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Il dolore umano e il silenzio dell'abbandono
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- Creato: 18 Luglio 2009
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Far memoria, dopo più di quattro secoli, dei benefici ricevuti dai nostri padri, liberati dalla peste che aveva colpito la nostra città verso la fine dell'estate del 1576, è più che mai ragionevole. Ha lo spessore del bisogno di liberazione particolarmente sentito, quest'anno, dal nostro popolo. In questi ultimi mesi, infatti, siamo stati ripetutamente e duramente colpiti da eventi che ci hanno costretto a guardare in faccia la realtà del dolore e della sofferenza. La loro presa feroce ha provocato profondi strappi nella spessa coltre di distrazione e di evasione con cui sovente attutiamo l'urto della realtà: dalla vicenda di Eluana Englaro, al violento terremoto negli Abruzzi, alla recente sciagura di Viareggio. Per non parlare delle conseguenze, a livello planetario, della crisi economica, del tremendo carico di sofferenze e di morte causato da guerre, terrorismo e repressione, dalle contraddizioni legate ai processi migratori, dalle calamità spesso connesse col degrado ecologico...Ma nessuno di questi mali morde la carne come quelli in cui ci imbattiamo direttamente, quando il dolore e la sofferenza ci sorprendono nella malattia e nella morte dei nostri cari e ancor più di noi stessi.
Personalmente sono stato provocato a mettere a tema del Discorso del Redentore il dolore e la sofferenza durante la Visita Pastorale, incontrando nelle loro case alcuni ammalati gravi o gravissimi. La questione si è fatta per me più urgente, direi indilazionabile, a partire dai volti, dagli sguardi e dalle parole, poche ma radicali, che mi sono state rivolte da loro e dai loro cari.
(...)Vogliamo qui limitarci a riflettere un poco sull'immenso travaglio di dolore e di sofferenza che l'umanità nel suo insieme, ma sempre nella carne dei singoli, deve sopportare. Se - come diceva Agostino - ogni uomo in quanto tale è "una grande domanda" ("magna quaestio"), al cuore della domanda-uomo sta l'interrogativo sulla sofferenza e sul dolore.
"Gli scaffali della farmacia umana
"Con questa colorita espressione Balthasar
descrive i principali tentativi umani di affrontare l'angoscioso
interrogativo del dolore e della sofferenza. Nella sua analisi prende
anzitutto in esame due categorie apparentemente opposte, ma in realtà
accomunate dallo stesso atteggiamento rinunciatario: il "disfattismo" e la "ribellione".
Vorrei dire una parola su queste posizioni, chiarendo subito che
intendo limitarmi a coglierne la radice antropologica senza
esprimere giudizi sulle singole persone.
Il "disfattismo" è obiettivamente alla base della tentazione del suicidio, sia esso attuato in prima persona o "assistito", come si dice a proposito di talune pratiche di eutanasia. Si tratta di una vera e propria "resa
davanti ad un eccesso di sofferenza, pensando così di liberarsene"
(Balthasar). Il cuore dell'uomo percepisce immediatamente l'estrema
fragilità di tale posizione. Anche nel caso, talora richiamato, del
suicidio di certi stoici, esso resta, come diceva Wittgenstein, "il
peccato per eccellenza". Nel suicidio, quando è compiuto in libertà e
con premeditazione, non si offre la vita. La si sottrae a se stessi.
Inoltre una simile soluzione è viziata da un esasperato individualismo
che non mette in conto la sofferenza arrecata ad altri.
La seconda posizione, la "ribellione", è
autocontraddittoria. Per finire non identifica nessuna persona contro
cui ribellarsi. Anche se di volta in volta può chiamare in causa Dio,
l'umanità o il male radicale, in realtà si riduce ad una rivolta per la
rivolta, estrema quanto velleitaria sfida contro il dolore,
nell'illusione di farlo tacere.
Altra è la posizione di chi non si ferma sul soggetto che soffre,
ma si impegna per una riduzione progressiva del dolore nell'orizzonte
di un più generale progetto di miglioramento del mondo: un nuovo
umanesimo in grado di riconciliare l'uomo con la natura (Marx), il
passaggio dal nulla all'essere (Bloch), dalla bestialità alla vera
umanità (Teilhard de Chardin). Un caso particolare è quello di
Nietzsche per il quale il dolore esalta la "natura
bellicosa dell'uomo" preparando il superuomo. Ma la battaglia contro il
male, così concepita, quanta sofferenza del singolo richiede?
Oggi però prende sempre più peso un atteggiamento molto
pragmatico che intende aggredire frontalmente il dolore e la sofferenza
nel tentativo di eliminarli. Nasce dal potere scientifico e tecnologico
che, soprattutto nel campo della medicina, sembra rendere l'uomo
padrone della salute e della vita nella convinzione che, in un futuro
neppure tanto lontano, il dolore e la sofferenza potranno essere
sconfitti.
In questa prospettiva tragedie come quelle dell'Aquila e di
Viareggio diventano una pietra di inciampo (scandalo), perché svelano
il permanere di una marcata impotenza di fronte alla violenza di certi
mali. Rispuntano insicurezza, paura e angoscia. (...)
(...)La Sacra Scrittura illumina aspetti importanti per la comprensione del dolore del mondo (Capitoli 2 e 3 del Libro della Genesi)
senza però preoccuparsi di fornire una teoria risolutiva al riguardo.
Si limita per lo più a descrivere in vario modo l'esperienza che il
credente vive come una prova ultimamente permessa dalla bontà di Dio
per la purificazione della propria fede. "Ringraziamo il
Signore, nostro Dio, che ci mette alla prova, come ha già fatto con i
nostri padri. Ricordatevi quanto ha fatto con Abramo, quali prove ha
fatto passare a Isacco e quanto è avvenuto a Giacobbe in Mesopotamia di
Siria, quando pascolava le greggi di Làbano suo zio materno". Così il Libro di Giuditta
(8, 25-27). Anche il Nuovo Testamento, in modo più essenziale, sostiene
che Dio fa passare dal crogiolo del dolore e della sofferenza coloro
che gli stanno vicini. Così nella Prima Lettera di Pietro (1, 7), in quella agli Ebrei (12, 6) e nell'Apocalisse (13, 19).
Ma all'uomo che sperimenta il male radicale (Kant), il male
ingiustificabile (Nabert), il male innocente (don Gnocchi) la tesi
della permissione del male da parte di Dio può bastare?
Gesù Cristo non ha elaborato alcuna teoria per spiegare l'esistenza del dolore e della sofferenza nel mondo. Egli ha imparato "l'obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto" (Lettera agli Ebrei 5, 8-9) ha attuato un'opera di redenzione in forza della quale ogni sofferenza riceve luce. Per questo "la risposta cristiana al Mistero della sofferenza non è una spiegazione, ma una presenza" (Cicely Saunders).
Nell'opus Dei di Gesù Cristo, il Figlio fattosi uomo per
noi, Colui che poteva non morire, morendo ha inchiodato tutto il male
assumendolo direttamente su di sé. Non ha sperimentato solamente atroci
sofferenze di ordine fisico, ma consegnandosi liberamente alla morte di
croce ha fatto un'esperienza irrepetibile di dolore morale:
l'abbandono da parte del Padre.
Il grido del Salmo 22 - "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?" (Marco
15, 34) - è quello del Figlio, cui il Padre era ben noto. Legato al
Padre nel vincolo dello Spirito, Gesù accettò tuttavia di sperimentare
nella sua persona il dolore radicale della separazione, apparentemente
definitiva, dal Suo Amore. San Paolo scrivendo ai Corinzi usa parole
estreme: "Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore" (Seconda lettera ai Corinzi 5,
21). Che significa questo? Può voler dire soltanto che Gesù fece
l'esperienza del dolore e della sofferenza più radicale: la perdita dell'Amore. Il peccato infatti separa, annulla ogni relazione.
Si intravvede l'abisso del
misterioso dialogo tra la domanda angosciata del Figlio abbandonato
sulla croce e la risposta del Padre, fatta di silenzio. Lo Spirito
Santo però, presente sul Golgota, garantisce il simultaneo "allontanarsi silente come il silente riavvicinarsi" dei Due (Balthasar). Ora "nel silenzio del Padre di fronte alla domanda del Figlio si trova il luogo proprio della sofferenza". Di ogni umana sofferenza.
Gesù ha vissuto questa esperienza liberamente - sponte,
dice sant'Anselmo -. La Sua missione, in obbedienza alla volontà del
Padre, non fu solo la scelta della solidarietà di Dio con l'umanità
sofferente, ma anche una scelta compiuta al nostro posto. Non solo con noi, ma per noi (sostituzione vicaria).
Le sofferenze, la morte e la risurrezione di Gesù hanno la forza di
espiare tutti i peccati del mondo. Siamo di fronte al mistero
insondabile del dolore umano del Figlio di Dio, al dolore abbracciato
dalla libertà umana della Persona divina del Verbo. Niente era più
contrario all'innocenza di Gesù quanto l'espiare (purificare, come si
evince dalla sua radice etimologica ex-pius) per i peccati che non aveva commesso, ma proprio perché è il "Puro" in assoluto, bevendo il calice della sofferenza come antidoto della morte, vince la morte e il peccato in nostro favore.
Ci aiuta a comprenderlo qualche dato di esperienza: per l'uomo è
impossibile compiere imprese encomiabili di qualsiasi tipo senza una
dose elevata di sofferenza; nella vita di ogni uomo non esiste genuina
fecondità senza dolore; soprattutto, l'uomo che compie ingiustizia
viene restaurato nella sua dignità tramite l'espiazione che lo
riconduce nella verità. (Da qui scaturiscono importanti conseguenze per
il sistema penitenziario. La pena infligge una sofferenza il cui scopo
non può essere la vendetta, ma il medicinale recupero nella verità del
condannato).
Il Redentore, morendo sulla croce al nostro posto, svela tutta la fecondità del dolore.
(...)"Perché mi hai abbandonato?":
una domanda filiale che ha come risposta il silenzio paterno. Non una
domanda senza risposta, perché anche il silenzio è una risposta. Non è
forse l'esperienza preponderante che ciascuno di noi fa di fronte alla
sofferenza altrui? Il restare zitti, il non sapere cosa dire.
(...)Il Redentore non ha cercato di cancellare il dolore
attraverso una teoria più brillante delle altre, ma ha compiuto
un'opera di totale immedesimazione nella sofferenza, illuminandone il
significato profondo: la collaborazione alla Sua redenzione del mondo.
Per quanto parlare di espiazione delle colpe del mondo possa
infastidire la nostra sensibilità post-moderna, non possiamo negare
questa realtà. Don Gnocchi, che sarà fra poco proclamato Beato,
condividendo lungo tutta la sua vita il dolore e, soprattutto il dolore
innocente - quello che più ci tenta di ribellione contro Dio, in un
celebre scritto, racconta come i suoi mutilatini, una volta resi
partecipi di questa prospettiva, trovassero energia quasi sovrumana di
sopportazione del dolore. In tal modo il dolore da condanna diventa
merito, da limite espressione di gloria sovrabbondante, da morte
risurrezione.
La sofferenza di Cristo è, quindi, inclusiva, cioè consente
l'accesso alle altre sofferenze, che possono, in unione con la sua,
espiare in modo vicario. San Paolo osa scrivere ai cristiani di
Colossi: "Ora
io sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a
ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne a favore del
suo corpo che è la Chiesa" (Lettera ai Colossesi 1, 24).
Qualche settimana fa un padre, parlando del figlio dodicenne appena morto in un incidente stradale, poteva dire: "Non
è vero che Dio dà e toglie; Dio dona sempre". Qui siamo scesi in
profondità, ben oltre la tesi della pura permissione del male.
Questa consapevolezza non rinuncia all'indefesso impegno teso a
combattere la sofferenza umana, ma - come mostrano le plurisecolari
opere di carità cristiana - sprigiona una creatività non utopica.
Vorrei ora lasciarmi condurre dalla logica
dell'incarnazione propria della fede cristiana a considerare il nostro
comportamento di fronte ad alcuni casi di sofferenza estrema. Spesso,
davanti a queste situazioni-limite, ci smarriamo e sembriamo incapaci
di un atteggiamento costruttivo. Non mi riferisco innanzitutto ad una
fragilità personale nel portarle, quanto piuttosto a una mancanza di
chiarezza nel valutarle.
Sto parlando dei malati in stato vegetativo e di quelli
terminali. Sollevano questioni scottanti che sono, tra l'altro, proprio
in questi giorni, oggetto di dibattito parlamentare. Mi riferisco al
disegno di legge sul fine-vita e a quello sulle cure palliative.
Vista nel quadro delle considerazioni svolte, l'esperienza
dell'uomo provato dalla malattia e dalla disabilità, con l'inevitabile
carico di dolore e di sofferenza, getta luce anche sull'azione
terapeutica della medicina. Questa è autentica solo se l'intervento
lenitivo della sofferenza è proposto all'interno di una visione
integrale dell'uomo.
Infatti, nella salute e, specialmente, nella malattia ("L'uomo nella prosperità non comprende, è come un animale che perisce" ci rammenta con crudezza il Salmo 48), benessere e dolore non sono separabili, come si è visto, da una domanda di significato.
La scienza medica è chiamata a tentare con tutte le sue forze di
far regredire il più possibile i confini della malattia e della morte,
senza mai dimenticare che anche le situazioni di sofferenza estrema, e
perfino il morire, possiedono un significato obiettivo nell'economia
della vita umana.
Non pare falsificabile la convinzione, maturata da molti esperti, che quello che comunemente si chiama "stato
vegetativo" non sia una malattia, ma la più grave delle disabilità. La
vita di chi si trova in questa condizione non dipende dai sempre più
sofisticati strumenti della medicina tecnologica né da una particolare
terapia medica, ma da quello da cui noi stessi dipendiamo per vivere: l'acqua,
il cibo, la mobilizzazione, l'igiene, la relazione e un ambiente
disposto a sostenere le nostre fragilità. Lo stato vegetativo, quindi,
non ha bisogno di straordinarie apparecchiature di supporto delle
funzioni vitali, ma solo di vicariare le esigenze che il malato non è
in grado di assolvere da solo: igiene, movimenti, deglutizione (quindi
alimentazione e idratazione). Forse questa è la più misteriosa delle
situazioni, di grande difficoltà diagnostica, e interroga molto
profondamente sulla dignità della persona umana e sul mistero del suo
essere.
Le tecniche della neuroradiologia funzionale mostrano, a detta dei suoi cultori, che la coscienza di colui che si trova in simile stato non è affatto spenta. Inoltre gli esperti che hanno coniato il termine "stato vegetativo" a proposito della sua presunta irreversibilità affermano che questa categoria "non ha valore di certezza, ma è di tipo probabilistico".
La cura della persona in questo stato è, allora, una
presa in carico semplice, a basso contenuto tecnologico, anche se a
elevato impegno umano e assistenziale. Pur consapevole delle forti
improbabilità di ripresa, sa accompagnare sempre il paziente, senza mai
cadere negli opposti eccessi di un accanimento o di un abbandono.
La letteratura attesta che una simile cura integrale, in taluni
casi, consente di ottenere risultati sorprendenti e assolutamente
inattesi come il recupero stabile della coscienza e la capacità di
alimentarsi per via orale fino al rientro al domicilio.
Secondo gli esperti un "caso" assai diverso è quello dei cosiddetti "malati
terminali", ad esempio quelli affetti da sclerosi laterale amiotrofica
(Sla). È proprio questo l'ambito in cui si aprono gli interrogativi sui
presunti accanimenti terapeutici e sulle pratiche di eutanasia.
Visitando taluni di questi ammalati, mi è sorta una domanda: non
siamo piuttosto noi sani a chiedere la "morte degna", mentre i malati
chiedono una vita degna anche con la malattia, una vita degna fino
all'ultimo istante, fatta di quello che caratterizza l'uomo: la
capacità di amare e di essere amati? Essi hanno il problema del non
abbandono, di qualcuno che li accompagni nel percorso di cura in tutte
le sue fasi e in tutti i suoi aspetti. Raramente ho intuito la decisiva
parte che hanno le relazioni amorose nella cura di un paziente
terminale come quando ho visto tre figli - di 8, 10 e 11 anni -
accudire un padre quarantottenne malato di Sla in grado di comunicare
solo con le palpebre.
Un esempio prezioso e concreto di cosa significhi prendersi cura di questi malati ci viene offerto dalle cure palliative. La moderna definizione di tali cure, data dalla "European Association for Palliative Care", recita: "Le
cure palliative sono la cura attiva e globale prestata al paziente
quando la malattia non risponde più alle terapie aventi come scopo la
guarigione. Il controllo del dolore e degli altri sintomi, dei problemi
psicologici, sociali e spirituali assume importanza primaria...Le cure
palliative rispettano la vita e considerano il morire un processo
naturale. Il loro scopo non è quello di accelerare o differire la
morte, ma quello di preservare la migliore qualità della vita possibile
fino alla fine". "Inguaribile", infatti, non è sinonimo di "incurabile".
Questa definizione appare improntata al più grande realismo. Di
essa devono tener particolare conto i curanti, dal momento che non
pochi studi hanno mostrato che la domanda di eutanasia o suicidio
assistito in pazienti in fase terminale dipende in modo significativo
dall'atteggiamento degli operatori sanitari e dei familiari nei
confronti della vita, della malattia e soprattutto dell'ammalato.
Tra i fattori che influenzano in modo
sostanziale le scelte della persona - sia perché impongono divieti e
riconoscono diritti, sia perché contribuiscono a formare una mentalità
- va annoverato il contesto normativo di un Paese. Per questo il
legislatore deve riporre la massima cura nel fare leggi oggettivamente
giuste.
A proposito della Dichiarazione anticipata di trattamento (Dat),
sento la responsabilità di invitare il legislatore a garantire quei
principi irrinunciabili più volte richiamati dalla Conferenza
episcopale italiana. Nello stesso tempo il pronunciamento legislativo
sulle cure palliative deve essere al più presto attuato e dotato di
tutti i mezzi finanziari perché siano capillarmente praticabili nel
nostro Paese. Risorse economiche adeguate vanno investite anche nella
normale terapia del dolore.
Dolore e sofferenza, nel loro carattere
misterioso consegnato alla libertà di ciascuno di noi, ci hanno portato
al cuore dell'amore trinitario che si è coinvolto con questa
condizione-limite dell'uomo. In Cristo Gesù siamo resi capaci della
paradossale ma umanissima esperienza vissuta da san Paolo: "Nel dolore lieti" (cfr Seconda lettera ai Corinzi
6, 10) e di poter così lenire le sofferenze dei nostri fratelli uomini.
Per questo ci vuole rispetto della vita, pazienza nell'accompagnamento,
ma - soprattutto - educazione al gratuito, all'amore come dono totale
di sé. Questa è la testimonianza che da secoli i cristiani e gli uomini
di buona volontà offrono al mondo. Ieri come oggi, migliaia di persone
sono vicine ai malati, ai moribondi, agli angosciati che hanno perso
tutto, ai troppi provati dalla miseria e dalla fame. L'oceano di carità
che anche nelle nostre terre il popolo cristiano, con umiltà ed
efficacia, offre a chi è nel dolore è il riverbero di quell'eloquente
silenzio che il Redentore non smette di offrirci come credibile
risposta al nostro grido di desolazione.
Ma, soprattutto, sono l'offerta di sé e la preghiera semplice
(Santo Rosario) di quanti sono vittime del dolore di qualunque genere
ad indicarci la grande verità che la vita è fatta per essere donata e
non trattenuta.
(...)In quest'ottica l'accettazione dei mali fisici e il pentimento per
il male compiuto sono alla nostra portata. Perfino la nostra stessa
morte può essere, come supplicava Rilke, personale, se fin dal tempo
della prosperità e del benessere la si guarda come autentico dono di
sé. Lo sapevano bene i nostri vecchi, usi a recitare la preghiera dell'"Apparecchio alla buona morte".
Il mistero del dolore e della sofferenza sta inesorabile davanti a
ciascuno di noi, ma il suo valore è già fin d'ora custodito nel nucleo
incandescente dell'amore trinitario. Per affrontarli ci è stata donata,
quindi, una strada luminosa. A condizione che la libertà di ognuno di
noi li assuma quotidianamente nell'orizzonte dell'autentico amore di
Dio, degli altri e di se stesso.
(©L'Osservatore Romano - 19 luglio 2009)