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DAMMI SIGNORE, UN’ALA DI RISERVA

Voglio ringraziarti, Signore, per il dono della vita,

ho letto da qualche parte

che gli uomini sono angeli con un'ala soltanto:

possono volare solo rimanendo abbracciati.

A volte, nei momenti di confidenza,

oso pensare, Signore,

che anche Tu abbia un'ala soltanto,

l'altra la tieni nascosta,

forse per farmi capire

che Tu non vuoi volare senza me,

per questo mi hai dato la vita:

 perché io fossi tuo compagno di volo.


Insegnami allora, a librarmi con Te,

perché vivere non è trascinare la vita,

non è strapparla, non è rosicchiarla,

vivere è abbandonarsi come un gabbiano

all'ebbrezza del vento.

Vivere è assaporare l'avventura della libertà

vivere è stendere l'ala, l'unica ala

con fiducia di chi sa di avere nel volo

un partner grande come Te.


Ma non basta saper volare con Te, signore

Tu mi hai dato il compito

di abbracciare anche il fratello

e aiutarlo a volare.

Ti chiedo perdono, perciò,

per tutte le ali che non ho aiutato a distendersi.

Non farmi più passare indifferente

vicino al fratello che è rimasto

con l'ala, l'unica ala

inesorabilmente impigliata nella rete

della miseria e della solitudine

e si è ormai persuaso

di non essere più degno di volare con te,

soprattutto per questo fratello sfortunato,

dammi, o Signore un'ala di riserva.


- Parole di Don Tonino Bello -

       Era di primo mattino,

e il sole appena sorto luccicava tremolando sulle scaglie del mare appena increspato.

   A un miglio dalla costa un peschereccio arrancava verso il largo. E fu data la voce allo Stormo. E in men che non si dica tutto lo stormo Buonappetito si adunò, si diedero a giostrare ed accanirsi per beccare qualcosa da mangiare. Cominciava così una nuova dura giornata.

   Ma lontano di là soletto, lontano dalla costa e dalla barca, un gabbiano si stava allenando per suo conto: era il gabbiano Jonathan Livingston. Si trovava a una trentina di metri d'altezza: distese le zampette palmate, aderse il becco, si tese in uno sforzo doloroso per imprimere alle ali una tensione tale da consentirgli di volare lento. E infatti rallentò tanto che il venti divenne un fruscìo lento intorno a lui, tanto che il mare ristava immoto sotto le sue ali. Strinse gli occhi, si concentrò intensamente, trattenne il fiato, compì ancora uno sforzo per accrescere solo... d'un paio...di centimetri...quella...penosa torsione e... d'un tratto gli si arruffano le penne, entra in stallo e precipita giù.

   I gabbiani, lo sapete anche voi, non vacillano, non stanano mai. Stanare, scomporsi in volo, per loro è una vergogna, è un disonore.

   Ma il gabbiano Jonathan Livingston - che faccia tosta, eccolo là che ci riprova ancora, tende e torce le ali per aumentare la superficie, vibra tutto nello sforzo e patapunf stalla di nuovo - no, non era un uccello come tanti.

   La maggior parte dei gabbiani non si danno la pena di apprendere, del volo, altro che le nozioni elementari: gli basta arrivare dalla costa a dov'è il cibo e poi tornare a casa.

   Per la maggior parte dei gabbiani, volare non conta, conta mangiare. A quel gabbiano lì, invece, non importava tanto procurarsi il cibo, quanto volare. Più d'ogni altra cosa al mondo, a Jonathan Livingston piaceva librarsi nel cielo.

   Ma a sue spese scoprì che, a pensarla in quel modo, non è facile poi trovare amici, fra gli altri uccelli. E anche i suoi genitori erano afflitti a vederlo così: che passava  giornate intere tutto solo, dietro i suoi esperimenti, quei suoi voli planati a bassa quota, provando e riprovando.