nel tempo della malattia lunga, cronica, interminabile, come questo tempo, scandito dai riti e dai ritmi della terapia, possa annunciarsi, nonostante tutto, sorprendente e promettente; altrimenti: vita non è. È la domanda, innocente ed esigente, ad un tempo di Oscar. È la risposta che Oscar, nei templi della medicina, non ha trovato.
Forse per questo Nonna Rosa, mentre scrive lei a Dio l’ultima lettera di Oscar e per Oscar, segnala nel post scriptum: “Negli ultimi tre giorni, Oscar aveva posato un biglietto sul suo comodino. Credo che ti riguardi. Ci aveva scritto: Solo Dio ha il diritto di svegliarmi”.
Mirabile testimonianza di vissuto di pedagogia del dolore innocente!
Fonte: http://www.dongnocchi.it/comunicazioni/interventi/la-pedagogia-del-dolore-innocente-1.2227