Intervista in aereo tornando da Antanarivo: Famiglia, Educazione, Lavoro e Società

Conferenza stampa sul volo di ritorno al termine del viaggio apostolico in Mozambico Madagascar e Mauritius Vatican MediaLa #famiglia certamente ha la responsabilità dell’educazione dei figli.(...) Dare dei valori ai giovani, farli crescere. (...) Sono fondamentali le leggi che tutelano il #lavoro e la famiglia. E anche i valori familiari, che ci sono ma tante volte poi vengono distrutti dalla povertà: non i valori ma il poterli trasmettere e portare avanti l’educazione dei giovani. (...) dopo la Messa, ho trovato monsignor Rueda con un poliziotto, alto, grande, che teneva per mano una bambina, aveva due anni più o meno. Si era persa e piangeva perché non si trovavano i genitori. Era stato dato l’annuncio e intanto il poliziotto la accarezzava e lì ho visto (capito) il dramma di tanti bambini e giovani a cui capita di perdere il legame #familiare benché vivano in una famiglia – in questo caso si era trattato di un incidente soltanto. E anche il ruolo dello #Stato per proteggerli e portarli avanti. Lo Stato deve prendersi cura della famiglia, dei giovani. E è un dovere dello Stato, un dovere portarli avanti. Poi, ripeto, per una famiglia avere un figlio è un tesoro. E voi avete questa coscienza, avete la coscienza del tesoro. Ma adesso è necessario che tutta la #società abbia la coscienza di far crescere questo tesoro, per far crescere il #Paese, far crescere la #patria, far crescere i #valori che daranno sovranità alla patria.


Volo Papale
Martedì, 10 settembre 2019

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MATTEO BRUNI:

Buongiorno! Buongiorno, Santo Padre. In questi giorni abbiamo potuto incontrare i popoli di queste terre africane e dell’oceano indiano. Sono popoli con tanti giovani, con tanti ragazzi, bambini, popoli pieni di entusiasmo e di speranza, anche proprio perché giovani. Abbiamo potuto anche vedere tante ferite che Lei ha toccato con mano e nei suoi discorsi, e con i giornalisti abbiamo visto tanti segni di risurrezione, di riconciliazione e di pace. I giornalisti Suoi compagni di viaggio hanno seguito intensamente gli eventi di questi giorni e hanno portato al mondo le storie, i volti e anche le tematiche che hanno incontrato, contribuendo a mettere il Mozambico, l’Africa, il Madagascar e Mauritius al centro dell’interesse internazionale. Io ringrazio i giornalisti per il lavoro fatto con passione e fatica e a loro passerei la parola per alcune domande che desiderano rivolgerLe, anzitutto i giornalisti che provengono dai Paesi dove siamo stati.

PAPA FRANCESCO:

Prima di tutto voglio ringraziare per la compagnia, grazie!

MATTEO BRUNI

Il primo giornalista che fa una domanda è Julio Mateus Manjate di “Noticias”, del Mozambico.

JULIO MATEUS MANJATE (Noticias, Mozambico)

Grazie, Santo Padre. Anzitutto ringrazio per questa opportunità di parlare a nome dei colleghi della stampa del Mozambico che accompagnano il Santo Padre. Nel passaggio in Mozambico Lei si è incontrato con il Presidente della Repubblica e con i Presidenti dei due partiti presenti in Parlamento. Mi piacerebbe sapere qual è, dopo questi colloqui, la sua aspettativa per il processo di pace, e quale messaggio vorrebbe lasciare al Mozambico. E due brevi commenti, uno sulla questione della xenofobia, che si sta verificando in Africa, e anche sulla questione della gioventù, l’impatto delle reti sociali nell’educazione dei giovani.

PAPA FRANCESCO:

Il primo punto, sul processo di pace. Oggi si identifica il Mozambico con un lungo processo di pace che ha avuto i suoi alti e bassi, ma alla fine sono arrivati a quell’abbraccio storico. Io mi auguro che questo vada avanti e prego per questo. Invito tutti a fare lo sforzo affinché questo processo di pace vada avanti. Perché tutto si perde con la guerra, tutto si guadagna con la pace, ha detto un Papa prima di me. Questo motto è chiaro, non va dimenticato. È un processo di pace lungo perché ha avuto una prima fase, poi è caduto, poi un’altra fase… E lo sforzo dei capi dei partiti avversari, per non dire nemici, di andare a incontrarsi tra loro è stato anche uno sforzo pericoloso, alcuni rischiavano la vita… Ma alla fine siamo arrivati. Vorrei ringraziare tutte le persone che hanno aiutato in questo processo di pace. Dall’inizio, in un caffè di Roma: c’erano alcune persone che parlavano, c’era un sacerdote della Comunità di Sant’Egidio, che sarà fatto cardinale il prossimo 5 ottobre… È cominciato lì... E poi, con l’aiuto di tanta gente, anche della Comunità di Sant’Egidio, sono arrivati a questo risultato. Noi non dobbiamo essere trionfalistici in queste cose. Il trionfo è la pace. Noi non abbiamo il diritto di essere trionfalistici, perché la pace è ancora fragile nel tuo Paese, come nel mondo è fragile, e la si deve trattare come si trattano le cose appena nate, come i bambini, con molta, molta tenerezza, con molta delicatezza, con molto perdono, con molta pazienza, per farla crescere così che diventi robusta. Ma è il trionfo del Paese: la pace è la vittoria del Paese, dobbiamo riconoscere questo.

E questo vale per tutti i Paesi, per tutti i Paesi che si distruggono con la guerra. Le guerre distruggono, fanno perdere tutto. Io mi dilungo un po’ su questo tema della pace perché mi sta a cuore. Quando c’è stata la celebrazione, alcuni mesi fa, dello sbarco in Normandia, sì, è vero, c’erano i capi dei governi a fare memoria di quello che era l’inizio della fine di una guerra crudele, e anche di una dittatura disumana e crudele come il nazismo e il fascismo… Ma su quella spiaggia sono rimasti 46mila sodati! Il prezzo della guerra! Vi confesso che quando sono andato a Redipuglia per il centenario della Prima Guerra mondiale a vedere quel memoriale, ho pianto. Per favore, mai più la guerra! Quando sono andato ad Anzio a celebrare il giorno dei defunti, nel cuore sentivo così… Ma dobbiamo lavorare per creare questa coscienza, che le guerre non risolvono niente, anzi fanno guadagnare le persone che non vogliono il bene dell’umanità. Scusatemi di questa appendice, ma dovevo dirlo, davanti a un processo di pace per il quale io prego, e farò di tutto perché vada avanti e vi auguro che cresca forte.

Il problema della gioventù. L’Africa è un continente giovane, ha vita giovane. Se noi facciamo il paragone con l’Europa, ripeterò quello che ho detto a Strasburgo: la madre Europa è quasi diventata la “nonna Europa”, è invecchiata, stiamo vivendo un inverno demografico gravissimo in Europa. Ho letto che – non so in quale Paese, ma è una statistica ufficiale del governo di quel Paese – nell’anno 2050, in quel Paese, ci saranno più pensionati che gente che lavora. Questo è tragico. Qual è l’origine di questo invecchiamento dell’Europa? Penso – è un’opinione personale – che alla radice c’è il benessere. Attaccarsi al benessere: “Sì, ma stiamo bene, io non faccio figli perché devo comprare la villa, devo andare a fare turismo, questo, quell’altro… Sto bene così, un figlio è un rischio, non si sa mai…”. Benessere e tranquillità, ma un benessere che ti porta a invecchiare. Invece l’Africa è piena di vita. Ho trovato in Africa un gesto che avevo trovato nelle Filippine e a Cartagena in Colombia. La gente con i bambini in alto, ti facevano vedere i bambini: “Questo è il mio tesoro, questa è la mia vittoria”. L’orgoglio. È il tesoro dei poveri, il bambino. Ma è il tesoro di una patria, di un Paese. Lo stesso gesto l’ho visto in Europa orientale, a Iasci, soprattutto quella nonna che faceva vedere il bambino: “Questo è il mio trionfo…”. Voi avete la sfida di educare questi giovani e di fare leggi per questi giovani. L’educazione in questo momento è prioritaria nel tuo Paese. È prioritario farlo crescere con leggi sull’educazione. Il Primo Ministro di Mauritius mi aveva parlato di questo e diceva che lui ha in mente la sfida di far crescere il sistema educativo gratuito per tutti. La gratuità del sistema educativo: è importante, perché ci sono centri di educazione di alto livello, ma a pagamento. Centri educativi, ce ne sono in tutti i Paesi, ma vanno moltiplicati, perché l’educazione arrivi a tutti. Le leggi sull’educazione. Salute e educazione sono elementi-chiave in questo momento in quei Paesi.

Il terzo punto, la xenofobia. Ho letto sui giornali di questo problema della xenofobia, ma non è un problema solo dell’Africa. È un problema, è una malattia umana, come il morbillo… È una malattia che viene, entra in un Paese, entra in un continente… E mettiamo muri; e i muri lasciano soli quelli che li costruiscono. Sì, lasciano fuori tanta gente, ma quello che rimangano dentro i muri rimarranno soli e, alla fine della storia, sconfitti da invasioni potenti. La xenofobia è una malattia, una malattia che si dà delle giustificazioni: la purezza della razza, per esempio, per menzionare una xenofobia del secolo scorso. E le xenofobie a volte cavalcano sui cosiddetti populismi politici. Ho detto la settimana scorsa, o l’altra, che a volte sento fare dei discorsi che somigliano a quelli di Hitler nel ’34. Si vede che c’è un ritornello in Europa… Ma anche voi in Africa avete un altro problema culturale che dovete risolvere. Ricordo che ne ho parlato in Kenya: il tribalismo. Lì ci vuole un lavoro di educazione, di avvicinamento fra le diverse tribù per fare una nazione. Abbiamo commemorato il 25° della tragedia del Rwanda poco tempo fa: è un effetto del tribalismo. Ricordo in Kenya, nello stadio, quando ho chiesto a tutti di alzarsi e darsi la mano e dire “no al tribalismo, no al tribalismo!”. Dobbiamo dire no. Anche questa è una chiusura, e anche una xenofobia, una xenofobia domestica ma è pure una xenofobia. Si deve lottare contro questo: sia la xenofobia di un Paese con l’altro, sia la xenofobia interna, che nel caso di alcuni luoghi dell’Africa, col tribalismo, ci portano a tragedie come quella del Rwanda, per esempio.

MATTEO BRUNI:

La seconda domanda ci viene dalla dr.ssa Ratovoarivelo del Madagascar.

MARIE FRÉDELINE RATOVOARIVELO (Radio Don Bosco, Madagascar)

Santità, Lei ha parlato del futuro dei giovani, durante la sua visita apostolica. Penso che la fondazione di una famiglia è molto importante per il futuro. Attualmente in Madagascar molti giovani vivono in situazioni di famiglia molto complesse, a causa della povertà. Come può la Chiesa accompagnare i giovani, dal momento che questi pensano che i suoi insegnamenti sono superati rispetto alla crisi familiare e alla rivoluzione sessuale di oggi? La ringrazio Santo Padre.

PAPA FRANCESCO:

La famiglia certamente è un elemento-chiave in questo, nell’educazione dei figli. È toccante il modo di esprimersi dei giovani, nel Madagascar lo abbiamo visto, e lo abbiamo visto anche a Mauritius, e anche in Mozambico nell’incontro interreligioso dei giovani per la pace. Dare dei valori ai giovani, farli crescere. In Madagascar il problema della famiglia è legato al problema della povertà, alla mancanza di lavoro e anche a volte allo sfruttamento del lavoro da parte di tante imprese. Per esempio, nella cava di granito [ad Antananarivo], quelli che lavorano guadagnano un dollaro e mezzo al giorno. E le leggi sul lavoro, le leggi che proteggono la famiglia, questo è fondamentale. E anche i valori familiari, ci sono, ci sono, ma a volte poi vengono distrutti dalla povertà, non i valori ma il poterli trasmettere e portare avanti l’educazione dei giovani, farli crescere. In Madagascar abbiamo visto l’opera di Akamasoa: il lavoro con i bambini, perché i bambini possano vivere in una famiglia, che non è quella naturale, è vero, ma è l’unica possibilità.

Ieri a Mauritius, dopo la Messa, ho trovato Mons. Rueda con un poliziotto, alto, grande, che aveva in braccio una bambina, aveva due anni più o meno. Si era persa e piangeva perché non trovavano i genitori. La polizia ha fatto l’annuncio perché venissero, e intanto la accarezzavano. E lì ho visto il dramma di tanti bambini e giovani che perdono il legame familiare benché vivano nella famiglia, ma in un momento lo perdono… In questo caso solo per un incidente. E anche il ruolo dello Stato per sostenerli e farli crescere. Lo Stato deve prendersi cura della famiglia, dei giovani: è un dovere dello Stato, un dovere farli crescere. Poi, ripeto, per una famiglia avere un figlio è un tesoro. E voi avete questa coscienza, avete la coscienza del tesoro. Ma adesso è necessario che tutta la società abbia la coscienza di far crescere questo tesoro, per far crescere il Paese, far crescere la patria, far crescere i valori che daranno sovranità alla patria. Non so se ho risposto più o meno. Una cosa che mi ha colpito dei bambini, in tutti e tre i Paesi, è che salutavano. C’erano anche bambini piccolini che salutavano: partecipavano alla gioia. Sulla gioia vorrei parlare dopo. Grazie.

MATTEO BRUNI:

La terza domanda, Santità, viene dal Sig. Mootoosamy, delle Mauritus.

JEAN-LUC MOOTOOSAMY (Radio One, Mauritius):

Il Primo Ministro delle Mauritius L’ha ringraziata per la Sua preoccupazione per la sofferenza dei nostri concittadini che sono stati costretti ad abbandonare il proprio arcipelago dal Regno Unito dopo l’illecita separazione di questa parte del nostro territorio prima dell’indipendenza. Oggi sull’isola Diego Garcia c’è una base militare americana. Santo Padre, i chagossiani in esilio forzato da cinquant’anni vogliono tornare alla loro terra e le rispettive amministrazioni di Stati Uniti e Regno Unito non permettono che questo accada, nonostante ci sia una risoluzione delle Nazioni Unite del maggio scorso. Come può Lei sostenere la volontà dei chagossiani e aiutare il popolo di Chagos a tornare a casa?

PAPA FRANCESCO:

Vorrei ribadire la Dottrina della Chiesa su questo. Le organizzazioni internazionali, quando noi le riconosciamo e diamo ad esse la capacità di giudicare a livello internazionale – pensiamo al Tribunale Internazionale dell’Aja o alle Nazioni Unite –, quando si pronunciano, se siamo un’unica umanità, dobbiamo obbedire. È vero che non sempre le cose che sembrano giuste per tutta l’umanità saranno giuste per le nostre tasche, ma si deve obbedire alle istituzioni internazionali. Per questo sono state create le Nazioni Unite, sono stati creati i tribunali internazionali, perché quando c’è qualche conflitto interno o fra i Paesi si vada lì per risolverlo come fratelli, come Paesi civili.

Poi c’è un altro fenomeno che, non so, lo dico chiaramente, non so se si possa riferire a questo caso. Adesso il caso particolare lo lascio da parte. Ho detto che mi sembra giusto fare riferimento alle organizzazioni internazionali. Ma c’è un fenomeno. Quando avviene la liberazione di un popolo e lo Stato dominante vede che se ne deve andare – in Africa ci sono state tante liberazioni dalla Francia, dalla Gran Bretagna, dal Belgio, dall’Italia…, hanno dovuto andarsene –, alcune sono maturate bene, ma in tutte c’è sempre la tentazione di andarsene “con qualcosa in tasca”. Sì, io concedo la liberazione a questo popolo ma qualche “briciola” la porto con me… Per esempio, do la liberazione al Paese ma “dal pavimento in su”: il sottosuolo rimane mio. È un esempio, non so se è vero, ma per fare un esempio. C’è sempre questa tentazione. Credo che le organizzazioni internazionali debbano attuare anche un processo di accompagnamento, riconoscendo alle potenze dominanti quello che hanno fatto per quel Paese e riconoscendo la buona volontà di andarsene e aiutandole affinché se ne vadano totalmente, con libertà, con fratellanza. È un lavoro culturale lento dell’umanità e in questo le istituzioni internazionali ci aiutano tanto, sempre, e dobbiamo andare avanti rafforzando le istituzioni internazionali: le Nazioni Unite, che riprendano quello spirito…; l’Unione Europa, che sia più forte, non nel senso del dominio, ma nel senso di giustizia, fratellanza, unità per tutti. Questa credo sia una delle cose importanti.

Ma c’è un’altra cosa che vorrei dire approfittando del Suo intervento. Oggi non ci sono colonizzazioni geografiche – almeno non tante… –, ma ci sono colonizzazioni ideologiche, che vogliono entrare nella cultura dei popoli e cambiare quella cultura e omogeneizzare l’umanità. È l’immagine della globalizzazione come una sfera: tutti uguali, ogni punto equidistante dal centro. Invece la vera globalizzazione non è una sfera, è un poliedro dove ogni popolo, ogni nazione conserva la propria identità ma si unisce a tutta l’umanità. Invece la colonizzazione ideologica cerca di cancellare l’identità degli altri per renderli uguali; e vengono con proposte ideologiche che vanno contro la natura di quel popolo, contro la storia di quel popolo, contro i valori di quel popolo. Dobbiamo rispettare l’identità dei popoli. Questa è una premessa da difendere sempre. Va rispettata l’identità dei popoli, e così cacciamo via tutte le colonizzazioni. Grazie.

Sì, prima di dare la parola a EFE – che è la privilegiata di questo viaggio: è “vecchia”, ha 80 anni! – vorrei dire qualcosa di più sul viaggio, qualcosa che mi ha colpito molto. Del tuo Paese [Mauritius] mi ha colpito tanto la capacità di unità interreligiosa, di dialogo interreligioso. Non si cancella la differenza delle religioni ma si sottolinea che tutti siamo fratelli, che tutti dobbiamo parlare. E questo è un segnale di maturità del tuo Paese. Parlando con il Primo Ministro ieri sono rimasto stupito di come loro hanno elaborato questa realtà e la vivono come necessità di convivenza. C’è anche una commissione inter-cultuale che si raduna… La prima cosa che ho trovato ieri entrando in episcopio – un aneddoto – è stato un mazzo di fiori bellissimo. Chi l’ha inviato? Il Grande Imam. Sì, fratelli: la fratellanza umana che è alla base e rispetta tutte le credenze. Il rispetto religioso è importante, per questo ai missionari io dico: “Non fare proselitismo”. Il proselitismo vale per la politica, per il mondo dello sport – la mia squadra, la tua… –, vale per tutto questo ma non per la fede. “Ma cosa significa per Lei, Papa, evangelizzare?”. C’è una frase di San Francesco che mi ha illuminato tanto. Francesco d’Assisi diceva ai suoi frati: “Portate il Vangelo, se fosse necessario anche con le parole”. Cioè evangelizzare è quello che noi leggiamo nel libro degli Atti degli Apostoli: testimonianza. E quella testimonianza provoca la domanda: “Ma tu perché vivi così, perché fai questo?”. E allora spiego: “Per il Vangelo”. L’annuncio viene dopo la testimonianza. Prima vivi come cristiano e, se ti domandano, fai l’annuncio. La testimonianza è il primo passo, e il protagonista dell’evangelizzazione non è il missionario, è lo Spirito Santo, che porta i cristiani e i missionari a dare testimonianza. Poi verranno le domande o non verranno, ma la testimonianza della vita, questo è il primo passo. È importante per evitare il proselitismo. Quando voi vedete proposte religiose che vanno per la strada del proselitismo, non sono cristiane. Cercano proseliti, non adoratori di Dio in verità, a partire dalla testimonianza. Colgo l’occasione di dire questo per la vostra esperienza interreligiosa che è tanto bella. E il Primo Ministro mi ha detto anche che quando uno chiede un aiuto, si dà lo stesso a tutti e nessuno si offende, perché si sentono fratelli. E questo fa l’unità del Paese. È molto, molto importante.

Negli incontri poi non c’erano solo cattolici, c’erano cristiani di altre confessioni e c’erano musulmani, indù ma tutti erano fratelli. Questo l’ho visto anche in Madagascar abbastanza e anche [in Mozambico] nell’incontro interreligioso dei giovani per la pace, dove i giovani di diverse religioni hanno voluto esprimere come loro vivono il desiderio per la pace. Pace, fraternità, convivenza interreligiosa, niente proselitismo. Sono cose che dobbiamo imparare per la convivenza. Questa è una cosa che devo dire.

Poi, un’altra cosa che mi ha colpito – e faccio riferimento a questo incontro nel tuo Paese e poi nei tre Paesi, ma ne prendo uno, il Madagascar, perché siamo partiti da lì –: il popolo. Nelle strade c’era il popolo, il popolo autoconvocato. Nella Messa allo stadio sotto la pioggia c’era il popolo, e danzava sotto la pioggia, era felice… Felice, poi riprenderò questo. E anche nella veglia notturna [dei giovani in Madagascar] e nella Messa – che dicono abbia sorpassato il milione (non so, le statistiche ufficiali dicono questo, io vado un po’ sotto, diciamo 800 mila), ma il numero non interessa, interessa il popolo, la gente che è andata a piedi dal pomeriggio prima, è stata alla veglia, ha dormito lì. Ho pensato a Rio de Janeiro nel 2013, quando dormivano sulla spiaggia. Era il popolo che voleva stare col Papa. Io mi sono sentito umile e piccolissimo davanti a questa grandiosità della “sovranità” popolare. E qual è il segno che un gruppo di gente è popolo? La gioia. C’erano poveri, c’era gente che non aveva mangiato quel pomeriggio per essere lì, ma erano gioiosi. Invece quando le persone o i gruppi si allontanano dal quel senso popolare della gioia, perdono la gioia. È uno dei primi segnali, la tristezza delle persone sole, la tristezza di coloro che hanno dimenticato le loro radici culturali. Avere coscienza di essere un popolo è avere coscienza di avere un’identità, di avere un modo di capire la realtà, e questo accomuna la gente. Ma il segno che tu sei nel popolo e non in una élite, è la gioia, la gioia comune. Questo ho voluto sottolinearlo. E per questo i bambini salutavano così, perché i genitori contagiavano la gioia.

Grazie! Questo è quello che volevo dire sul viaggio, poi se mi viene in mente qualcos’altro lo dirò. Adesso, la “privilegiata”!

CRISTINA CABREJAS GILES (dell’agenzia spagnola EFE, che celebra ottant’anni di fondazione)

Grazie, Santo Padre, per l’opportunità. Ho due domande. Una privilegiata e una sul tema del viaggio. Se vuole Le faccio quella privilegiata, ci togliamo il dente, chiedo scusa ai colleghi, vorrei soltanto chiedere se mi può rispondere in spagnolo, dopo traduco io, non c’è problema. [in spagnolo] Prima di tutto, diamo per assodato che uno dei suoi progetti per il futuro è venire in Spagna, vediamo se sarà possibile, speriamo! E la domanda che voglio farle: per questi ottant’anni di EFE abbiamo interpellato diverse personalità, leader mondiali, a proposito dell’informazione e del giornalismo, e voglio chiedere a Lei: come crede che sarà l’informazione del futuro?

PAPA FRANCESCO:

Avrei bisogno della palla di cristallo!... Ci andrò in Spagna, se vivo, ma la priorità dei viaggi in Europa è per i Paesi piccoli, poi i più grandi.

Non so come sarà la comunicazione del futuro. Penso a com’era, per esempio, la comunicazione quando ero ragazzo, ancora senza TV, con la radio, col giornale, anche col giornale clandestino che era perseguitato dal governo di turno, si vendeva di notte con i volontari…; e anche comunicazione orale. Se facciamo il paragone con questa, era un’informazione precaria, e questa di oggi sarà forse precaria rispetto a quella del futuro. Ciò che rimane come costante della comunicazione è la capacità di trasmettere un fatto, e di distinguerlo dal racconto, dal riportato. Una delle cose che danneggia la comunicazione, del passato, del presente e del futuro è ciò che viene riportato. C’è uno studio molto bello, uscito tre anni fa, di Simone Paganini, uno studioso dell’Università di Aachen (Germania) e parla del movimento della comunicazione tra lo scrittore, lo scritto e il lettore. Sempre la comunicazione rischia di passare dal fatto al riportato e questo rovina la comunicazione. È importante che resti il fatto e sempre avvicinarsi al fatto. Anche nella Curia lo vedo: c’è un fatto e poi ognuno lo addobba mettendoci del suo, senza cattiva intenzione, questa è la dinamica. Dunque l’ascesi del comunicatore è sempre di tornare al fatto, riportare il fatto, e poi dire: “la mia interpretazione è questa, mi hanno detto questo”, distinguendo il fatto da ciò che viene riportato. Tempo fa mi hanno raccontato la storia di Cappuccetto Rosso, ma sulla base di ciò che veniva riportato, e finiva con Cappuccetto Rosso e la nonna che mettevano il lupo in pentola e lo mangiavano! Il racconto cambiava le cose. Qualunque sia il mezzo di comunicazione, la garanzia è la fedeltà. “Si dice che” si può usare? Sì, si può usare nella comunicazione ma stando sempre all’erta per constatare l’obiettività del “si dice che”. È uno dei valori che bisogna perseguire nella comunicazione.

In secondo luogo, la comunicazione deve essere umana, e dicendo umana intendo costruttiva, cioè deve far crescere l’altro. Una comunicazione non può essere usata come uno strumento di guerra, perché è anti-umana, distrugge. Poco fa ho passato a padre Rueda un articolo che ho trovato in una rivista, intitolato: “Le gocce di arsenico della lingua”. La comunicazione dev’essere al servizio della costruzione, non della distruzione. E quando la comunicazione è al servizio della distruzione? Quando difende progetti non umani. Pensiamo alla propaganda delle dittature del secolo passato, erano dittature che sapevano comunicare bene, ma fomentavano la guerra, le divisioni e la distruzione. Non so che cosa dire tecnicamente perché non sono ferrato nella materia. Ho voluto sottolineare dei valori ai quali la comunicazione, con qualsiasi mezzo, deve mantenersi sempre coerente.

CRISTINA CABREJAS GILES (seconda domanda)

Ritorniamo al viaggio. Uno dei temi di questo viaggio è stata la protezione dell’ambiente. Ne ha parlato in tutti i discorsi, ha parlato della protezione degli alberi, degli incendi, della deforestazione... In questo momento sta accadendo in Amazzonia. Lei pensa che i governi di queste aree stiano facendo tutto il possibile per proteggere questo polmone del mondo?

PAPA FRANCESCO:

Ritorno sull’Africa. Questo l’ho detto in un altro viaggio. C’è nell’inconscio collettivo un motto: l’Africa va sfruttata. È una cosa inconscia. Noi non pensiamo mai: l’Europa va sfruttata, no. L’Africa va sfruttata. E noi dobbiamo liberare l’umanità da questo inconscio collettivo. Il punto più forte dello sfruttamento, non solo in Africa ma nel mondo, è l’ambiente, la deforestazione, la distruzione della biodiversità. Un paio di mesi fa, ho ricevuto i cappellani della gente di mare e nell’udienza c’erano sette ragazzi pescatori che pescavano con una barca che non era più lunga di questo aereo. Pescavano con mezzi meccanici come si usa adesso, un po’ avventurieri. Mi hanno detto questo: da alcuni mesi fino ad oggi abbiamo preso 6 tonnellate di plastica. (In Vaticano abbiamo proibito la plastica, stiamo facendo questo lavoro). 6 tonnellate di plastica! Questa è una realtà, soltanto dei mari… L’intenzione di preghiera del Papa di questo mese è proprio la protezione degli oceani, che ci danno anche l’ossigeno che respiriamo. Poi ci sono i grandi “polmoni” dell’umanità, uno in Africa centrale, l’altro in Brasile, tutta la zona panamazzonica; e poi ce n’è un altro, non ricordo dove… Ci sono anche piccoli polmoni dello stesso genere. Difendere l’ecologia, la biodiversità, che è la nostra vita, difendere l’ossigeno. A me fa sperare che la lotta più grande per la biodiversità, per la difesa dell’ambiente, la portano avanti i giovani. Hanno una grande coscienza, perché loro dicono: il futuro è nostro; voi, col vostro, fate quello che volete, ma non col nostro! Incominciano a ragionare un po’ di questo. Credo che essere arrivati all’accordo di Parigi è stato un passo avanti buono. Poi l’ultimo di Marrakech… Sono incontri che aiutano a prendere coscienza. Ma l’anno scorso, d’estate, quando ho visto quella foto della nave che navigava al Polo Nord come se niente fosse, ho provato angoscia. E poco tempo fa, alcuni mesi fa abbiamo visto tutti la fotografia dell’atto funebre che hanno fatto, credo in Groenlandia, su quel ghiacciaio che non c’era più, hanno fatto un atto funebre simbolico per attirare l’attenzione. Questo sta avvenendo in fretta, dobbiamo prendere coscienza, cominciando dalle cose piccole. Ma la Sua domanda era: i governanti stanno facendo tutto il possibile? Alcuni di più, alcuni di meno. Qui c’è una parola che devo dire, che sta alla base dello sfruttamento ambientale… (Sono rimasto commosso dall’articolo sul “Messaggero” del 4 settembre, il giorno in cui siamo partiti, dove Franca Giansoldati non ha risparmiato parole, ha parlato di manovre distruttive, di rapacità… Ma questo non solo in Africa ma anche nelle nostre città, nelle nostre civiltà)…La parola brutta, brutta è “corruzione”. Io ho bisogno di fare questo affare, ma per questo devo deforestare, e ho bisogno del permesso del governo, del governo provinciale, nazionale, non so, e vado dal responsabile e la domanda – ripeto letteralmente ciò che mi ha detto un imprenditore spagnolo – la domanda che ci sentiamo fare quando vogliamo che ci approvino un progetto è: “Per me quanto?”, sfacciatamente. Questo succede in Africa, in America Latina e anche in Europa. Dappertutto, quando si prende la responsabilità socio-politica come un guadagno personale, lì si sfruttano valori, si sfrutta la natura, la gente. Pensiamo: “l’Africa va sfruttata”. Ma pensiamo a tanti operai che sono sfruttati nelle nostre società: il caporalato non l’hanno inventato gli africani, l’abbiamo in Europa. La domestica pagata un terzo di quello che si deve, non l’hanno inventato gli africani; le donne ingannate e sfruttate per fare la prostituzione nelle nostre città, non l’hanno inventato gli africani. Anche da noi c’è questo sfruttamento, non solo ambientale, anche umano. E questo è per corruzione. Quando la corruzione entra nel cuore, prepariamoci, perché avviene di tutto.

MATTEO BRUNI:

La prossima domanda viene da Jason Horowitz del New York Times.

JASON DREW HOROWITZ (The New York Times, Stati Uniti)

Buongiorno, Santo Padre. Nel volo verso Maputo Lei ha riconosciuto di essere sotto attacco di un settore della Chiesa americana. Ci sono forti critiche da parte di alcuni vescovi e cardinali, ci sono tv cattoliche e siti web americani molto critici, e alcuni dei Suoi alleati più stretti hanno parlato persino di un complotto contro di Lei, alcuni dei suoi alleati nella curia italiana. C’è qualcosa che questi critici non capiscono del Suo pontificato? C’è qualcosa che Lei ha imparato dalle critiche negli Stati Uniti? Un’altra cosa, Lei ha paura di uno scisma nella Chiesa americana? E se sì, c’è qualcosa che Lei potrebbe fare - un dialogo – per aiutare, per evitarlo?

PAPA FRANCESCO:

Prima di tutto, le critiche aiutano sempre, sempre. Quando uno riceve una critica, subito deve fare l’autocritica e dire: è vero o non vero?, fino a che punto? Dalle critiche io traggo sempre vantaggi, sempre. A volte ti fanno arrabbiare, ma i vantaggi ci sono. Nel viaggio di andata a Maputo è venuto… - sei stato tu a darmi il libro? - qualcuno di voi mi ha dato quel libro in francese… “La Chiesa americana attacca il Papa”, no, “Il Papa sotto l’attacco degli americani” [qualcuno dice: “Come gli americani vogliono cambiare il Papa”]… Ecco questo è il libro. Me ne avete dato una copia. Sapevo di quel libro, ma non l’avevo letto. Le critiche non sono soltanto degli americani, ma un po’ dappertutto, anche in Curia. Almeno quelli che le dicono hanno il vantaggio dell’onestà di dirle. A me piace questo. Non mi piace quando le critiche sono sotto il tavolo e ti fanno un sorriso che ti fa vedere i denti e poi ti pugnalano alle spalle. Questo non è leale, non è umano. La critica è un elemento di costruzione, e se la tua critica non è giusta, tu stai pronto a ricevere la risposta e fare un dialogo, una discussione, e arrivare a un punto giusto. Questa è la dinamica della critica vera. Invece la critica delle “pillole di arsenico”, di cui parlavamo, di quell’articolo che ho dato a padre Rueda, è un po’ gettare la pietra e nascondere la mano. Questo non serve, non aiuta. Aiuta i piccoli gruppetti chiusi, che non vogliono sentire la risposta alla critica. Una critica che non vuole sentire risposta è un gettare la pietra e nascondere la mano. Invece una critica leale: “Io penso questo, questo e questo”, ed è aperta alla risposta, questo costruisce, aiuta. Davanti al caso del Papa: “Questa cosa del Papa non mi piace”, gli faccio la critica, aspetto la risposta, vado da lui, parlo, faccio un articolo e gli chiedo di rispondere, questo è leale, questo è amare la Chiesa. Fare una critica senza voler sentire la risposta e senza fare il dialogo è non voler bene alla Chiesa, è andare dietro a un’idea fissa: cambiare il Papa, o fare uno scisma, non so. Questo è chiaro: una critica leale è sempre ben accetta, almeno da me.

Secondo, il problema dello scisma: nella Chiesa ci sono stati tanti scismi. Dopo il Vaticano I, l’ultima votazione, quella dell’infallibilità, un bel gruppo se n’è andato, si è staccato dalla Chiesa e ha fondato i Vetero-cattolici per essere proprio “onesti” con la tradizione della Chiesa. Poi loro stessi hanno trovato uno sviluppo differente e adesso fanno le ordinazioni delle donne; ma in quel momento erano rigidi, andavano dietro a una certa ortodossia e pensavano che il Concilio avesse sbagliato. Un altro gruppo se ne andò senza votare, zitti zitti, ma non vollero votare… Il Vaticano II ha creato queste cose, forse il distacco più conosciuto è quello di Lefebvre. Sempre c’è l’opzione scismatica nella Chiesa, sempre. È una delle opzioni che il Signore lascia sempre alla libertà umana. Io non ho paura degli scismi, prego perché non ce ne siano, perché c’è in gioco la salute spirituale di tanta gente. Che ci sia il dialogo, che ci sia la correzione se c’è qualche sbaglio, ma il cammino dello scisma non è cristiano. Pensiamo all’inizio della Chiesa, come è cominciato con tanti scismi, uno dietro l’altro, basta leggere la storia della Chiesa: ariani, gnostici, monofisiti...

Poi, mi viene da raccontare un aneddoto che ho detto qualche volta. È stato il popolo di Dio a salvare dagli scismi. Gli scismatici hanno sempre una cosa in comune: si staccano dal popolo, dalla fede del popolo di Dio. E quando nel Concilio di Efeso c’era la discussione sulla maternità divina di Maria, il popolo – questo è storico – stava all’ingresso della cattedrale quando i vescovi entravano per fare il concilio, stavano lì con dei bastoni, facevano vedere i bastoni e gridavano: “Madre di Dio! Madre di Dio!”, come a dire: se non fate questo vi aspettano… Il popolo di Dio aggiusta sempre le cose e aiuta. Uno scisma è sempre un distacco elitario provocato dall’ideologia staccata dalla dottrina. È un’ideologia, forse giusta, ma che entra nella dottrina e la stacca e diventa “dottrina” per un certo tempo. Per questo io prego che non ci siano degli scismi, ma non ho paura.

[Il giornalista riprende la domanda]

Cosa fare per aiutare?… Questo che sto dicendo adesso: non avere paura…; io rispondo alle critiche, tutto questo lo faccio. Forse se a qualcuno verrà in mente qualcosa che devo fare lo farò, per aiutare… Ma questo è uno dei risultati del Vaticano II, non di questo Papa o dell’altro Papa... Per esempio, le cose sociali che dico, sono le stesse che ha detto Giovanni Paolo II, le stesse. Io copio lui. Ma dicono: “Il Papa è troppo comunista…”. Entrano delle ideologie nella dottrina, e quando la dottrina scivola nelle ideologie, lì c’è la possibilità di uno scisma. E c’è anche l’ideologia behaviorista, cioè il primato di una morale asettica sulla morale del popolo di Dio. I pastori devono condurre il gregge tra la grazia e il peccato, perché la morale evangelica è questa. Invece una morale di un’ideologia pelagiana, per così dire, ti porta alla rigidità, e oggi abbiamo tante scuole di rigidità dentro la Chiesa, che non sono scismi ma sono vie cristiane pseudoscismatiche, che finiranno male. Quando voi vedete dei cristiani, dei vescovi, dei sacerdoti rigidi, dietro quell’atteggiamento ci sono dei problemi, non c’è la santità del Vangelo. Per questo dobbiamo essere miti con le persone che sono tentate di fare questi attacchi, stanno attraversando un problema, dobbiamo accompagnarli con mitezza. Grazie.

MATTEO BRUNI

L’ultima domanda è di Aura Miguel di Radio Renascença.

PAPA FRANCESCO:

Come ho parlato il portoghese?

AURA VISTAS MIGUEL (Radio Renascença, Portogallo)

Benissimo, tutti hanno capito, si capiva molto bene. Santità, io torno sul Mozambico solo per chiedere questo. Noi sappiamo che a Lei non piace visitare Paesi durante la campagna elettorale, eppure lo ha fatto in Mozambico, a un mese dalle elezioni, essendo giustamente il Presidente che L’ha invitata uno dei candidati. Come mai?

PAPA FRANCESCO:

Sì. Non è stato uno sbaglio. È stata una scelta presa liberamente, perché la campagna elettorale incominciava in questi giorni, e passava in secondo piano davanti al processo di pace. L’importante era visitare per aiutare a consolidare il processo di pace. E questo era più importante di una campagna che ancora non era incominciata, incominciava nei giorni successivi alla fine della mia visita. E lì al limite, facendo il bilancio tra le due cose, [abbiamo valutato]: sì, è importante consolidare. E poi ho potuto salutare gli avversari politici, questo per dare l’idea e sottolineare che l’importante era questo, e non “fare il tifo” per questo Presidente che io non conosco, non so come pensa, e neppure come pensano gli altri. Per me era più importante sottolineare l’unità del Paese. Ma quello che dice Lei è vero: dobbiamo rimanere distanti dalle campagne elettorali, questo sì è vero. Grazie.

Grazie tante a voi per il vostro lavoro! Vi sono riconoscente per tutto quello che fate. E pregate per me; io lo faccio per voi. Buon pranzo!

 


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Segue

Trascrizione non ufficiale a cura di Alessandro De Carolis e Andrea Tornielli

La conferenza stampa sul volo di ritorno dall’Africa: Francesco ricorda la gioia dei bambini incontrati e afferma che lo Stato ha il dovere di prendersi cura della famiglia. Dice che la xenofobia è «una malattia» e chiede di preservare l’identità dei popoli dalle colonizzazioni ideologiche. Parla delle critiche che riceve e a una domanda sulle tentazioni scismatiche risponde: «Prego perché non ci siano, ma non ho paura»

Dal volo Antananarivo-Roma

Papa Francesco, due ore e mezza dopo il decollo del volo Air Madagascar da Antananarivo a Roma, ha incontrato i giornalisti al seguito e si è intrattenuto con loro per circa un’ora e mezza rispondendo alle loro domande.

Julio Mateus Manjate (Noticias, Mozambico)
Nel passaggio in Mozambico lei si è riunito con il presidente della Repubblica e con i due presidenti dei due partiti presenti in Parlamento. Mi piacerebbe sapere qual è la sua aspettativa per il processo di pace, e quale messaggio vorrebbe lasciare al Mozambico. E due commenti veloci su due fenomeni: la xenofobia che c’è in Africa e l’impatto delle reti sociali nell’educazione dei giovani.

«Il primo punto sul processo di pace. Oggi si identifica il Mozambico con un lungo processo di pace che ha avuto i suoi alti e i suoi bassi, ma alla fine sono riusciti a concluderlo con un abbraccio storico. Io mi auguro che questo vada avanti e prego per questo. Invito tutti a fare uno sforzo affinché questo processo di pace vada avanti. Perché tutto si perde con la guerra, tutto si guadagna con la pace, ha detto un Papa prima di me (Pio XII, ndr). Questo è chiaro, non bisogna dimenticarlo. È un processo di pace lungo perché ha avuto una prima tappa, poi si è interrotto, poi un’altra… E lo sforzo dei capi di partiti contrari non dire nemici è di andare l’uno incontro all’altro. È uno anche sforzo pericoloso, rischiavano la vita alcuni, ma alla fine si è arrivati alla conclusione. Io vorrei ringraziare in questo processo di pace tutta la gente, tutta la gente che ha dato un aiuto. A cominciare dal primo, che ha iniziato con un caffè… C’era gente lì, c’era un sacerdote della Comunità di Sant’Egidio, che sarà fatto cardinale il prossimo 5 ottobre (monsignor Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna ndr). E poi con l’aiuto di tanta gente, anche della Comunità di Sant’Egidio, sono arrivati a questo risultato, Noi non dobbiamo essere trionfalistici in queste cose. Il trionfo è la pace. Noi non abbiamo il diritto di essere trionfalistici, perché la pace ancora è fragile nel tuo Paese, come nel mondo è fragile. La si deve trattare come si trattano le cose appena nate, come i bambini, con molta, molta tenerezza, con molta delicatezza, con molto perdono, con molta pazienza, per farla crescere e che sia robusta. È il trionfo del Paese: la pace la pace è la vittoria del Paese, dobbiamo capire questo…. E questo vale per tutti i Paesi, che si distruggono con la guerra. Le guerre distruggono, fanno perdere tutto. Io mi dilungo un po’ su questo tema della pace perché ce l’ho a cuore. Quando alcuni mesi fa c’è stata la celebrazione dello sbarco in Normandia, si è vero c’erano i capi dei governi a fare memoria di quello che era l’inizio della fine di una guerra crudele, anche di una dittatura antiumana e crudele come il nazismo e il fascismo… ma su quella spiaggia sono rimasti 46 mila sodati, è il prezzo della guerra. Confesso che quando sono andato a Redipuglia per la commemorazione della Prima Guerra mondiale io ho pianto: “Per favore mai più la guerra!”. Quando sono andato ad Anzio a celebrare il giorno dei defunti, nel cuore sentivo che dobbiamo creare questa coscienza: le guerre non risolvono niente, anzi fanno guadagnare le persone che non vogliono (la pace) dell’umanità. Scusatemi per questa appendice ma dovevo dirlo davanti a un processo di pace, per il quale prego e farò di tutto perché vada avanti e vi auguro che cresca con forza.
Secondo punto, il problema della gioventù. L’Africa è un continente giovane, ha vita giovane, se noi facciamo il paragone con l’Europa, ripeterò quello che ho detto a Strasburgo: la madre Europa è quasi diventata la “nonna Europa”. È invecchiata, stiamo vivendo un inverno demografico gravissimo in Europa. Ho letto - non ricordo di quale Paese, ma si tratta di una statistica ufficiale del governo – che nel 2050 in quel Paese ci saranno più pensionati che gente che lavora, questo è tragico. Qual è l’origine di questo invecchiamento dell’Europa? Io, è un’opinione personale, penso che il benessere sia alla radice. Attaccarsi al benessere – “Ma, stiamo bene, non faccio figli perché devo comprare la villa, devo fare turismo, sto bene così, un figlio è un rischio, non si sa mai…”. Benessere e tranquillità ma è un essere che ti porta a invecchiare. Invece l’Africa è piena di vita. Ho trovato in Africa un gesto che avevo trovato nelle Filippine e a Cartagena in Colombia. La gente che alzava in alto i bambini come a dire “questo è il mio tesoro, questa è la mia vittoria, il mio orgoglio”. È il tesoro dei poveri, il bambino. Ma è il tesoro di una patria, di un Paese. Lo stesso gesto l’ho visto in Europa orientale, a Iasci, soprattutto quella nonna che faceva vedere il bambino: questo è il mio trionfo… Voi avete la sfida di educare questi giovani e di fare leggi per questi giovani, l’educazione in questo momento è prioritaria nel tuo Paese. È prioritario che si cresca avendo delle leggi sulla formazione. Il primo ministro di Mauritius mi aveva parlato di questo. Diceva di avere in mente la sfida di far crescere il sistema educativo gratuito per tutti. La gratuità del sistema educativo: è importante perché ci sono centri educativi di alto livello, ma a pagamento. I centri educativi ci sono in tutti i Paesi ma vanno moltiplicati perché l’educazione arrivi a tutti. Le leggi sull’educazione e la salute in questo momento sono la priorità lì.
Terzo punto, la xenofobia. Ho letto sui giornali di questo della xenofobia, ma non è un problema solo dell’Africa. È una malattia umana, come il morbillo… È una malattia che entra in un Paese, entra in un continente, e mettiamo muri. Ma i muri lasciano soli quelli che li fabbricano. Sì, lasciano fuori tanta gente, ma coloro che rimangano dentro i muri rimarranno soli e alla fine della storia sconfitti per via di grandi invasioni. La xenofobia è una malattia. Una malattia “giustificabile” ad esempio per mantenere la purezza della razza, tanto per nominare una xenofobia del secolo scorso. E tante volte le xenofobie cavalcano l’onda dei populismi politici. Ho detto la settimana scorsa, o l’altra, che delle volte in alcuni posti sento fare discorsi che somigliano a quelli di Hitler nel ’34. È come se in Europa ci fosse un pensiero di ritorno.
Ma anche voi in Africa avete un problema culturale che dovete risolvere. Ricordo di averne parlato in Kenya, il tribalismo. Lì ci vuole un lavoro di educazione, avvicinamento fra le diverse tribù per creare una nazione. Abbiamo commemorato il 25.mo della tragedia del Rwanda poco tempo fa: è un effetto del tribalismo. Ricordo in Kenya, nello stadio, quando ho chiesto a tutti di alzarsi e darsi la mano e dire “no al tribalismo, no al tribalismo…” Dobbiamo dire no. Si tratta di una chiusura. E c’è anche una xenofobia domestica, ma comunque una xenofobia. Si deve lottare contro questo: sia la xenofobia di un Paese verso l’altro, sia la xenofobia interna, che nel caso di alcuni luoghi dell’Africa e con il tribalismo porta alla tragedia come quella del Rwanda».

Marie Fredeline Ratovoarivelo (Radio Don Bosco, Madagascar)
Lei ha parlato dell’avvenire dei giovani durante la sua visita apostolica, io penso che la fondazione di una famiglia è molto importante per il futuro. I giovani in Madagascar i giovani vivono in situazioni di famiglia molto complesse, a causa della povertà. Come può la Chiesa accompagnare i giovani di fronte al fatto che i suoi insegnamenti sono considerati superati e di fronte rivoluzione sessuale di oggi?

«La famiglia certamente ha la responsabilità dell’educazione dei figli. È stato toccante il modo di esprimersi dei giovani del Madagascar, lo abbiamo visto anche in Mauritius e pure con i giovani del Mozambico dell’incontro interreligioso per la pace. Dare dei valori ai giovani, farli crescere. In Madagascar il problema della famiglia è legato al problema della povertà, alla mancanza di lavoro e tante volte anche allo sfruttamento del lavoro. Per esempio, nella cava di granito gli operai guadagnano un dollaro e mezzo al giorno… Sono fondamentali le leggi che tutelano il lavoro e la famiglia. E anche i valori familiari, che ci sono ma tante volte poi vengono distrutti dalla povertà: non i valori ma il poterli trasmettere e portare avanti l’educazione dei giovani. Abbiamo visto in Madagascar l’opera di Akamasoa, il lavoro che si fa con i più piccoli perché possano crescere in una famiglia che non è quella naturale, sì, ma è l’unica possibilità Ieri in Mauritius, dopo la Messa, ho trovato monsignor Rueda con un poliziotto, alto, grande, che teneva per mano una bambina, aveva due anni più o meno. Si era persa e piangeva perché non si trovavano i genitori. Era stato dato l’annuncio e intanto il poliziotto la accarezzava e lì ho visto (capito) il dramma di tanti bambini e giovani a cui capita di perdere il legame familiare benché vivano in una famiglia – in questo caso si era trattato di un incidente soltanto. E anche il ruolo dello Stato per proteggerli e portarli avanti. Lo Stato deve prendersi cura della famiglia, dei giovani. E è un dovere dello Stato, un dovere portarli avanti. Poi, ripeto, per una famiglia avere un figlio è un tesoro. E voi avete questa coscienza, avete la coscienza del tesoro. Ma adesso è necessario che tutta la società abbia la coscienza di far crescere questo tesoro, per far crescere il Paese, far crescere la patria, far crescere i valori che daranno sovranità alla patria. Una cosa dei bambini che mi ha colpito in tutti e tre i Paesi è che la gente salutava. Cerano bambini piccolini che pure salutavano, erano nella gioia. Ma sulla gioia vorrei parlare dopo».

Jean Luc Mootoosamy (Radio One, Mauritius)
Il Primo ministro delle Mauritius l’ha ringraziata per la sua preoccupazione per la sofferenza dei nostri concittadini che sono stati costretti ad abbandonare il proprio arcipelago dal Regno Unito dopo l’illecito separazione di questa parte del nostro territorio prima dell’indipendenza. Oggi sull’isola di Diego Garcia c’è una base militare americana. Santo Padre, i chagossiani in esilio forzato da cinquant’anni vogliono tornare alla loro terra e le rispettive amministrazioni di Stati Uniti e Regno Unito non permettono che questo accada nonostante ci sia una risoluzione delle Nazioni Unite del maggio scorso. Come può lei sostenere la volontà dei chagossiani e aiutare il popolo di Chagos a tornare a casa?

«Io vorrei ripetere ciò che dice la Dottrina della Chiesa su questo. Le organizzazioni internazionali, quando noi le riconosciamo e attribuiamo loro la capacità di giudicare su scala mondiale – pensiamo al tribunale internazionale dell’Aja o alle Nazioni Unite – nel momento i cui fanno delle affermazioni se siamo un’umanità (un consesso civile) abbiamo il dovere obbedire. È vero che non sempre le cose che sembrano giuste per tutta l’umanità lo saranno per le nostre tasche, ma si deve obbedire alle istituzioni internazionali, per questo sono state create le Nazioni Unite, sono stati creati i tribunali internazionali. Poi c’è un altro fenomeno che però, lo dico chiaramente, non so se ha attinenza con questo caso. Quando arriva una liberazione di un popolo (un popolo ottiene l’indipendenza) e lo Stato dominante deve andare via – in Africa si sono verificati molti processi di indipendenza, dalla Francia, dalla Gran Bretagna, dal Belgio, dall’Italia, tutti hanno dovuto lasciare, alcune sono maturate bene – ma in tutti c’è sempre la tentazione di andarsene con qualcosa in tasca: sì io dò la libertà a questo popolo ma qualche briciola me la porto… Do la libertà al Paese ma dal pavimento in su, il sottosuolo rimane mio. È un esempio, non so se è vero, ma per dire: sempre c’è quella tentazione… Io credo che le organizzazioni internazionali debbano fare un processo di accompagnamento, riconoscendo alle potenze dominanti quello che hanno fatto a quel Paese e riconoscendo la buona volontà di andare via e aiutandoli a lasciare totalmente, con libertà, in spirito di fratellanza. È un lavoro culturale lento dell’umanità e in questo le istituzioni internazionali ci aiutano tanto, sempre, e dobbiamo andare avanti rendendo forti le istituzioni internazionali: le Nazioni Unite che riprendano bene il loro ruolo, che l’Unione Europa sia più forte, non nel senso del dominio, ma nel senso della giustizia, della fratellanza, della unità per tutti. Questo credo sia una delle cose importanti. E c’è un’altra cosa che io vorrei approfittare per dire dopo il suo intervento. Oggi non ci sono colonizzazioni geografiche – almeno non tante… ma ci sono colonizzazioni ideologiche, che vogliono entrare nella cultura dei popoli e cambiare quella coltura e omogeneizzare l’umanità. È l’immagine della globalizzazione come una sfera, tutti i punti equidistanti dal centro. Invece la vera globalizzazione non è una sfera, è un poliedro dove ogni popolo conserva la propria identità ma si unisce a tutta l’umanità. Invece la colonizzazione ideologica cerca di cancellare l’identità degli altri per farli uguali e ti vengono con proposte ideologiche che vanno contro la natura di quel popolo, la storia di quel popolo, contro i valori di quel popolo. E dobbiamo rispettare l’identità dei popoli, questa è una premessa da difendere sempre. Va rispettata l’identità dei popoli e così cacciamo via tutte le colonizzazioni.

Prima di dare la parola a EFE – che è privilegiata, è “vecchia”, ha 80 anni - io vorrei dire qualcosa di più sul viaggio che mi ha colpito tanto. Del tuo Paese mi ha colpito tanto la capacità di la capacità di unità interreligiosa, di dialogo interreligioso. Non si cancella la differenza delle religioni ma si sottolinea che tutti siamo fratelli, che tutti dobbiamo parlare. Questo è un segnale di maturità del tuo Paese. Parlando con il primo ministro ieri sono rimasto stupito di come loro, voi, abbiano elaborato questa realtà e la vivano come necessità di convivenza. C’è una commissione inter-cultuale che si raduna… La prima cosa che io ho trovato ieri entrando in episcopio – un aneddoto – è stata un mazzo di fiori bellissimo. Chi l’ha inviato? Il grande Imam. Si è fratelli, la fratellanza umana che è alla base e rispetta tutte le credenze. Il rispetto religioso è importante, per questo ai missionari dico di non fare proselitismi. Il proselitismo fale per il mondo della politica, dello sport – tifa per la mia squadra, per la tua… - ma non per la fede. Ma cosa significa per lei, Santo Padre, evangelizzare? C’è una frase di S. Francesco che mi ha illuminato tanto. Francesco d’Assisi diceva ai suoi frati: “Portate il Vangelo, se fosse necessario anche con le parole”. Cioè evangelizzare è quello che noi leggiamo nel libro degli Atti degli Apostoli: testimonianza. E quella testimonianza provoca la domanda: “Ma tu perché vivi così, perché fai questo?”. E lì spiego: “È per il Vangelo”. L’annuncio viene prima dalla testimonianza. Prima vivi come cristiano e se ti domandano parla. La testimonianza è il primo passo e il protagonista dell’evangelizzazione non è il missionario ma lo Spirito Santo che porta i cristiani e i missionari a dare testimonianza. Poi verranno le domande o non verranno, ma conta la testimonianza di vita. Questo è il primo passo. È importante per evitare il proselitismo. Quando vedete proposte religiose che seguono la strada del proselitismo, non sono cristiane. Cercano proseliti, non adoratori di Dio in verità. Io ne approfitto per sottolineare questa vostra esperienza interreligiosa che è tanto bella. Anche il primo ministro mi ha detto che quando uno chiede un aiuto uno, diamo lo stesso aiuto a tutti, e nessuno si offende, perché si sentono fratelli. E questo fa l’unità del Paese. È molto, molto importante. Anche negli incontri non solo c’erano cattolici, c’erano cristiani di atre confessioni, e c’erano musulmani, indù e tutti erano fratelli. Questo l’ho visto anche in Madagascar abbastanza e anche nell’Incontro interreligioso per la pace dei giovani, con giovani di diverse religioni che hanno voluto esprimere come vivono loro il desiderio per la pace. Pace, fraternità, convivenza interreligiosa, niente proselitismo, sono cose che dobbiamo imparare per la pace. Questa è una cosa che devo dire. Poi un’altra cosa che mi ha colpito – l’ho vista in tre Paesi ma faccio riferimento al Madagascar, siamo partiti di lì – il popolo, per le strade c’era il popolo, autoconvocato. Alla Messa allo stadio sotto la pioggia c’era il popolo, che danzava sotto la pioggia, era felice… E anche nella veglia notturna, la Messa - che dicono abbia sorpassato il milione, io non so, lo dicono le statistiche ufficiali, io vado un po’ sotto, diciamo 800 mila. Ma il numero non interessa, interessa il popolo, la gente che è andata a piedi dal pomeriggio prima, è stata alla veglia, ha dormito lì – io ho pensato a Rio de Janeiro nel 2013 (la Giornata Mondiale della Gioventù, ndr) che dormivano sulla spiaggia – era il popolo che voleva stare col Papa. Io mi sono sentito umile, piccolissimo davanti ala grandezza della sovranità popolare. È qual è il segno che un gruppo di gente è popolo? La gioia. C’erano poveri, c’era gente che non aveva mangiato quel pomeriggio per stare lì, erano gioiosi. Invece quando le persone o i gruppi si staccano dal quel senso popolare della gioia, la perdono. È uno dei primi segnali, la tristezza dei soli, la tristezza di coloro che hanno dimenticato le loro radici culturali. Avere coscienza di essere un popolo è avere coscienza di avere una identità, di avere una coscienza, di avere modo di capire la realtà e questo accomuna la gente. Ma il segnale che tu sei nel popolo e non in una élite, è la gioia, la gioia comune. Questo ho voluto sottolinearlo. E per questo i bambini salutavano così, perché i genitori li contagiavano con la gioia».

Cristina Cabrejas (dell’agenzia spagnola EFE che celebra gli ottant’anni dalla fondazione)
Prima di tutto diamo per con consolidato che uno dei suoi piani futuri è venire in Spagna, e speriamo sia possibile. La prima domanda che voglio farle: per questi ottant’anni di EFE abbiamo domandato a diverse persone, a leader mondiali: come crede che sarà l’informazione del futuro?

«Avrei bisogno della palla di cristallo... Ci andrò in Spagna, se vivo, ma la priorità dei viaggi in Europa è per i Paesi piccoli, poi i più grandi. Non so come sarà la comunicazione del futuro. Penso come era per esempio la comunicazione quando ero ragazzo, ancora senza tv, con la radio col giornale, anche col giornale clandestino che era perseguitato dal governo di turno, si vendeva di notte con i volontari… e anche orale. Se facciamo il paragone con questa, era una informazione precaria e questa di oggi sarà forse precaria rispetto a quella del futuro. Quello che rimane come costante della comunicazione è la capacità di trasmettere un fatto, e di distinguerlo dal racconto, dal riportato. Una delle cose che danneggia la comunicazione, del passato, del presente e del futuro è ciò che viene riportato. C’è uno studio molto bello, uscito tre anni fa, di Simone Paganini, una studiosa di linguistica dell’Università di Aquisgrana e parla del movimento della comunicazione tra lo scrittore, lo scritto e il lettore. Sempre la comunicazione rischia di passare dal fatto al riportato e questo rovina la comunicazione. È importante che sia il fatto e sempre avvicinarsi al fatto. Anche nella Curia lo vedo: c’è un fatto e poi ognuno lo addobba mettendoci del suo, senza cattiva intenzione, questa è la dinamica. Dunque l’ascesi del comunicatore è sempre di tornare al fatto, riportare il fatto, e poi dire la mia interpretazione è questa, mi hanno detto questo, distinguendo il fatto da ciò che viene riportato. Tempo fa mi hanno raccontato la storia di Cappuccetto Rosso ma sulla base di ciò che veniva riportato, e terminava con Cappuccetto rosso e la nonna che mettevano il lupo in pentola e lo mangiavano il lupo. Il racconto cambiava le cose. Qualsiasi sia il mezzo di comunicazione, la garanzia è la fedeltà: “dice che” si può usare? Sì, si può usare nella comunicazione ma stando sempre all’erta per constatare l’obiettività del “si dice che…”. È uno dei valori che bisogna perseguire nella comunicazione. In secondo luogo, la comunicazione deve essere umana, e nel dire umana intendo costruttiva, cioè deve far crescere l’altro. Una comunicazione non \può essere usata come uno strumento di guerra, perché è anti-umana, distrugge. Poco fa ho passato un articolo a padre Rueda che ho trovato una rivista, che si intitolava: le gocce di arsenico della lingua. La comunicazione deve stare al servizio della costruzione, non della distruzione. Quando la comunicazione è al servizio della distruzione? Quando difende progetti non umani. Pensiamo alla propaganda delle dittature del secolo passato, erano dittature che sapevano comunicare bene, ma fomentano la guerra, le divisioni e la distruzione. non so che cosa dire tecnicamente perché non sono ferrato nella materia. Ho voluto sottolineare dei valori ai quali la comunicazione di qualsiasi mezzo, deve mantenersi sempre di mantenersi coerente».

Cristina Cabrejas (seconda domanda)
Passiamo al viaggio. Uno dei temi di questo viaggio è stata la protezione dell’ambiente, degli alberi, minacciati dalla deforestazione e dagli incendi. In questo momento sta accadendo in Amazzonia. Lei pensa che i governi di queste aree stanno facendo di tutto per proteggere questo polmone del mondo?

«Torno sull’Africa. L’ho già detto in un altro viaggio, c’è nell’inconscio collettivo un motto: l’Africa va sfruttata. Noi non pensiamo mai: l’Europa va sfruttata. Dobbiamo liberare l’umanità da questo inconscio collettivo. Il punto più forte dello sfruttamento è sull’ambiente, con la deforestazione, la distruzione della biodiversità. Un paio di mesi fa, ho ricevuto i cappellani del mare e all’udienza c’erano sette ragazzi pescatori che pescavano con una barca che non era più lunga di questo aereo. Pescavano con mezzi meccanici come si fa adesso, un po’ avventurieri. Mi hanno detto: in alcuni mesi abbiamo preso 6 tonnellate di plastica… In Vaticano abbiamo proibito la plastica, stiamo in questo lavoro. Questa è una realtà soltanto dei mari. L’intenzione di preghiera di questo mese è proprio la protezione degli oceani, che ci danno anche l’ossigeno che respiriamo. Poi ci sono i grandi polmoni, in Centro Africa, tutta la zona Panamazzonica, e poi altri più piccoli. Bisogna difendere l’ecologia, la biodiversità, che è la nostra vita, difendere l’ossigeno, che è la nostra vita. A me conforta che a portare avanti questa lotta siano i giovani, che hanno una grande coscienza e dicono: il futuro è nostro, col tuo fa quello che vuoi, ma non col nostro! Credo che essere arrivati all’accordo di Parigi è stato un passo avanti buono, e poi anche gli altri… Sono incontri che aiutano a prendere coscienza. Ma l’anno scorso d’estate, quando ho visto quella foto della nave che navigava al Polo Nord come se niente fosse, ho sentito angoscia, e poco tempo fa abbiamo visto tutti la fotografia dell’atto funebre simbolico per quel ghiacciaio che non c’era più in Groenlandia. … Tutto questo avviene fretta, dobbiamo prendere coscienza cominciando dalle cose piccole. I governanti stanno facendo tutto? Alcuni di più, alcuni di meno. È vero che c’è una parola che devo dire e che sta alla base dello sfruttamento ambientale. Io sono rimasto commosso dall’articolo sul Messaggero di Franca (Giansoldati, ndr), che non ha risparmiato parole e ha parlato di manovre distruttive e di rapacità, e questo non solo in Africa ma anche nelle nostre città, nelle nostre civiltà. E la parola brutta brutta è corruzione: io ho bisogno di fare questo e per farlo devo deforestare e ho bisogno del permesso del governo o del governo provinciale. Vado dal responsabile - e qui ripeto letteralmente ciò che mi ha detto un imprenditore spagnolo - e la domanda che noi sentiamo dire quando vogliamo far approvare il progetto è “Quanto per me?”, sfacciatamente. Questo succede in Africa, in America Latina e anche in Europa. Dappertutto, quando si prende la responsabilità socio-politica come un guadagno personale, lì si sfruttano valori, la natura, la gente. L’Africa va sfruttata… Ma pensiamo a tanti operai che sono sfruttati nelle nostre società; il caporalato lo abbiamo in Europa, non l’hanno inventato gli africani. La domestica pagata un terzo di quello che si deve, non l’hanno inventato gli africani, le donne ingannate e sfruttate per la prostituzione nel centro delle nostre città, non l’hanno inventato gli africani. Anche da noi c’è questo sfruttamento, non solo ambientale, anche umano. E questo è per corruzione. E quando la corruzione è dentro nel cuore, prepariamoci, perché arriva di tutto.

Jason Drew Horowitz (The New York Times, Stati Uniti)
Nel volo verso Maputo lei ha riconosciuto di essere sotto attacco di un settore della Chiesa americana, ovviamente ci sono forti critiche da alcuni vescovi e cardinali, ci sono tv cattoliche e siti web americani molto critici, e persino alcuni dei suoi alleati più stretti hanno parlato di un complotto contro di lei. C’è qualcosa che questi critici non capiscono del suo pontificato? C’è qualcosa che lei ha imparato dalle critiche? Lei ha paura di uno scisma nella Chiesa americana? E se sì, c’è qualcosa che lei potrebbe fare - un dialogo - per evitarlo?

«Prima di tutto, le critiche sempre aiutano, sempre. Quando uno riceve una critica subito deve fare l’autocritica e dire: questo è vero o non vero? Fino a che punto? E io sempre dalle critiche traggo vantaggi. A volte ti fanno arrabbiare… Ma i vantaggi ci sono. Nel viaggio di andata a Maputo uno di voi mi ha dato quel libro in francese su come gli americani vogliono cambiare il Papa. Sapevo di quel libro, ma non l’avevo letto. Le critiche non sono soltanto degli americani, ci sono un po’ dappertutto, anche in Curia. Almeno quelli che le dicono hanno il vantaggio dell’onestà di dirle. A me non piace quando le critiche stanno sotto il tavolo: ti fanno un sorriso facendo vedere i denti e poi ti danno il pugnale da dietro. Questo non è leale, non è umano. La critica è un elemento di costruzione, e se la tua critica non è giusta, tu stai preparato a ricevere la risposta e fare un dialogo e arrivare a un punto giusto. Questa è la dinamica della critica vera. Invece la critica delle pillole di arsenico, di cui parlavamo a proposito di questo articolo che ho dato a padre Rueda, è un po’ buttare la pietra e nascondere la mano… Questo non serve, non aiuta. Aiuta ai piccoli gruppetti chiusi, che non vogliono sentire la risposta alla critica. Invece una critica leale - io penso questo, questo e questo - è aperta alla risposta, questo costruisce, aiuta. Davanti al caso del Papa: questo del Papa non mi piace, lo critico, parlo, faccio un articolo e gli chiedo di rispondere, questo è leale. Fare una critica senza voler sentire la risposta e senza fare il dialogo è non voler bene alla Chiesa, è andare dietro a un’idea fissa, cambiare il Papa, o fare uno scisma. Questo è chiaro: sempre una critica leale è ben ricevuta, almeno da me. Secondo, il problema dello scisma: nella Chiesa ci sono stati tanti di scismi. Dopo il Vaticano I, ad esempio, l’ultima votazione, quella dell’infallibilità, un bel gruppo n’è andato e ha fondato i Vetero-cattolici per essere proprio “onesti” verso la tradizione della Chiesa. Poi loro hanno trovato uno sviluppo differente e adesso fanno le ordinazioni delle donne. Ma in quel momento erano rigidi, andavano dietro un’ortodossia e pensavano che il concilio avesse sbagliato. Un altro gruppo se n’è andato zitti zitti, ma non hanno voluto votare… Il Vaticano II ha avuto tra le conseguenze queste cose. Forse il distacco post-conciliare più conosciuto è quello di Lefebvre. Sempre c’è l’opzione scismatica nella Chiesa, sempre. Ma è una delle opzioni che il Signore lascia alla libertà umana. Io non ho paura degli scismi, prego perché non ce ne siano, perché c’è in gioco la salute spirituale di tanta gente. Che ci sia il dialogo, che ci sia la correzione se c’è qualche sbaglio, ma il cammino dello scisma non è cristiano. Pensiamo all’inizio della Chiesa, come ha cominciato con tanti scismi, uno dietro l’altro: ariani, gnostici, monofisiti... Poi mi viene di raccontare un aneddoto: è stato il popolo di Dio a salvare dagli scismi. Gli scismatici sempre hanno una cosa in comune: si staccano dal popolo, dalla fede del popolo di Dio. E quando nel Concilio di Efeso c’era la discussione sulla maternità divina di Maria, il popolo - questo è storico - era all’entrata della cattedrale quando i vescovi entravano per fare il concilio. Erano lì con dei bastoni. Li facevano vedere ai vescovi e gridavano “Madre di Dio! Madre di Dio!”, come per dire: se non fate questo vi aspettano… Il popolo di Dio sempre aggiusta e aiuta. Uno scisma sempre è un distacco elitario provocato da un’ideologia staccata dalla dottrina. È un’ideologia, forse giusta, ma che entra nella dottrina e la stacca… Per questo prego perché non siano degli scismi, ma non ho paura. Questo è un risultato del Vaticano II, non di questo o di quell’altro Papa. Per esempio le cose sociali che dico, sono le stesse che ha detto Giovanni Paolo II, le stesse! Io copio lui. Ma dicono: il Papa è comunista… Entrano delle ideologie nella dottrina e quando la dottrina scivola nelle ideologie, lì c’è la possibilità di uno scisma. C’è l’ideologia della primazia di una morale asettica sulla morale del popolo di Dio. I pastori devono condurre il gregge tra la grazia e il peccato, perché la morale evangelica è questa. Invece una morale di un’ideologia così pelagiana ti porta alla rigidità, e oggi abbiamo tante scuole di rigidità dentro al Chiesa, che non sono scismi ma vie cristiane pseudo scismatiche, che finiranno male. Quando voi vedete cristiani, vescovi, sacerdoti rigidi, dietro ci sono dei problemi, non c’è la santità del Vangelo. Per questo dobbiamo essere miti con le persone che sono tentate da questi attacchi, stanno passando un problema, dobbiamo accompagnarli con mitezza»

Aura Vistas Miguel (Radio Renascença, Portogallo)
Noi sappiamo che a lei non piace visitare Paesi durante la campagna elettorale, eppure lo ha fatto in Mozambico, a un mese dalle elezioni, essendo il presidente che l’ha invitata uno dei candidati. Come mai?

«Sì. Non è stato uno sbaglio, è stata un’opzione decisa liberamente, perché la campagna elettorale incomincia in questi giorni e passava in secondo piano rispetto al processo di pace. L’importante era aiutare a consolidare questo processo. E questo è più importante di una campagna che ancora non è incominciata. Facendo il bilancio tra le due cose, bisognava consolidare il processo di pace. E poi ho incontrato anche i due avversari politici, per sottolineare che l’importante era quello, e non fare il tifo per il presidente ma sottolineare l’unità del Paese. Quello che dice lei è però vero: dobbiamo staccarci un po’ dalle campagne elettorali».

(Trascrizione non ufficiale a cura di Alessandro De Carolis e Andrea Tornielli)



Fonte Radio Vaticana
https://www.vaticannews.va/it/papa/news/2019-09/papa-francesco-conferenza-stampa-viaggio-africa.html