Rassegna stampa formazione e catechesi

Immaginifica santità

John Henry Newman

 

Pubblichiamo stralci della relazione di don Nicolas Steeves (Pontificia Università Gregoriana) pronunciata in occasione del convegno «John Henry Newman. Dall’ombra alla luce» che si è svolto presso la Chiesa Nuova venerdì scorso, con il patrocinio del Pontificio Consiglio della cultura.

Al simposio hanno partecipato, tra gli altri, anche Fortunato Morrone (Istituto Teologico Calabro) padre Simone Raponi, della Congregazione dell’Oratorio di San Filippo Neri a Roma, e Rocco Pezzimenti (Università Lumsa) che ha scritto per noi un articolo in cui sintetizza il suo intervento, intitolato «Newman e il problema della storia».

 

Incomincio con un aneddoto personale. L’anno scorso ho dato per la prima volta in Gregoriana un corso sulla fede e sulla credibilità agli studenti principianti di teologia. In futuro s’impegneranno ad annunciare il Vangelo a un mondo che fa spesso ormai orecchi da mercante. Un giorno spiegavo come la Retorica di Aristotele ci aiuti a tenere discorsi più persuasivi, badando ad esempio alla credibilità di colui che parla. Ora, noi cristiani, predicatori del Vangelo con parole e gesti, dobbiamo non solo sembrare virtuosi come i retori greci pagani di una volta, ma inoltre essere dei veri santi, conformi a Cristo predicatore. Altrimenti non saremo credibili per gli uomini e le donne del nostro tempo. Uno degli studenti si stava agitando sulla sedia e alzò la mano un minuto prima della fatidica campanella. Esclamò «Ma prof, è impossibile! Nessuno di noi può farsi santo. Come faremo ad annunciare credibilmente il Vangelo?». Sopraggiunse allora uno dei rari momenti in cui l’aula intera trattiene il fiato. Non era una mera domanda accademica; toccava la vita di tutti i presenti. Risposi allora secondo l’angolatura dell’immaginazione: «Non si tratta di essere santoni come statue in chiesa! San Paolo ci dice che portiamo “il tesoro [della fede] in vasi di creta” (2 Corinzi 4, 7). Oggi i santi più credibili non sono i perfettini, ma quanti nonostante le ferite e il peccato si sono rialzati con la grazia di Dio e hanno un volto da risorto». Suonò la campanella; gli studenti si dispersero. Ma c’era stato uno scambio profondo con tutti gli studenti dell’aula su ciò che è la santità e su come si possa immaginare. Invece di una santità eroica romantica ottocentesca, da statua di gesso smielata ormai non credibile, la santità si può re-immaginare alla luce della Pasqua per convincere il mondo ad ascoltare nuovamente il Vangelo di Cristo. Diceva san Paolo vi: «L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni».

Il primissimo sermone negli otto volumi di Sermoni parrocchiali s’intitola «La santità è necessaria per la beatitudine ventura». Affascinato infatti dalla santità sin dalla gioventù, Newman ce ne dà alcune definizioni bibliche: «amare, temere e obbedire a Dio, essere giusti, onesti, miti, puri di cuore, clementi, avere pensieri celesti, rinnegare se stessi, essere umili e rassegnati… essere tanto religiosi, tanto soprannaturali… divenire una «nuova creatura»… essere separati dal peccato, odiare le opere del mondo, la carne e il diavolo; rallegrarsi nell’osservare i comandamenti; fare cose come Egli vorrebbe che le facessimo; vivere abitualmente come se vedessimo il mondo venturo, come se avessimo rotto i nessi di questa vita e fossimo già morti». Per lui, la santità non riguarda dunque innanzitutto le opere buone compiute, ma un fascio di virtù che sorgono da un modo di guardare fondamentale. La santità secondo Newman è un certo modo d’immaginarsi la realtà.

È vero che molti di noi non si fidano dell’immaginazione perché pensiamo che consista nel fantasticare cose irreali. Ma se Newman apprezza l’immaginazione così tanto, è perché è convinto che «la vita è fatta per l’azione». E se la vita è fatta per agire, allora dobbiamo avere un’immaginazione viva. Questa ci porterà a compiere opere di santificazione, con l’aiuto della grazia. Viceversa, le opere buone compiute nutrono e santificano l’immaginazione. Attraverso tanti sermoni, romanzi, poemi e inni che ha scritto in un inglese squisito, Newman dimostra che la santità va immaginata per essere attraente, così come la santità stessa è un modo d’immaginarsi la realtà. Nel 1854 Newman è chiamato dai vescovi cattolici irlandesi a essere Rettore di una nuova università a Dublino. Coglie l’occasione per proseguire una riflessione già avviata in passato sulla formazione universitaria e che viene pubblicata nel 1858 ne L’idea di Università. Vi spiega che il principio che perfeziona e dà virtù all’intelletto si potrebbe chiamare «filosofia, sapere filosofico, ampliamento della mente o illuminazione» (L’idea di Università, VI, 1, 114). Ora un tale «ampliamento della mente» (concetto caro anche a Benedetto XVI) non è una cosa meramente teorica, né tanto meno un vanitoso ammucchiamento di conoscenze accademiche frammentarie: «È vero ampliamento della mente solo quello che consiste nella facoltà di vedere molte cose nello stesso tempo come un tutto… Essa fa in modo che in un certo senso ogni cosa conduca ad ogni altra; intende comunicare l’immagine del tutto ad ogni parte distinta, finché quel tutto non diventi nell’immaginazione come uno spirito, che ne pervade e ne penetra dovunque le parti costitutive, e dà loro un significato definito» (ibidem 136-137).

Ora, questa facoltà di sintesi, secondo altri scritti di Newman, non è altro che l’immaginazione. Applicata all’intelletto, con la grazia di Dio, forma un paradigma immaginativo che non rende le cose sistematiche e rigide ma le articola per farne un organismo vivo dove vive e soffia lo Spirito Santo. Ora, questo organismo cognitivo, secondo Newman, potenziato da un continuo e santo desiderio che la mente si allarghi, non è per niente estraneo a quella virtù che la Tradizione e la Sacra Scrittura chiamano fede.

Notiamo che Newman non è sempre stato un entusiasta incondizionato dell’immaginazione in tutte le sue forme. Ha sempre avuto sì un’immaginazione attiva, ma ne ha anche sempre (ri)conosciuto sia i lati positivi sia i lati negativi.

Nella Apologia pro vita sua del 1865 Newman cita alcuni appunti stesi all’età di 19 anni: «Speravo allora che Le Mille e una notte fossero vere; la mia immaginazione si nutriva di influenze ignote, di poteri magici e di talismani… Pensavo che la vita potesse essere un sogno o io un Angelo, e che tutta la vita fosse una disillusione». (Apologia pro vita sua, cap. I, 2). Era già ben consapevole degli inganni di una certa immaginazione romantica, a differenza di tanti suoi coetanei troppo entusiasti.

Trent’anni dopo nel 1849, nell’ottavo Discorso a congregazioni miste che Newman tiene da sacerdote cattolico, se la prende a lungo con i romanzieri e poeti dalle apparenze cristiane che in fondo non credono in Cristo. Infatti, Newman ritiene che l’immaginazione di per sé non è niente, anzi può essere un inganno, se non è indirizzata verso Cristo e verso la sua Chiesa.

Il 23 luglio 1857, Newman scrive persino nel taccuino che «è l’immaginazione, non la ragione, a essere la grande nemica della fede» In effetti se la nostra immaginazione si fissa su qualcosa — ad esempio, uno scetticismo accanito contro la fede cristiana — allora la sua persuasività è tale che c’è poco da fare per convertirla con argomenti razionali. L’immaginazione va combattuta sul proprio terreno, con storie, immagini, racconti e arte.

di Nicolas Steeves



© Osservatore Romano - 29 settembre 2019


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