Batteria scarica

Smartphone-Batteria-scaricadi CRISTIAN MARTINI GRIMALDI

Un corpo senza anima. Ecco a cosa assomiglia uno smartphone che non percepisce più i no-stri stimoli tattili perché la batteria si è esaurita. Succede molto più spesso di quanto ognuno di noi gradirebbe data l’indispensabilità di questi aggeggini tecnologici. Quante volte capita che nel momen-to in cui avremmo voluto immortalare una particolare situazione ci siamo do-vuti arrendere di fronte l’inesorabilità di quella scritta: low battery?
Perciò spesso il primo pensiero quando uscia-mo di casa è quello di andare a ve-rificare il livello di carica della batteria del nostro gadget. E l’ultimo, prima di coricarci, è quello di esserci assicurati che il nostro cellulare sia in carica. Le nostre vite apparentemente sempre più liquide e “slegate” sono tuttavia legate inesorabilmente al cavetto del nostro alimentatore. Un alimentatore senza il quale tutta la scienza di que-sto mondo trasfigurata in arte elettro-nica sarebbe buona a nulla. Per secoli gli uomini di scienza han-no sentito il bisogno di alimentare il proprio spirito di altrettanti contenuti di quanti ne riceveva lo stesso intellet-to, qualcosa che desse loro la “carica” per contrastare lo stress del duro lavo-ro, delle ore spese in una ricerca e uno studio solitario dagli effetti estranianti, che indurrebbe chiunque a domandar-si il perché e il senso dello stare al mondo, del tanto darsi da fare se dav-vero tutto si riduce a una mera somma di carne e ossa e nient’a l t ro . Le giovani generazioni di oggi spe-rimentano una vita quasi interamente secolarizzata, priva di quel supporto spirituale che possa ricaricarli giornal-mente di quel senso dell’esistenza che vale la pena d’essere vissuta al di là di qualunque estemporaneo calo motiva-zionale, a prescindere da quel successo che sembra essere ormai l’unico target degno di una vita dignitosa. Queste generazioni, semmai, trova-no altrove la “carica”: nello stordimen-to delle droghe e nel tunnel autarchico dei videogame in solitaria. Ma è come pretendere di ricaricare il nostro fabbi-sogno giornaliero di acqua sostituen-dolo con l’effetto stordente di un whi-s k y. È operazione rutinaria e scocciante quella di connettere ogni volta i nostri superpotenti strumenti a una sorgente di “vita” — perché altrimenti altro non sarebbero che assemblaggi di plastica e di alluminio: carne e ossa appunto — ma è un’operazione necessaria: altrimenti quell’applicazione che cerchiamo non funzionerebbe, non si aprirebbe. E saremo noi infine a non riuscire più a “f u n z i o n a re ”, assue-fatti come siamo a queste protesi mo-derne. Ma quando è il nostro equilibrio emozionale che sembra essersi smarri-to a nessuno viene in mente che la causa possa essere proprio la mancan-za di quel senso ultimo dello stare al mondo e non tanto il sempre evocato stress della vita odierna. Se la nostra soglia di tolleranza del dolore, dello stress, dei fallimenti si è così sensibil-mente ridotta in un mondo evolutosi più in fretta della nostra capacità di adattamento, forse è perché nel frattempo non siamo riusciti a mettere al passo le nostre “batterie” con tutte quelle sovrastrutture che si venivano ad accumulare. E se per analogia la batteria si può accostare all’anima, ne deriva che le nostre anime sono debo-lissime, e forse non tanto perché abbiamo smarrito l’alimentatore, ma per-ché l’abbiamo sostituito con qual-cos’altro che però ha l’effetto di un palliativo. Finché le giovani generazioni non torneranno a ricaricare le loro “pile” spirituali con la stessa puntualità e ac-curatezza con cui ridanno vita ai loro palmari, continueranno a smarrire il senso della loro esistenza o forse peg-gio continueranno a evitarlo.

© Osservatore Romano - 12-13 novembre 2012

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