Senza vergogna verso la libertà
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- Creato: 03 Dicembre 2012
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Nell’avvicinarsi della festa di sant’Ambrogio il prefetto della Biblioteca Apostolica Vaticana terrà, il 2 dicembre, una conferenza alla Saint Ambrose University di Davenport (Stati Uniti d’America). Ne ha anticipato una sintesi al nostro giornale.
di CESARE PASINI
«Non è affatto una vergogna cambiare passando a cose migliori»: è un’espressione di Ambrogio, vescovo di Milano (Epistole, 73, 7), nella disputa con il senatore Simmaco, strenuo difensore della tradizione romana e pagana contro la novità del cristianesimo. Simmaco in sostanza chiedeva accoratamente ad Ambrogio: abbandonando l’antica religione pagana, non finiamo per tradire Roma, rinne-gandone l’antica tradizione? Una tradizione che aveva insegnato a coltivare squisite virtù civiche quali il coraggio, la dedizione e l’onestà! Roma, giunta a una veneranda vecchiaia dopo secoli di grandi successi, doveva diventare infedele a quella tradizione e passare a qualcosa di così nuovo? Ambrogio rispose con una di-stinzione chiarificatrice: la fedeltà alla tradizione di Roma non com-portava una necessaria accettazione della sua religione. Anzi, a ben guardare, la religione pagana non era autentica tradizione romana, tanto che i Romani l’avevano con-divisa con altri popoli, estranei ap-punto a quella tradizione e a quei valori. Aveva quindi buon gioco Ambrogio a dichiarare, imperso-nando la voce di Roma: «Con i barbari avevo solo questo in comu-ne: d’ignorare Dio prima d’ora». Ma finalmente si è dischiusa la co-noscenza della verità, e quindi «non è affatto una vergogna cam-biare passando a cose migliori» (Epistole, 73, 7). A questo punto nasce un’ulterio-re domanda, rivolta ai cristiani: «Ma voi non cambiate mai?». Am-brogio nel Commento al salmo 118 offre una risposta anche a questo quesito: «Aver rinunciato all’e r ro re non è segno di un vizio, ma di un progresso» (XXII, 2). Il Commento al salmo 118 è una catechesi per condurre i fedeli già battezzati an-cor più all’interno del mistero di Cristo, perché con il battesimo il fedele cristiano non si deve fermare ma deve ancora crescere e arrivare alla perfezione della conoscenza teorica e pratica del mistero di Cri-sto, deve far esperienza di lui per scoprire che egli è «tutto in tutti» (Colossesi, 3, 11). Ecco allora il si-gnificato della frase: aver cambiato dalla propria situazione precedente ed essere giunti alla fede, non è se-gno di incostanza e volubilità, ma è segno di un progresso, un pro-gresso che inizia con il battesimo ed è continuamente chiamato a «cambiare in meglio». È bello questo modo di concepi-re la vita cristiana come continuo cambiamento e novità. Ma abbia-mo bisogno di precisare per non dare l’impressione che si stia par-lando di un cambiamento vano senza una meta precisa. Cominciamo col domandarci: questo cambiamento e questa novi-tà quale rapporto hanno con la li-bertà? Come viene intesa la libertà nel cristiano che intende cambiare in meglio perché Cristo sia tutto in tutti, e quindi totalmente nella sua vita? Nel vangelo di Giovanni Ge-sù afferma: «Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepo-li; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (8, 31-32). La libertà è quindi collegata alla verità; esige una fedeltà alla verità, grazie alla quale può esprimersi in tutta la va-stità feconda e intraprendente delle sue scelte. Se sostituiamo alla parola “veri-tà” la parola “sapienza” (ed è leci-to: la sapienza cerca la verità e vi conduce), allora comprendiamo il valore di alcune espressioni di Am-brogio. Una prima espressione: «Ogni sapiente è libero e ogni stolto invece è schiavo» (Epistole, 7, 4). La libertà è così connessa al-la sapienza che smette di esistere quando si è stolti, non per altri motivi. Infatti Giuseppe ebreo fu venduto schiavo dai fratelli, ma nella sua sapienza rimase intimamente libero, tanto da ricevere autorità proprio in Egitto fra i suoi compratori. Ecco allora un’altra specifi-cazione: «È libero colui che è libero nel suo intimo» (ivi, 17). Per questo la libertà della sa-pienza non si piega all’esterio-rità, alla vanità, alla fama, al plauso passeggero: è libera da tutto questo! Una frase che vale per tutti i tempi: «Ti sembra for-se libero chi compra i voti col de-naro, chi cerca l’applauso del po-polo più che il giudizio dei saggi? È dunque libero colui che è sensi-bile al favore popolare, colui che teme i fischi della gente? (...) Ri-tengo, infatti, che la libertà non sia un dono, ma una virtù che non viene concessa dai voti altrui, ma viene rivendicata e posseduta me-diante la propria grandezza d’ani-mo» (ivi, 18). La libertà è quindi saldamente unita alla grandezza d’animo del sapiente, alla sua virtù, è ancorata a ciò che è buono, giusto, vero, che il sapiente sceglie, liberamente e responsabilmente vuole scegliere; invece il male sta unito al timore: il timore di essere scoperti, come sperimentava il re Acab che aveva fatto uccidere Naboth per impos-sessarsi della sua vigna o come sperimenta il ricco che ha fatto guadagni inconfessabili; e di con-seguenza il timore di essere travolti dal male e “giudicati” nel male in cui si è caduti. Nel timore non c’è più libertà, perché il male ti strin-ge, ti soffoca, la fa da padrone su di te. Quindi solo il sapien-te è libero, solo l’onesto e il giusto sono liberi e, per tornare all’afferma-zione evangelica, la li-bertà esige una fedeltà alla verità, alla sapienza, grazie alla quale soltanto la libertà può esprimersi in tutta la vastità feconda e intraprendente delle sue scelte. Così siamo condotti a una se-conda domanda: «come questa li-bertà può “cambiare passando a cose migliori”, in tutta la vastità fe-conda e intraprendente delle sue scelte, quando deve condurre i fe-deli battezzati all’interno del miste-ro di Cristo, fino a scoprire che egli è tutto in tutti?». E, per af-frontare il punto più radicale: «Co-me trovare Cristo tutto in tutti an-che nei momenti privi di speranza e di consolazione, nelle situazioni difficili e avverse, dove Dio sembra non essere presente?». Per Ambro-gio sono proprio questi i momenti in cui Cristo rivela, nella sua umil-tà, la sua potenza divina. Allora per trovare Cristo «tutto in tutti» bisogna entrare nella via dell’umil-tà: anzi per dire subito il punto delicato o forse avventato (evange-licamente avventato) fino al quale Ambrogio si spinge nella via del-l’umiliazione. Ci aiuta un’altra frase tratta dal Commento al salmo 118: «La pote-stà illude, l’umiliazione non de-frauda» (X I V, 19). La prima parte della frase è facilmente condivisibi-le: chi fa affidamento sul proprio potere, rischia grosso, perché quel potere può poi affievolirsi, non fruttare nel modo che prevedevi o speravi, alla fin fine può tradirti. E se tu eri tutto confidente nel tuo potere, che illusione! La seconda parte invece sembrerebbe cen-surabile, perché parla positivamen-te persino dell’umiliazione, e assi-cura che l’umiliazione non fa dan-no, non causa privazione. Anzi, aggiunge Ambrogio: «È buona, l’umiliazione». Ma prova anche a spiegarlo: «In Cristo adoro l’umiliazione più che la creazione, perché la creazione ci destina alla sofferenza, la redenzio-ne al riposo». Vuol dire: grazie alla creazione siamo venuti alla vita, ma abbiamo poi sperimentato la caduta, le sofferenze, le sconfitte; non doveva essere così, ma di fatto si è prodotto questo esito pesante e sofferto. Invece con la redenzio-ne, cioè con Gesù che si è umiliato in croce come un condannato e un maledetto, allora a noi è giunto il riposo: cioè la pace, la salvezza, la grazia e la gioia del regno. Neppure nella salvezza Dio vuo-le usare una potenza che sappia di imposizione o di supponenza; vuole piuttosto giungere in un’umiliazione di se stesso, che av-vicina l’uomo fin nell’abisso in cui si trova, attirandolo col suo dono d’amore. Per questo, dice Ambrogio, «il Signore non ha cercato il proprio interesse, ma quello altrui. Egli per te ha preso su di sé quelle condizioni che tu disprezzi; egli per te ha ab-bassato se stesso fino alla morte, e alla morte in croce, per cancellare la colpa della tua superbia. (...) Il Signore è diventato il servitore di tutti, e il Creatore di tutti è stato percosso, ha lavato i piedi, è stato crocifisso, è morto» (ivi, XX, 17. 18). Perché Dio ha fatto così? «Dio, che non aveva nulla da aggiungere alla sua potenza, ha avuto invece qualcosa da aggiungere al culto della sua sovrana grandezza». Dio cioè non poteva diventare più grande o potente, e tuttavia ha po-tuto aggiungere qualcosa al nostro culto riconoscente verso di lui. Ec-co il paradosso: «Gesù avrebbe perso la funzione ministeriale», cioè il compito e dono con il quale ci serve e ci salva, «se l’umiltà non l’avesse recuperata» (ivi, XX, 18): senza l’umiltà e l’umiliazione che lo ha assimilato a noi sino a mori-re, Gesù (Dio) avrebbe compiuto un intervento di potenza, “buttan-do” sull’uomo la sua salvezza e ri-scattandolo (proprio come gli sug-gerivano da sotto la croce: «Salva te stesso, se tu sei Figlio di Dio, e scendi dalla croce!»). Invece si è umiliato, facendosi uomo e moren-do in croce e, grazie all’umiliazio-ne, ha compiuto un’offerta che si accostava all’uomo con delicatezza, mostrava all’uomo fin dove giunge l’amore di Dio e permetteva all’uo-mo di avvicinarsi a Dio senza ti-m o re . Proprio da questa prospettiva si può comprendere come Dio sia “tutto in tutti”, anche nei momenti privi di speranza e di consolazione, nelle situazioni difficili e avverse, dove Dio sembrerebbe non essere presente. Ambrogio è convinto che sono proprio questi i momenti in cui Cristo rivela, nella sua umiltà, la sua potenza divina; e che per il cristiano questi sono i momenti di crescita nella fede, tempo propizio per progredire, per grazia di Dio, nell’unione con Cristo. Eccoci tor-nati, quindi, al “cambiare in me-glio” perché Cristo sia totalmente nella vita del cristiano nella sua scelta libera che si estende sino a questo traguardo. Il cristiano si muove verso questa meta ed entra in questo rapporto esi-stenziale vivendo anch’egli l’atteg-giamento di umiltà imparato da Cristo, realizzando in se stesso «quanto manca ai patimenti di Cristo» (Colossesi1, 24). Il passo decisivo è quindi quello di assume-re sapientemente questa “umilia-zione di Dio”, che dà senso alla nostra percezione di debolezza del potere (del “potere di questo mon-do”) e, d’altro canto, apre al rive-larsi inatteso e toccante di un Dio umile e umiliato. Per questo l’atteggiamento di umiltà che secondo Ambrogio ci viene richiesto, consiste nel distac-co da se stessi, grazie al quale ci si unisce a Dio. È l’insegnamento di Gesù nel vangelo: chi dona e per-de la vita per lui, la guadagna e la trova. Per usare le parole di Am-brogio: «Chi si consuma in se stesso per restare unito alla vera forza [a Cristo Signore], perde quello che è suo, ma acquista quello che è eterno» (ivi, XI, 6). Ambrogio ha raccolto la parola “consumarsi” ed “essere consunto” da un versetto del salmo: «La mia anima si è consunta nell’attesa del-la tua salvezza» (Salmi, 118, 81). Essa gli richiama la situazione di quando si è presi da una passione che travolge, che fa perdere se stes-si (perdere la testa!), pur di appa-garla. Ambrogio non nega il grave rischio che ci si consumi totalmen-te per una realtà che non lo meri-ta, e così si rimanga vuoti e debili-tati, con una ben magra conquista: «Hai perso te stesso e sei approda-to al nulla!». Ma se ti sei perso, consunto e consumato (hai «perso la testa») per il Signore Gesù, allo-ra «perdi quel che è tuo» ma «ac-quisti quel che è eterno», tu dimi-nuisci e lasci, ma ricevi in te la potenza di Dio! Questa è l’umiltà: riconoscersi creatura che non teme di “p erdersi” per ricevere la pienez-za dell’amore di Dio. Rimaniamo così in continuo “cambiamento per il meglio”: dalla scelta di libertà, che inizialmente ci ha fatti aderire alla fede, alle inin-terrotte scelte per condividere nell’umiltà l’incontro con Cristo Signore, fino a che egli sia “tutto in tutti”. «Non è affatto una vergogna cambiare passando a cose migliori».
© Osservatore Romano - 2 dicembre 2012
di CESARE PASINI
«Non è affatto una vergogna cambiare passando a cose migliori»: è un’espressione di Ambrogio, vescovo di Milano (Epistole, 73, 7), nella disputa con il senatore Simmaco, strenuo difensore della tradizione romana e pagana contro la novità del cristianesimo. Simmaco in sostanza chiedeva accoratamente ad Ambrogio: abbandonando l’antica religione pagana, non finiamo per tradire Roma, rinne-gandone l’antica tradizione? Una tradizione che aveva insegnato a coltivare squisite virtù civiche quali il coraggio, la dedizione e l’onestà! Roma, giunta a una veneranda vecchiaia dopo secoli di grandi successi, doveva diventare infedele a quella tradizione e passare a qualcosa di così nuovo? Ambrogio rispose con una di-stinzione chiarificatrice: la fedeltà alla tradizione di Roma non com-portava una necessaria accettazione della sua religione. Anzi, a ben guardare, la religione pagana non era autentica tradizione romana, tanto che i Romani l’avevano con-divisa con altri popoli, estranei ap-punto a quella tradizione e a quei valori. Aveva quindi buon gioco Ambrogio a dichiarare, imperso-nando la voce di Roma: «Con i barbari avevo solo questo in comu-ne: d’ignorare Dio prima d’ora». Ma finalmente si è dischiusa la co-noscenza della verità, e quindi «non è affatto una vergogna cam-biare passando a cose migliori» (Epistole, 73, 7). A questo punto nasce un’ulterio-re domanda, rivolta ai cristiani: «Ma voi non cambiate mai?». Am-brogio nel Commento al salmo 118 offre una risposta anche a questo quesito: «Aver rinunciato all’e r ro re non è segno di un vizio, ma di un progresso» (XXII, 2). Il Commento al salmo 118 è una catechesi per condurre i fedeli già battezzati an-cor più all’interno del mistero di Cristo, perché con il battesimo il fedele cristiano non si deve fermare ma deve ancora crescere e arrivare alla perfezione della conoscenza teorica e pratica del mistero di Cri-sto, deve far esperienza di lui per scoprire che egli è «tutto in tutti» (Colossesi, 3, 11). Ecco allora il si-gnificato della frase: aver cambiato dalla propria situazione precedente ed essere giunti alla fede, non è se-gno di incostanza e volubilità, ma è segno di un progresso, un pro-gresso che inizia con il battesimo ed è continuamente chiamato a «cambiare in meglio». È bello questo modo di concepi-re la vita cristiana come continuo cambiamento e novità. Ma abbia-mo bisogno di precisare per non dare l’impressione che si stia par-lando di un cambiamento vano senza una meta precisa. Cominciamo col domandarci: questo cambiamento e questa novi-tà quale rapporto hanno con la li-bertà? Come viene intesa la libertà nel cristiano che intende cambiare in meglio perché Cristo sia tutto in tutti, e quindi totalmente nella sua vita? Nel vangelo di Giovanni Ge-sù afferma: «Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepo-li; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (8, 31-32). La libertà è quindi collegata alla verità; esige una fedeltà alla verità, grazie alla quale può esprimersi in tutta la va-stità feconda e intraprendente delle sue scelte. Se sostituiamo alla parola “veri-tà” la parola “sapienza” (ed è leci-to: la sapienza cerca la verità e vi conduce), allora comprendiamo il valore di alcune espressioni di Am-brogio. Una prima espressione: «Ogni sapiente è libero e ogni stolto invece è schiavo» (Epistole, 7, 4). La libertà è così connessa al-la sapienza che smette di esistere quando si è stolti, non per altri motivi. Infatti Giuseppe ebreo fu venduto schiavo dai fratelli, ma nella sua sapienza rimase intimamente libero, tanto da ricevere autorità proprio in Egitto fra i suoi compratori. Ecco allora un’altra specifi-cazione: «È libero colui che è libero nel suo intimo» (ivi, 17). Per questo la libertà della sa-pienza non si piega all’esterio-rità, alla vanità, alla fama, al plauso passeggero: è libera da tutto questo! Una frase che vale per tutti i tempi: «Ti sembra for-se libero chi compra i voti col de-naro, chi cerca l’applauso del po-polo più che il giudizio dei saggi? È dunque libero colui che è sensi-bile al favore popolare, colui che teme i fischi della gente? (...) Ri-tengo, infatti, che la libertà non sia un dono, ma una virtù che non viene concessa dai voti altrui, ma viene rivendicata e posseduta me-diante la propria grandezza d’ani-mo» (ivi, 18). La libertà è quindi saldamente unita alla grandezza d’animo del sapiente, alla sua virtù, è ancorata a ciò che è buono, giusto, vero, che il sapiente sceglie, liberamente e responsabilmente vuole scegliere; invece il male sta unito al timore: il timore di essere scoperti, come sperimentava il re Acab che aveva fatto uccidere Naboth per impos-sessarsi della sua vigna o come sperimenta il ricco che ha fatto guadagni inconfessabili; e di con-seguenza il timore di essere travolti dal male e “giudicati” nel male in cui si è caduti. Nel timore non c’è più libertà, perché il male ti strin-ge, ti soffoca, la fa da padrone su di te. Quindi solo il sapien-te è libero, solo l’onesto e il giusto sono liberi e, per tornare all’afferma-zione evangelica, la li-bertà esige una fedeltà alla verità, alla sapienza, grazie alla quale soltanto la libertà può esprimersi in tutta la vastità feconda e intraprendente delle sue scelte. Così siamo condotti a una se-conda domanda: «come questa li-bertà può “cambiare passando a cose migliori”, in tutta la vastità fe-conda e intraprendente delle sue scelte, quando deve condurre i fe-deli battezzati all’interno del miste-ro di Cristo, fino a scoprire che egli è tutto in tutti?». E, per af-frontare il punto più radicale: «Co-me trovare Cristo tutto in tutti an-che nei momenti privi di speranza e di consolazione, nelle situazioni difficili e avverse, dove Dio sembra non essere presente?». Per Ambro-gio sono proprio questi i momenti in cui Cristo rivela, nella sua umil-tà, la sua potenza divina. Allora per trovare Cristo «tutto in tutti» bisogna entrare nella via dell’umil-tà: anzi per dire subito il punto delicato o forse avventato (evange-licamente avventato) fino al quale Ambrogio si spinge nella via del-l’umiliazione. Ci aiuta un’altra frase tratta dal Commento al salmo 118: «La pote-stà illude, l’umiliazione non de-frauda» (X I V, 19). La prima parte della frase è facilmente condivisibi-le: chi fa affidamento sul proprio potere, rischia grosso, perché quel potere può poi affievolirsi, non fruttare nel modo che prevedevi o speravi, alla fin fine può tradirti. E se tu eri tutto confidente nel tuo potere, che illusione! La seconda parte invece sembrerebbe cen-surabile, perché parla positivamen-te persino dell’umiliazione, e assi-cura che l’umiliazione non fa dan-no, non causa privazione. Anzi, aggiunge Ambrogio: «È buona, l’umiliazione». Ma prova anche a spiegarlo: «In Cristo adoro l’umiliazione più che la creazione, perché la creazione ci destina alla sofferenza, la redenzio-ne al riposo». Vuol dire: grazie alla creazione siamo venuti alla vita, ma abbiamo poi sperimentato la caduta, le sofferenze, le sconfitte; non doveva essere così, ma di fatto si è prodotto questo esito pesante e sofferto. Invece con la redenzio-ne, cioè con Gesù che si è umiliato in croce come un condannato e un maledetto, allora a noi è giunto il riposo: cioè la pace, la salvezza, la grazia e la gioia del regno. Neppure nella salvezza Dio vuo-le usare una potenza che sappia di imposizione o di supponenza; vuole piuttosto giungere in un’umiliazione di se stesso, che av-vicina l’uomo fin nell’abisso in cui si trova, attirandolo col suo dono d’amore. Per questo, dice Ambrogio, «il Signore non ha cercato il proprio interesse, ma quello altrui. Egli per te ha preso su di sé quelle condizioni che tu disprezzi; egli per te ha ab-bassato se stesso fino alla morte, e alla morte in croce, per cancellare la colpa della tua superbia. (...) Il Signore è diventato il servitore di tutti, e il Creatore di tutti è stato percosso, ha lavato i piedi, è stato crocifisso, è morto» (ivi, XX, 17. 18). Perché Dio ha fatto così? «Dio, che non aveva nulla da aggiungere alla sua potenza, ha avuto invece qualcosa da aggiungere al culto della sua sovrana grandezza». Dio cioè non poteva diventare più grande o potente, e tuttavia ha po-tuto aggiungere qualcosa al nostro culto riconoscente verso di lui. Ec-co il paradosso: «Gesù avrebbe perso la funzione ministeriale», cioè il compito e dono con il quale ci serve e ci salva, «se l’umiltà non l’avesse recuperata» (ivi, XX, 18): senza l’umiltà e l’umiliazione che lo ha assimilato a noi sino a mori-re, Gesù (Dio) avrebbe compiuto un intervento di potenza, “buttan-do” sull’uomo la sua salvezza e ri-scattandolo (proprio come gli sug-gerivano da sotto la croce: «Salva te stesso, se tu sei Figlio di Dio, e scendi dalla croce!»). Invece si è umiliato, facendosi uomo e moren-do in croce e, grazie all’umiliazio-ne, ha compiuto un’offerta che si accostava all’uomo con delicatezza, mostrava all’uomo fin dove giunge l’amore di Dio e permetteva all’uo-mo di avvicinarsi a Dio senza ti-m o re . Proprio da questa prospettiva si può comprendere come Dio sia “tutto in tutti”, anche nei momenti privi di speranza e di consolazione, nelle situazioni difficili e avverse, dove Dio sembrerebbe non essere presente. Ambrogio è convinto che sono proprio questi i momenti in cui Cristo rivela, nella sua umiltà, la sua potenza divina; e che per il cristiano questi sono i momenti di crescita nella fede, tempo propizio per progredire, per grazia di Dio, nell’unione con Cristo. Eccoci tor-nati, quindi, al “cambiare in me-glio” perché Cristo sia totalmente nella vita del cristiano nella sua scelta libera che si estende sino a questo traguardo. Il cristiano si muove verso questa meta ed entra in questo rapporto esi-stenziale vivendo anch’egli l’atteg-giamento di umiltà imparato da Cristo, realizzando in se stesso «quanto manca ai patimenti di Cristo» (Colossesi1, 24). Il passo decisivo è quindi quello di assume-re sapientemente questa “umilia-zione di Dio”, che dà senso alla nostra percezione di debolezza del potere (del “potere di questo mon-do”) e, d’altro canto, apre al rive-larsi inatteso e toccante di un Dio umile e umiliato. Per questo l’atteggiamento di umiltà che secondo Ambrogio ci viene richiesto, consiste nel distac-co da se stessi, grazie al quale ci si unisce a Dio. È l’insegnamento di Gesù nel vangelo: chi dona e per-de la vita per lui, la guadagna e la trova. Per usare le parole di Am-brogio: «Chi si consuma in se stesso per restare unito alla vera forza [a Cristo Signore], perde quello che è suo, ma acquista quello che è eterno» (ivi, XI, 6). Ambrogio ha raccolto la parola “consumarsi” ed “essere consunto” da un versetto del salmo: «La mia anima si è consunta nell’attesa del-la tua salvezza» (Salmi, 118, 81). Essa gli richiama la situazione di quando si è presi da una passione che travolge, che fa perdere se stes-si (perdere la testa!), pur di appa-garla. Ambrogio non nega il grave rischio che ci si consumi totalmen-te per una realtà che non lo meri-ta, e così si rimanga vuoti e debili-tati, con una ben magra conquista: «Hai perso te stesso e sei approda-to al nulla!». Ma se ti sei perso, consunto e consumato (hai «perso la testa») per il Signore Gesù, allo-ra «perdi quel che è tuo» ma «ac-quisti quel che è eterno», tu dimi-nuisci e lasci, ma ricevi in te la potenza di Dio! Questa è l’umiltà: riconoscersi creatura che non teme di “p erdersi” per ricevere la pienez-za dell’amore di Dio. Rimaniamo così in continuo “cambiamento per il meglio”: dalla scelta di libertà, che inizialmente ci ha fatti aderire alla fede, alle inin-terrotte scelte per condividere nell’umiltà l’incontro con Cristo Signore, fino a che egli sia “tutto in tutti”. «Non è affatto una vergogna cambiare passando a cose migliori».
© Osservatore Romano - 2 dicembre 2012