Rassegna stampa formazione e catechesi

Beato Ildefonso Schuster (1880-1954) Cristo e San Benedetto che moltiplicano il pane eucaristico

Ildefonso Schuster
Per il dopo guerra

a cura di D. Massimo Lapponi

Discorso pronunciato a Montecassino
dal Beato Card. Ildefonso Schuster
il 21 marzo 1942, con l’aggiunta di alcune note di commento

            Il testo qui riportato è una delle pagine più belle del Beato Card. Schuster, e forse la più matura espressione del suo pensiero e dell’ideale che egli coltivò e approfondì senza mai deflettere per tutto il corso della sua vita. La grande crisi dei tempi moderni - che ora sembra aver raggiunto un’intensità senza precedenti, ma che non è di oggi, e ha invece una storia più che secolare - si riflette in tutti i suoi scritti, ed egli si sforza di contrapporre ad essa la grande tradizione benedettina. Ciò che sorprende è il fatto innegabile che egli si trova costretto a fare l’apologia della vita monastica di fronte agli stessi monaci, tra cui egli avverte la presenza strisciante di una crescente crisi di identità - crisi che sarebbe esplosa tragicamente nella seconda metà degli anni sessanta e che avrebbe travolto con sé, nell’ambiente monastico, anche la venerazione per il suo insegnamento.  

            L’oblio che ne è seguito è in parte spiegabile con l’incompletezza dell’analisi del Beato Schuster, il quale, condizionato dai limiti e dai pregiudizi del suo tempo, non poté dare piena e definitiva espressione all’intuizione che fu al centro della sua vita spirituale e che lo animò e lo agitò nei lunghi anni della sua missione monastica e pastorale.

            Nel discorso che viene qui riportato lo sforzo di chiarezza e di completezza raggiunge forse la sua massima intensità, tanto da poter dire che il pensiero del Beato vi trova un’espressione eccezionalmente felice e convincente. Rimane ancora qualche traccia dell’incompletezza di cui si è detto - e naturalmente essa rende parte del discorso datato. Si tratta tuttavia di un aspetto in qualche misura marginale, che con alcune note esplicative si cercherà di  superare, in modo da far risltare l’aspetto più convincente ed efficace de pensiero dello Schuster.

Apparirà in tal modo quanto l’oblio dell’insegnamento del Beato Schuster sia ingiustificato e quanto, al contrario, esso possa contribuire oggi ad una nuova presa di coscienza della grande tradizione benedettina e della sua intramontabile missione, tanto più attuale nella crisi dei nostri tempi.

È con trepidazione, o Venerabili Fratelli e Figli dilettissimi, che mi accingo a parlare in questo luogo santo. Mi sgomenta anzitutto la grandezza del soggetto di cui dovrei discorrervi; mi incute timore la stessa grandiosità di questo santuario della Cattolicità, dove schiere di Pontefici, di Dottori della chiesa e di Santi insigni hanno già fatto prova dello loro eloquenza nell’esaltare la figura sublime del Patriarca san Benedetto.

Mi atterrisce soprattutto la mia pochezza, che mio malgrado, mi fa ripetere: Vir pollutus labiis ego sum (Is 6, 5).

Eppure l’ordine di Colui che l’antica monastica tradizione salutava già siccome il: Vicarius S. Benedicti, l’Angelo voglio dire di questa Chiesa Cassinese, impone che proprio io oggi intessa le lodi del nostro comun Padre e Patriarca, e nel partecipare a questo fraterno Eucaristico Convito, rechi anch’io il contributo di oblazione del mio pane.

Mi sovviene in questo momento di quello che è raffigurato nella grandiosa tela che adorna il vostro monastico refettorio Cassinese dove, vicino a Cristo che moltiplica il pane, è rappresentato anche quel giovanetto di cui scrive nel Vangelo S. Giovanni: est puer unus hic qui habet quinque panes hordeaceos (Gv 6, 9).

Forse oggi la Divina Provvidenza, che non dispregia i poveri e gli umili, attende appunto questi miei cinque esili pani azzimi per rinnovare fra voi ancora una volta il prodigio della moltiplicazione dell’Evangelico pane, che nutre le anime e le allena all’immortalità.

Giacché li volete, o Venerabili fratelli, eccovi i miei poveri cinque pani di orzo: quinque panes hordeaceos. Ve li offro con umile e fraterno amore, mentre voi con pari compiacenza mostrate di aggradirli.

Ai miseri cinque pani d’orzo che questo povero “monachus peregrinus de longinquis provinciis” arreca a voi dalla Metropoli Lombarda, corrispondono altrettanti aspetti sotto i quali considereremo insieme la figura e l’opera del Patriarca san Benedetto.

*   *   *

            Dell’influsso del nostro santo Patriarca sul Medio Evo, se n’è già scritto abbastanza. Oggi desidero invece di meditare e contemplare insieme con voi quella che potrebbe essere l’opera di san Benedetto nell’ora attuale, e soprattutto nel futuro riordinamento del consorzio delle nazioni, calmata che sia, quando il Signore vorrà, l’attuale bufera devastatrice.

            Già si sa che la storia ha dei sorprendenti ricorsi e che, come dice l’Ecclesiaste, spesso il futuro riproduce e ripete l’identico dramma storico che si è svolto più volte nel passato. Ora, a me sembra di scorgere delle interessanti analogie tra l’era nostra e quella in cui visse ed esercitò il suo apostolato san Benedetto. Anche allora, come oggi, una bellica conflagrazione Europea poneva finalmente termine a tutta una grandiosa era storica, e seppelliva la civiltà imperiale di Roma sotto un fumante cumulo di rovine e di cadaveri.

            Di sotto però a quelle macerie, l’opera concorde del Pontificato Romano e del Monachesimo seppero trarre alla luce il nuovo mondo medievale, tenuto quasi a battesimo da san Benedetto.

            Purtroppo, anche la società odierna ha ripetuto la colpa di cui s’era resa rea l’antica Roma che, ebbra allora dell’orgoglio della propria civiltà, aveva apostatato perfino da Giove Ottimo Massimo, sostituendogli il culto di Roma e di Augusto, siccome rappresentanti della Stato Imperiale. La politica s’era sostituita alla religione.

            Oggi, come nel VI secolo, innanzi a questo terribile cataclisma provocato da una crisi che in ultima analisi è eminentemente religiosa, san Benedetto ancora una volta c’indica come supremo rimedio l’immediato ritorno a Dio: Ut ed Eum per oboedientiae laborem redeas, a Quo per inoboedientiae desidiam recesseras (Prolog. Reg. S. Benedicti).

            Questo bisogno d’un sollecito ritorno a Dio, costituisce precisamente il fenomeno più importante dell’ora attuale. I pastori di anime ne hanno ben l’esperienza. Di fronte al colossale fallimento dei grandiosi sistemi politici e morali indipendenti dall’Evangelo, non dirò solo il nostro buon popolo Italiano, ma soprattutto i migliori ingegni del mondo vanno ormai orientandosi verso la Chiesa, siccome l’unica istituzione che non vacilla in questo sconvolgimento di valori e che mantiene gloriosamente fede al suo programma di bene.

            Io penso tuttavia, che sia pericoloso per noi di andare incontro a tutti codesti spiriti aneli - e sono ormai legioni - presentando loro semplicemente degli umani conforti. Per buona ventura, la Chiesa spogliata oramai della potenza politica d’una volta, non li avrebbe neppure più. Perciò san Benedetto accogliendo spesso nelle sue badie codesti nostalgici del Divino, muove loro incontro col semplice codice della Regola, proponendo loro unica condizione di spirituale rinascita: Si revera Deum quaerit: che essi veramente ricerchino Dio (Reg., C. LVIII).

*   *   *

            Questa soprannaturale ricerca del Signore, costituisce propriamente come la chiave di volta di tutto lo spirituale sistema del nostro Santo Patriarca, non pur per i suoi nei chiostri, ma anche per quei poveri idolatri, dispersi altra volta nei diversi paghi che nel sesto secolo circondavano la Città di Casinum. Anche ad essi l’Apostolo insegnò anzitutto a cercare Dio: “Predicatione continua oppidanos ad Fidem vocabat” (S. Gregorii I, Dialog. Lib. C. VIII).

            Dopo sette o otto secoli dalla promulgazione della Regola Benedettina, apparvero nella Cattolica Chiesa altri Istituti Religiosi: tutti certamente venerandi e suscitati dai vari bisogni esterni della famiglia cristiana in un determinato momento storico. Qui la mente vola subito agli Ordini Cavallereschi, ai Frati dediti al riscatto degli schiavi, alla repressione dell’eresia, alla predicazione nelle Missioni, al servizio degli ospedali ecc.

            Quello che invece costituisce la caratteristica del magistero di san Benedetto, prescindendo affatto dalle condizioni storiche dei diversi tempi, e gli assicura una nota di perennità cattolica, si è precisamente l’astrarre che egli fa dalle esterne circostanze della Famiglia Cattolica, per fondare il suo sistema su quello che non soffre mai vicissitudini di tempi, né di luoghi: l’impellente bisogno cioè della natura umana, anzi dello stesso civile consorzio, di cercare Iddio: si revera Deum quaerit.

            Quando questo movimento di spiriti aneli che caratterizza l’ora attuale si sarà allargato; quando l’età nostra, rinsavita dalla dura espiazione della guerra, avrà imparato a sue spese qual male sia l’apostatare da Dio, e pentita muoverà i suoi passi verso la casa paterna, forse allora san Benedetto col suo Codice muoverà nuovamente incontro al figliol prodigo, per restaurare la sua predicazione ai novelli pagani, insegnandoci di bel nuovo ciò che veramente oggi ci manca per giungere ad una pace stabile ed universale: la scienza di Dio: si revera Deum quaerit.

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            San Benedetto occupa un posto di onore, particolarmente nella storia d’Italia. I manuali delle nostre scuole narrano delle benemerenze sociali della sua famiglia spirituale, ed oggi più che mai perfino le più alte Autorità governative, come recentemente l’Eccellenza Bottai, discorrono con compiacenza del programma sociale del Patriarca del Medio Evo Italiano.

            Noto tuttavia, che ben pochi si sono posti il problema, come e perché la famiglia benedettina vada gloriosa per tutto un esercito di Pontefici, di Apostoli, di Martiri, di Dottori e di altri incliti Santi, da giustificare la poetica similitudine di santa Gertrude, quando paragonava l’Ordine Monastico ad un celeste roseto. Un anno, riferisce l’Estatica, il dì di san Benedetto ella vide nel giardino del cielo una vaghissima rosa, dalla quale a sua volta spuntavano altri freschissimi boccioli e rose, sì da formarne in breve tempo uno splendido roseto, che rendeva più bello e più aulento quell’ameno soggiorno dei Beati.

            Tutti codesti giganti della santità Cristiana, codesti titani della nostra cultura latina, come Agostino, Bonifacio, Anscario, Adalberto, che ai loro tempi hanno costruito le diverse civiltà delle varie nazioni d’Europa; codeste aquile, al pari di Gregorio, di Beda, d’Anselmo e di Bernardo, che sulle ali della contemplazione si sono elevati al cielo per indi rapirne e riportarlo al mondo il fuoco sacro della verità e dell’eterno Amore; tutti codesti beati spiriti che noi ora contempliamo in cielo a far bella corona al Patriarca san Benedetto: qui sunt et unde veniut? (Ap 7, 13). Chi sono essi? Chi li formò a sì magnanime imprese? Ho detto che ben pochi hanno studiato il problema. Sta però il fatto confermato dalla storia che, dopo la Santa Scrittura e l’Imitazione di Cristo, nessun libro mai ha informato ad altissima santità tante legioni di anime, quante appunto ne educò la Regola di san Benedetto.

            Oggi, essa tra il pubblico è meno nota; e forse è anche per questo che divengono più rari i grandi Santi. Quando però la nostra età si indurrà veramente a ricercare Dio, e sulla strada incontrerà un’altra volta san Benedetto, è ben possibile che allora, sotto la spirituale disciplina della Regola si formino di bel nuovo quelle grandiose figure di Santi di cui l’età nostra ha soprattutto bisogno. Ricordiamo infatti che, per tracciare sulla carta dei grandi piani di riforme morali bastano bensì dei geni; ma poi per eseguirle, sono assolutamente necessari dei grandi santi.

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            Ma qual è il segreto di questa Regola benedettina, dall’apparenza tanto poco voluminosa, dallo stile così semplice e piano, dall’argomento e dal metodo così eminentemente pratici che, mentre sembra di tenere legittimo conto di tutte le esigenze della debolezza umana, in grazia però d’una mistica scala di ascensioni al cielo, di rinuncie alle umane bassure, mira a sollevare i discepoli alle vette della contemplazione ed alla perfetta carità del Cristo?

            Uno dei secreti dell’efficacia della Regola Santa, va soprattutto ricercato nella sua origine soprannaturale, essendo essa stata dettata, come precisamente pronunciava nell’874 il II Concilio Duziacense, da quel medesimo Spirito Paraclito che ispirò altra volta i Libri Santi: “Eadem Regula Sancto Spiritu promulgata et laudis auctoritate beati Papae Gregorii inter caninicas Scripturas et catholicorum Doctorum scripta teneri decreta est.”

            Non dimentichiamo poi, che san Benedetto redasse il suo Codice immortale in quella medesima superna luce, in cui l’anima sua assorta alla visione del Creatore, in Lui, come in un sole, contemplò l’intera opera sua nel mondo creato: Animae videnti Creatorem, spiega san Gregorio, angusta est omnis creatura. E che meraviglia allora che il veggente dimostri una così profonda cognizione del cuore umano egli che aveva appreso a conoscerne le vie, anzi i meandri, in Colui medesimo che l’ha plasmato? Ho incontrato, studiando, ben pochi Santi che, al pari di san Benedetto, si distinguano per questa soprannaturale discrezione o, come direbbe l’Apostolo, per questa spirituale Humanitas. Con questa parola San Paolo vuole precisamente indicare l’ineffabile condiscendenza del Verbo, quando a mostrarsi uomo fra gli uomini, si fece Carne e si attendò fra noi. “Apparuit benignitas et humanitas salvatoris nostri”  (Tt 3, 4).

            Il Vangelo, la Regola di san Benedetto, la Imitazione di Cristo: ecco pertanto tre libri che si distinguono per la loro Humanitas, per il loro spirito cioè di santa discrezione, che ne rivela perciò la comune origine: il genio di Dio.

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            Negli scorsi giorni ho voluto studiare la più antica rappresentazione pittorica di san Benedetto in Roma. È della fine del secolo VIII, ed è stata ritrovata nella Basilica cimiteriale di S. Ermete. L’artista ce lo rappresenta in vesti liturgiche, adorne di croci, col volume aperto ed in gesto di oratore e di predicatore.

            Quel libro che san Benedetto sorregge colla sinistra, è la Regola, il Breviario cioè del Santo Vangelo per la spirituale formazione di quanti anelano alla perfezione. Per ducatum Evangelii pergamus itinera eius. (Rolog. Regul. S. Benedicti).

            La caratteristica infatti dell’opera di san Benedetto si è che egli, non tanto ha fondato un Ordine nel senso moderno della parola e come hanno fatto in seguito altri Istitutori di diverse Famiglie Regolari; bensì ha inteso di ordinare una specie d’Istituto Superiore, accademia o: Schola Dominici servitii, per la formazione dei santi a servizio della Chiesa di Dio.

            Ciò vuol dire - se pur non m’inganno - che il Patriarca, fedele al suo programma di rigenerare la novella società medievale guidandola direttamente a Dio, - si revera Deum quaerit  - non è stato ordinato da Dio ad apprestare al popolo Cristiano un aiuto contingente e temporaneo, come potrebbe essere quello degli Ordini Equestri o del riscatto degli schiavi. A rendere invece stabile ed universale il suo apostolato nella Chiesa, la Provvidenza Divina ha disposto che il Patriarca, prima a Subiaco, poi in questa Acropoli Cassinese aprisse e fondasse un’alta Schola di santità, dove insegnando l’arte sublime della rinunzia a se medesimo per porsi a servizio del Signore - Dominici Schola servitii - si preparassero i futuri operai di Dio per la rinnovazione dell’Europa di domani.

           

            Dopo avere esposto, con grande efficacia, i fondamenti del suo discorso sulla «Dominici Schola servitii», destinata a preparare, attraverso le sublimi virtù dell’abnegazione e del servizio, i futuri operai di Dio, nelle righe seguenti lo Schuster si mostra meno lucido e finisce per deviare il discorso, additando come esempi gli apostoli delle nazioni, i papi e i dottori. In tal modo l’insegnamento della scuola del serivizio divino sembra restringersi verso l’alto, mortificando, in una certa misura, quell’intuizione sul valore universale della Regola di San Benedetto che costituisce l’ispirazione profonda di tutta l’omelia. Incomincia, così, ad apparire quel limite che il seguito del discorso manifesterà ulteriormente. Ma, come vedremo, lo stesso Schuster ci indicherà la via per poterlo superare.

            Assai prima che il Concilio Tridentino istituisse i Seminari per la sana formazione dei leviti, sin dal VI secolo il Patriarca san Benedetto aveva creato nei suoi cenobi i Seminari dei papi, degli Apostoli delle nazioni, dei Pontefici e dei Dottori. Tutti codesti Padri dei vari popoli d’Europa vennero indubbiamente formati alla scuola di san Benedetto: Dominici Schola servitii.

            Questa scuola conta ormai XIV secoli; ma la Regola racchiude in se stessa il segreto della sua attualità e giovinezza perenne. Ne offrono una recente riprova anche le diverse figure di Servi di Dio che già si avviano agli onori degli altari, e che in questi ultimi anni interessano particolarmente la famiglia benedettina in Italia.

            L’esperienza della nostra storia è là per ammonirci, che ogni vera riforma e rinascita benedettina è stata sempre preparata e coincide con un più fedele ritorno dei monaci all’osservanza ed allo spirito della Regola. Anime veramente Benedettine quali un Gregorio I ed un Gregorio VII, quali un San Pier Damiani ed un San Bernardo, quali una Santa Ildegarde ed una Santa Gertrude, sono capaci alla loro volta di trascinarsi appresso tutto un intero mondo. È certamente per questo che la Chiesa nella sacra liturgia ci fa domandare al Signore, di suscitare in seno all’intera famiglia monastica quel medesimo Spirito cui servì ubbidiente il Patriarca Benedetto; perché ancor noi, ripieni di quel medesimo Spirito, ci studiamo di amare ciò che amò pure lui, onde possiamo compiere coll’opera quanto egli appunto insegnò col suo ispirato magistero.

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            Ho detto, che l’ora grave che attraversiamo ha qualche riscontro con quella in cui visse in nostro santo Patrono. Però, è particolarmente notevole che, mentre quell’antico cataclisma Europeo esercita un’efficace influenza sull’opera letteraria di Gregorio Magno il quale, dopo la guerra, la fame e la peste, dopo gli incendi e la desolazione delle cento città italiane, nel lontano orizzonte scopre già il finimondo che si avvicina, tutti codesti tremendi avvenimenti si direbbe invece che impressionino sì poco san Benedetto, che non è affatto dato di scoprirne neppure la minima allusione nei settantatré capitoli della Regola.

            La cagione, a mio umile avviso, si è, che l’anima sue è rapita in Dio assai più in alto di quello che possa raggiungere il fragore dei tuoni e delle folgori nell’inferiore stratosfera. Piuttosto che recitare con Gregorio l’elogio funebre dell’Impero Romano, il Patriarca Cassinese nel suo Codice monastico viene invece già tracciando le linee generali d’un piano di ricostruzione spirituale d’un mondo novello per opera del Monachesimo. Senza quella falange di Operai di Dio - Dei operarius - reclutati da san Benedetto e che, attraverso almeno centomila cenobi colonizzarono anche spiritualmente l’intera Europa, noi oggi non avremmo né la Somma Teologica dell’Aquinate, né il Divino Poema di Dante.

            Quando domani, per ordine di Dio, sul mare in tempesta finalmente succederà la bonaccia, sarà nuovamente alla Chiesa che la Provvidenza Divina affiderà l’arduo compito della ricostruzione di questo desolato mondo. Il Pontificato Romano allora indubbiamente avrà al suo fianco la sacra Gerarchia coi diversi Ordini regolari. Ma io fin d’ora prevedo, che alla famiglia benedettina sarà riservata una sua particolare missione, giusta una di quelle tradizionali celesti promesse che diconsi fatte a san Benedetto: Ordo tuus perpetuo stabit et novissimis temporibus Ecclesiae Romanae fideliter adstabit.

            In questi anni di guerra, gli studi ecclesiastici, l’arte sacra, le scienze liturgiche, patristiche ecc. hanno subito necessariamente un arresto. Dopo la guerra avremo da riparare le sue immani rovine ed allora sarà già molto se il Clero così regolare che secolare potrà bastare all’ordinario ministero pastorale nelle parrocchie.

            Se non m’inganno, io prevedo già che allora più che mai verrà opportuno l’aiuto della Famiglia benedettina, che alle scienze, alle arti sacre, alle future generazioni di studiosi e di studenti dischiuderà di bel nuovo le porte delle badie, comunicando anche ai laici il pane spirituale di san Benedetto.

            Nelle righe che precedono, ma soprattutto nelle successive, si manifesta chiaramente quel limite, già in precedenza accennato, che rende in parte caduco il pensiero dello Schuster, condizionato sia dalla situazione del suo tempo, sia da pregiudizi culturali, presenti ampiamente nella società secolare, che facevano sentire fortemente la loro influenza anche nella Chiesa. Notiamo come la missione dell’Ordine Benedettino nel dopoguerra, mentre da una parte si illumina con il richiamo alla «Dominici Schola servitii», dall’altro sembra ripetutamente - soprattutto nelle righe seguenti - restringersi al lavoro intellettuale e a progetti racchiusi in orizzonti estremamente limitati,  che si riveleranno, in prospettiva, da una parte di rilevanza in gran parte modesta, dall’altra poco praticabili e praticati dai monaci e molto più, invece, da altre forze nell’ambito della Chiesa.

            Per andare con ordine, notiamo che, nelle righe precedenti, le porte delle badie appaiono schiudersi particolarmente agli studiosi e agli studenti, e che la loro irradiazione riguarda in modo speciale le scienze e le arti sacre. Notiamo che, mentre la prospettiva di comunicare «anche ai laici il pane spirituale di san Benedetto» è indubbiamente suggestiva e geniale, la sua restrizione alle scienze e alle arti sacre, da offrire al pubblico scelto degli sudiosi e degli studenti, la mortifica indebitamente e - ciò che  più conta - la allontana sostanzialmente dallo spirito della «Dominici Schola servitii», fondato, come aveva detto lo stesso Schuster, sull’«arte sublime della rinunzia a se medesimo per porsi a servizio del Signore», e non sul lavoro intellettuale. Indubbiamente le scienze e la arti sacre hanno il loro posto nella tradizione benedettina, ma subordinatamente al compito primario di servire nell’umiltà, come «operai di Dio», nella quotidiana vita fraterna. In questa prosettiva le stesse preziose scienze ed arti sacre appaiono assai più destinate ad arricchire la vita quotidiana delle comunità che a formare studiosi e studenti - e perciò il «pane spirituale di San Benedetto» dovrebbe essere comunicato ai laici in forme diverse e molto più ampiamente di quanto suggerisce lo Schuster. A una presa di coscienza di questa mancanza di coerenza e di lucidità nel suo discorso avrebbe potuto contribuire il giustissimo richiamo fatto prima dallo Schuster alla necessità del «ritorno dei monaci all’osservanza ed allo spirito della Regola», ritorno che ha sempre accompagnato, nella storia, le rinascite spirituali dell’Ordine Monastico. Ma paradossalmente lo Schuster non si accorge che i pregiudizi intellettualistici del suo tempo lo allontanano proprio da questo spirito. Vedremo ora, nelle righe successive, quale compito esemplare lo Schuster assegni ai monaci del dopoguerra: «l’edizione della Volgata latina, dei Santi Padri, della paleografia musicale,» che «esigono dei particolari gruppi specialisti organizzati»: dunque un lavoro intellettuale, in ambiti di interesse piuttosto ristretti, riservato ai monaci sacerdoti e tra loro a quelli più dotati. Né nella lettera, né nello spirito della Regola si trova un posto particolare per questo tipo di realizzazioni, se pure nella tradizione dell’Ordine essi abbiano avuto un ruolo notevole. Ora, se vogliamo tornare allo spirito della Regola, la cosa più ovvia sarebbe interrogare quest’ultima. Ma è ciò che in queste righe viene meno.

            Fortunatamente, come vedremo, poco più oltre lo Schuster stesso ci indica genialmente la via per superare questi pregiudizi intellettualistici e clericali, anche se, come sempre nella sua opera, manca poi la parola finale illuminante e il discorso ritorna così in un’incertezza che finisce per disorientare. Ma proseguiamo ora la lettura del testo, notando come appaia in esso anche un aspetto per il suo tempo - e purtroppo anche per tempi successivi - del tutto estraneo al sentire comune dell’ambiente monastico: l’urgenza dell’opera missionaria.

    

            Soprattutto per quegli studi e per quei lavori quali, per esempio, l’edizione della Volgata latina, dei Santi Padri, della paleografia musicale ecc., che esigono dei particolari gruppi specialisti organizzati, l’Ordine Monastico nel dopo guerra potrà arrecare dei validi aiuti. Nulla poi esclude che esso restauri una antica tradizione e che, dischiuse che saranno le porte dell’Oriente Cristiano, della Palestina e del continente Asiatico, drappelli di monaci missionari discendano da Monte Cassino, dal Colle Celio, da Beuron ecc. per andare in quelle lontane regioni, dove l’indole contemplativa delle popolazioni dimostra già tante affinità con quella degli antichi abitanti della Tebaide e dei paesi egiziani. Latera Aquilonis, Civitas Regis magni! (Sl 47, 3).

            Qui il mio spirito si estende, per abbracciare un orizzonte ancor lontano; e quasi divinando le future pacifiche conquiste riservate ai Figli del Santo Patriarca, ricorda oggi a voi, o Ven. Fratelli, che fu soprattutto il pensiero missionario quello che nel VI secolo condusse san Benedetto a Casinum, e determinò poi Roma Papale a volere da lui una comune Regula Monasteriorum, che ella poi coll’autorità sua avrebbe estesa all’intero orbe.

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            San Benedetto quest’oggi, che è festa, ci appresta anche un quinto pane. Nel grandioso quadro di Leandro Bassano che adorna qui il refettorio Cassinese, l’artista ha voluto bellamente ravvicinare e fondere due diverse scene prodigiose: da un lato è Gesù, che con cinque pani e due pesci moltiplica i viveri, tanto che bastino a cinquemila e più persone; dall’altra parte, il Patriarca san Benedetto col pane della Regola nutre spiritualmente le legioni di monaci che militano sotto il suo vessillo.

            Codesto pane della carità benedettina, non è venuto né verrà mai meno nei nostri cenobi. In questi ultimi anni, ho voluto risuscitare a Milano un antico statuto di papa Benedetto XII, il quale già dispose che ogni anno, per la festa del glorioso Patriarca dei Monaci, il Comune di Milano, pena l’interdetto, facesse dispensare ai poveri varie migliaia si pani.

            San Carlo a suo tempo ottenne dalla Sede Apostolica la condonazione di questo onere; ma negli anni scorsi io ho voluto risuscitarne il ricordo, non più come un peso comunale, ma come un grazioso tributo di devozione dell’Arcivescovo a san Benedetto.

            Anche oggi quindi varie centinaia di poveri nella metropoli Lombarda celebreranno con noi la festa del Patriarca dei Monaci di occidente; e quando ogni anno al sacerdote elemosiniere impartisco le disposizioni in proposito, non manco mai di aggiungerne anche la ragione storica: perché san Benedetto, dico, per più secoli ha dato da mangiare all’Europa intera!

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            Nei paragrafi successivi troviamo la parte forse più ispirata e geniale della riflessione dello Schuster, partendo dalla quale sarà possibile superare interamente i pregiudizi di cui si è detto e ritrovare così, attraverso un ritorno allo spirito più autentico della Regola, l’ispirazione che ne dimostra tutta l’attualità per i bisogni dell’età nostra, anche nella prospettiva missionaria che giustamente lo Schuster sottolinea con tanto vigore.

Venerabili Fratelli e Figli dilettissimi, ora oso dire anche a voi, come un giorno l’Angelo intimò al profeta Elia: surge, comede, grandis enim tibi restat via. Non è ancora tempo d’assiderci su quei troni di gloria che ci riprometteva testè il Santo Vangelo; quando invece Cristo ancora combatte ed è combattuto, e noi dobbiamo aiutarlo nella restaurazione del suo celeste Regno.

            La società del dopo guerra sarà forse quella che disillusa ormai dei sistemi umani, cercherà il Signore. La famiglia di san Benedetto è espressamente chiamata a soddisfare a questa brama, ed in grazie della Regola e della liturgia cattolica che essa rivive in maniera meravigliosa, potrà contribuire moltissimo a codesta rieducazione dei popoli allo spirito del Cristianesimo.

            Sono dunque la Regola e la liturgia vissuta quotidianamente nei monasteri le sorgenti vere del contributo che lo Schuster si attende dai monaci. Ma vediamo nel seguito del discorso, cosa ciò implica.

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            È però necessario che la spirituale famiglia del Patriarca Cassinese acquisti sempre meglio coscienza del posto storico che la Provvidenza le ha assegnato, e vi si renda ognor più idonea.

            Ho già detto, che i grandi progetti e le magnanime restaurazioni sociali nelle grandi epoche della storia, Iddio suole compierle per opera dei suoi Santi. Ecco che il Signore, di fronte alle immani rovine accatastate dalla guerra in preparazione dell’auspicata pace di Cristo nel Regno di Cristo, va sin d’ora reclutando eserciti di operai di Dio.

            Il Patriarca san Benedetto ce lo ripete adesso, come già altra volta egli lo proclamò proprio su questo monte, allorché nella sottoposta pianura Totila segnava il suo cammino attraverso l’Italia con una lunga colonna rossastra di fiamme: Et quaerens Dominus operarium suum cui haec clamat, dicit: quis est homo qui vult vitam? Al Signore che nuovamente va in cerca, non già di dottori, di predicatori, di uomini di genio, ma semplicemente di quelle anime di dedizione cui Dio onora col titolo glorioso di operai suoi: operarium suum, san Benedetto nella Regola c’invita a rispondere: presente! Quod si tu audieris, respondeas: ego.

            Prima lo Schuster aveva additato ad esempio apostoli delle nazioni, papi e dottori e aveva indicato nei lavori di erudizione ecclesiastica l’opera più propria dei Benedettini nella ricostruzione civile del dopoguerra. Ma ora prevale in lui nettamente il vero spirito della Regola: il Signore non cerca dottori, predicatori o uomini di genio, bensì persone che hanno foggiato il loro carattere di «operai di Dio» nella fucina dell’osservanza quotidiana delle virtù monastiche dell’obbedienza, della carità, dello spirito di preghiera - in particolare della preghiera liturgica - del rinnegamento di sé e del generoso impegno nel servizio fraterno e nell’umile e assiduo lavoro di ogni giorno. Sono questi i valori che irradiano dalla Regola, e questi saranno i raggi luminosi che i monaci dovranno diffondere tra i popoli con spirito missionario   

           

Che cosa non potranno mai compiere domani questi operai di Dio,  educati alla Dominici Schola servitii, quando ieri e ieri l’altro simili operai, discesi da questo monte con Villibaldo e con Sturmio, discesi dal Colle Celio e dal Laterano coi quaranta socii di Agostino di Cantorbery, divennero apostoli dei vari popoli d’Europa, pontefici e luminari dei loro secoli? San Benedetto ci assicura, che la bontà del Signore nel passato è insieme garanzia di ciò che egli compirà anche nel futuro. Haec complens Dominus, expectat (Prol. Reg. S. Bened.).

Con la menzione della predicazione apostolica e dei «pontefici e luminari dei loro secoli», se pure riappare il pregiudizio intellettualistico, che potrebbe deviare di nuovo il discorso dello Schuster, si affaccia anche, almeno in modo embrionale, l’intuizione che dall’umile scuola degli «operai di Dio» sia destinata a sorgere una cultura diversa da quella delle scuole ordinarie, perché fondata sull’umus dell’osservanza quotidiana della vita comune. Ciò che, ad ogni modo, colpisce maggiormente, è il costante invito a discendere dal monte per portare ai popoli i valori preziosi della disciplina della Regola, della liturgia monastica e della cultura umana che da esse deriva. Come conciliare questo «discendere dal monte» con la clausura monacale, che lo Schuster non cessa di considerare fondamentale, al seguito della Regola? Questo lo Schuster non lo dice esplicitamente, limitandosi ad accennare al modello storico offerto dai grandi monaci missionari del passato. Questo modello ci insegna per prima cosa la potenza immensa dell’esempio, e quindi il valore missionario della presenza stessa del monastero in un territorio, e inoltre la vasta partecipazione del popolo alla liturgia, così centrale nella vita monastica. A questa suggestione dell’esperienza storica si potrebbe oggi legittimamente aggiungere l’opportunità, veramente grandissima, di far gustare il «pane» della Regola diffondendone e adattandone l’osservanza nella vita dei fedeli, e in particolare nella vita delle famiglie moderne. Inoltre dalla stessa saggezza propria della Regola benedettina potrebbe scaturire un modo nuovo di concepire la scuola, la cultura, la pratica delle arti sacre e profane. Ma ciò meriterebbe un discorso a parte. Concludiamo ora la lettura del testo dell’ispirato discorso, sottolineando il richiamo in esso contenuto ad essere operai di Dio anche in quanto ricostruttori della città terrestre.    

           

Iddio certamente compirà questo novello prodigio, e sotto i vostri occhi renderà ancora una volta sanabili le nazioni. A voi, o Venerabili fratelli e figli dilettissimi, il merito di affrettare colle vostre preghiere il giorno del Signore; a voi ancora la gloria d’essere a parte di codesto stuolo di ricostruttori della città terrena, come siete già iscritti cittadini gloriosi della città celeste.

            Sarete facilmente l’uno e l’altro, ma ad una condizione: se sotto la disciplina di Benedetto, vi diporterete da degni operai di Dio, così che nei figli riviva la dolce immagine paterna di colui del quale oggi canta la Chiesa: Qui praevaluit amplificare Civitatem, qui adeptus est gloriam in conversatione gentis (Si 50, 5). A Lui la lode d’aver ampliata in terra la mistica Città di Dio coll’opera missionaria, che da Cassino giunse al settentrione d’Europa. A lui insieme la gloria d’aver illuminata la Chiesa con la santità della sua vita, coll’ispirata sua dottrina e collo splendore dei suoi prodigi.

            Egli dal Cielo assicuri alla sua famiglia il vanto di continuarne la salutare missione nella Chiesa militante, perché partecipandone al merito, ne partecipiamo altresì al premio:

            Ipre, memor suae gentis

            Nos perducat in manentis

            Semper Christi gaudia. Amen.

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