LA DONNA NELLE LETTERE DI S. PAOLO

giovane-mariaRiceviamo da P. Marcello Buscemi questo scritto di sua proprietà e volentieri lo ripubblichiamo con il consenso dell'autore.

L’insistenza contemporanea sulla problematica della donna - la donna nella società, la donna nella professione, la donna nella Bibbia, la donna nella Chiesa, la donna di quà, la donna di là - vi confesso che mi dà l’impressione di una certa artificiosità. Di più: tale problematica, a secondo che la svolge un uomo o una donna, sembra nascondere o un indizio di una certa colpevolezza maschile riguardo alle donne o un certo complesso di inferiorità femminile circa la propria identità personale e sessuale. Sarebbe bene smetterla di parlare della donna, in quanto tutto ciò che si dice di positivo e di negativo dell’essere umano in generale appartiene certamente sia alla donna che all’uomo. Le differenze sessuali, per cui un uomo o una donna sono tali, non indicano una differenza di valore, ma solo una differenza funzionale. Quindi, a mio parere, sarebbe ora di smetterla di parlare della donna per rivalutarla. La donna non ha affatto bisogno di alcuna rivalutazione. Essa è stata voluta e creata da Dio per realizzare insieme all’uomo il suo piano salvifico. E, in quanto tale, la donna è un capolavoro di Dio.

1) Il rapporto uomo-donna in S. Paolo

Eppure, della donna bisogna continuare a parlare. Non è un controsenso, ma una necessità storica determinata dal peccato, che ha rotto l’armonia del creato e ha disgregato il rapporto tra le creature, specialmente tra l’uomo e la donna. Adamo accusa Eva, Eva accusa Adamo. E questa rottura ha portato socialmente ad un dominio assoluto e tirannico ora dell’uomo sulla donna (patriarcato), ora della donna sull’uomo (matriarcato), in una parola del più forte socialmente sul più debole. La legge della forza ha avuto il sopravvento sulla legge dell’amore. Parlare oggi della donna, specialmente nell’ambito cristiano, deve avere un solo scopo: ripristinare nella vita la legge dell’amore, che è comprensione e collaborazione reciproca, gioia di vivere insieme per realizzare il piano di Dio, avventura di una libertà vissuta nella responsabilità personale, equilibrio umano attuato nel perfetto adempimento altruistico delle proprie specifiche funzioni.

Parlare, pertanto, della “donna nelle lettere di S. Paolo” è vedere come l’Apostolo delle genti ha cercato, nella sua attività pastorale, di impostare e risolvere questo delicato problema del rapporto di amore tra l’uomo e la donna nel piano salvifico di Dio. E’ chiaro che Paolo è un uomo del suo tempo: un giudeo della Diaspora. La sua mentalità, quindi, risente di un doppio influsso: l’influsso della mentalità giudaica, tutta improntata sulle idee dell’A.T., in cui la funzione essenziale della donna è quella di essere la custode della casa in quanto sposa (cfr. Pr 31) e la conservatrice e incrementatrice del popolo di Dio in quanto madre (cfr. le storie dei Patriarchi, la figura di Anna ecc.); e l’influsso ellenistico, che, pur non riconoscendo una totale parità della donna con l’uomo, tendeva, grazie alle teorie della filosofia stoica, a liberalizzare il ruolo della donna nella società greco-romana, all’interno della quale Paolo visse ed esercito il suo apostolato.

Da questo duplice influsso deriva molto probabilmente quell’“ambiguità paolina” circa il problema delle donne nella comunità cristiana. Paolo da una parte ammette decisamente un’uguaglianza tra uomo e donna dinanzi a Dio e dinanzi a Cristo (Gal 3,28). Anzi, arriva al punto, abbastanza rivoluzionario per il suo tempo, di equiparare il ruolo umana della donna a quello dell’uomo: “Né l’uomo può far senza la donna, né la donna senza l’uomo. Poiché come la donna fu tratta dall’uomo, così l’uomo nasce dalla donna, e tutto viene da Dio” (lCor 11,11-12). D’altra parte, però, a nessuno sfugge come l’Apostolo, a più riprese, sottolinei la subordinazione della donna all’uomo: la donna deve portare il velo, perché essa “è gloria dell’uomo” (1Cor 11,5-7); la donna deve tacere durante l’assemblea liturgica, perché non è stata affidata a loro la missione di parlare e inoltre non è decoroso che una donna parli in un’assemblea (1Cor 14,34-35; 1Tim 2,11-15); infine, la donna è sottomessa all’uomo dalla legge della creazione, che ha stabilito l’uomo capo della donna (lCor 11,3; Ef 5,22-24; 1Tim 2,13).

Dinanzi a questa ambiguità si resta sorpresi e sconcertati. Eppure, bisognerebbe guardare più a fondo nei testi, per comprendere Paolo. Le sue argomentazioni sulla donna, se vengono guardate solo dal nostro attuale punto di vista sociale, suscitano scandalo, perplessità e dovrebbero essere considerate come “reazionarie”, cioè come dei falsi ragionamenti di un conservatore ad oltranza, che tende a mantenere lo “status quo” e a favorire indebitamente l’uomo sulla donna. Ma la visione paolina della donna non è una teoria sociale, ma una visione teologica, che investe la problematica sociale del rapporto uomo-donna e la supera nella visione cristiana dell’amore. È un germe che progressivamente tende a trasformare la società fino ad abolire qualsiasi differenza: “Non c’è più né Giudeo né Greco, non c’è più né schiavo né libero; non c’è più maschio e femmina. Tutti voi siete uno nel Cristo Gesù” (Gal 3, 28).

2. Paolo: un antifemminista?

Tale affermazione paolina - “non c’è più maschio e femmina” - è divenuto lo slogan fondamentale e preferito delle femministe di ogni tempo. Ma, per una sottile ironia della sorte, Paolo che lo ha formulato è divenuto per molte di esse il simbolo della reazione maschile contro i sacrosanti diritti delle donne e l’antifemminista neotestamentario per eccellenza. All’ambiguità paolina consegue l’ambiguità femminista. A mio avviso, ciò è un indizio sufficiente per dubitare della qualifica di “antifemminista” attribuita a Paolo e contemporaneamente un motivo valido per rivedere, brevemente ma con senso critico, i testi addotti come prova per lanciare una tale accusa.

Il primo testo è quello di 1Cor 11,3-12. Alcune donne cristiane della comunità di Corinto, non si sa se in segno di contestazione o per spirito di novità, avevano cominciato a frequentare le assemblee liturgiche senza portare il velo in testa. Paolo, per ristabilire l’ordine sancito della tradizione comune delle Chiese (1Cor 11,2), stabilì che l’uomo doveva pregare e profetizzare a capo scoperto, mentre la donna doveva pregare e profetizzare a capo coperto (1Cor 11,4-5.7). Tale disposizione ha frastornato non pochi esegeti, che, facendo leva su alcuni elementi secondari del testo, l’hanno interpretata come una discriminazione della donna nei confronti dell’uomo o come un tentativo di Paolo di consacrare, imponendo il velo segno di dipendenza, la subordinazione della donna all’uomo. Simili tentativi anacronistici sono decisamente fuori luogo e sono da scartare. Come hanno dimostrato eccellenti esegeti dei nostri giorni (Fitzmayer, Haulotte, Hooker, Aubert, Feuillet, Adinolfi e altri), il punto centrale dell’argomentazione paolina non è tanto l’imposizione del velo della donna, ma il riconoscimento della fondamentale uguaglianza dell’uomo della donna di poter pregare e profetizzare pubblicamente nelle assemblee liturgiche. Nella preghiera e nell’esprimere i carismi della Spirito, l’uomo e la donna sono uguali dinanzi a Dio. Nel Cristo Gesù veniva così abolita una fondamentale discriminazione del mondo giudaico, che non riservava alla donna alcuna partecipazione diretta al culto sinagogale.

La distinzione tra l’uomo che prega e profetizza a capo scoperto e la donna a capo coperto è poi tutta fondata su due presupposti comuni alla mentalità del tempo di Paolo: un presupposto antropologico e un presupposto di decenza. Secondo la mentalità giudaica, certamente condivisa con diverse motivazioni dal mondo greco-romano, esisteva una scala di valori, con in cima Dio e decrescente all’uomo, alla donna, agli schiavi, alle bestie ecc. ecc.. Paolo, accettando questo presupposto, intende dimostrare che la necessità di portare il velo, per la donna, deriva dall’ordine stabilito da Dio stesso, dato che l’uomo è immagine e gloria di Dio e la donna gloria dell’uomo (1Cor 11,7). Ciò non significa che la donna sia un riflesso indiretto di Dio, un’immagine dell’immagine, ma al contrario essa realizza la gloria di Dio nella sua esistenza, quando rispettando l’ordine della natura, diviene gloria dell’uomo. L’argomento paolino, a questo punto, resterebbe incomprensibile se lo si stacca dall’altro presupposto, cioè quello della decenza. Il velo non viene imposto alla donna perché essa si rammenti della sua dipendenza dall’uomo, bensì perché, nell’ambiente giudeo-cristiano e in parte in quello pagano di Corinto, non portare il velo era indecoroso per una donna: rischiava di essere presa per una donna di mal’affare. Quindi, avere il velo sulla testa era per la donna un motivo di verecondia, che gli conferiva dignità, libertà di agire e di comportarsi in società. In tal modo la donna realizzava se stessa e nel realizzarsi diveniva gloria dell’uomo e di Dio. Così, come era segno di dignità e di realizzazione personale per l’uomo pregare e profetizzare a capo scoperto, era segno di dignità e di onore per la donna di pregare e profetizzare a capo velato. L’uguaglianza non è uniformità.

Un testo ancora più decisivo per tacciare Paolo di antifemminista sembra essere quello di lCor l4,33b-35: “Come in tutte le Chiese dei santi, le donne tacciano nell’assemblea, perché non è loro permesso di parlare: obbediscano invece, come dice la legge. Se desiderano apprendere qualcosa, interroghino a casa i propri mariti, poiché è sconveniente per una donna parlare nell’adunanza”. II contrasto con lCor 11,4-5, di cui abbiamo parlato, a molti esegeti sembra scontato. Anzi, qualcuno afferma che la subordinazione della donna all’interno dell’assemblea è sancita formalmente (cfr. Cipriani, 215). In verità, la soluzione del problema sarebbe facile, in quanto parecchi esegeti protestanti e cattolici ritengono questi versetti come un’interpolazione tardiva, cioè non appartenevano alla lettera originaria di Paolo, ma furono inseriti o da un discepolo o da un copista in base a 1Tim 2,11-12. Paolo sarebbe così scagionato.

Tale soluzione a me non sembra molto convincente e quindi cercherò di spiegare differentemente il brano paolino sul “silenzio delle donne nell’assemblea”. Di donne molto loquaci ce ne sono e ce ne sono state in ogni tempo. Così, probabilmente, a Corinto alcune donne progressiste avevano assunto nella comunità la posa di coloro che sanno tutto e che in tutto dovevano interloquire, creando dei grossi problemi durante le assemblee liturgiche. Paolo, dovendo mettere ordine all’interno della comunità, specialmente per ciò che riguardava il fenomeno della “glossolalia”, pensò bene anche di mettere in ordine il problema di queste donne che interferivano continuamente o con le loro domande o con i loro saccenti discorsi. Paolo, stando al testo, non sembra proibire il diritto delle donne di pregare e di profetizzare pubblicamente. II verbo “tacere” viene spiegato col sinonimo di “non parlare”. In base a 1Tim 2,11-12, “non parlare” potrebbe equivalere a “non insegnare”, cioè la donna non avrebbe il carisma di “insegnare” nell’assemblea. Ma questa interpretazione va al di là del nostro testo e del suo contesto. Infatti, Paolo sembra che proibisca alla donna di parlare nell’assemblea, per evitare che essa continuamente interferisse nelle spiegazioni che gli interpreti della comunità davano ai fenomeni di glossolalia. Quindi, ad esse non era proibito di pregare e di profetizzare, ma era proibito di interrompere continuamente con le loro richieste di spiegazioni, più o meno opportune, gli interpreti della comunità. Difatti, l’Apostolo afferma che se vogliono delle spiegazioni su qualcosa che non hanno capito, si rivolgano ai loro mariti, che in privato chiariranno loro i problemi.

Le motivazioni addotte per una tale prassi sono ancora una volta basate su dei presupposti legati fortemente alla mentalità di quel tempo: la donna deve tacere, perché questa era la consuetudine delle Chiese (lCor 14,33b); la donna deve tacere, perché questa è la legge, cioè la prassi nel giudaismo; infine, la donna deve tacere, perché non è decente che essa parli in pubblico. Tali motivazioni probabilmente non sono più valide oggi - anzi ci lasciano molto perplessi - ma erano valide per i tempi di Paolo, che le adduce come determinanti. In base ad esse, quindi, Paolo non proibiva alla donna di pregare e di profetizzare in pubblico - questa era una conquista fondamentale del cristianesimo – ma proibiva alla donna di allora, in verità poco istruita, di disturbare con continue domande il buon svolgimento delle assemblee liturgiche.

L’ultimo testo che ha procurato a Paolo l’infelice etichetta di antifemminista è quello di Ef 5,22-24: “Le donne siano sottomesse ai loro mariti come al Signore, poiché l’uomo è capo della donna, come anche Cristo è capo della Chiesa, lui che è Salvatore del suo Corpo. Ma alla stessa maniera che la Chiesa è sottomessa a Cristo, così anche le donne siano sottomesse ai loro mariti in ogni cosa”. Questa testa sembra avere avuto molta influenza nella concezione gerarchica della famiglia cristiana è così inteso, potrebbe anche portare ad una vera sacralizzazione antifemminista della soggezione delle mogli ai mariti. Ma è una vera ingiustizia femminista contro Paolo staccare questi versetti da tutto il loro contesto prossimo. Paolo, infatti, in Ef 5,21-33 parla dei doveri delle mogli verso i mariti (Ef 5,22-24), dei mariti verso le mogli (Ef 5,25-31a) e del rapporto intimo che deve regnare fra i due coniugi (Ef 5,32-33). Partendo da una sentenza generale, Paolo raccomanda ai due coniugi di “essere sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo” (Ef 5,21). Già questa sentenza ha un valore rivoluzionario all’interno della concezione antica della famiglia - giudaica, greco-romana e gli altri popoli - che sanciva indiscutibilmente l’autorità dell’uomo sulla donna e la dipendenza di questa dal proprio marito. Nella visione teologica cristiana, invece, i due coniugi hanno lo stesso valore, le differenze sono solo funzionali. Volute dal creatore, esse servono al buon ordine della famiglia. Così la soggezione della donna al proprio marito non è la dipendenza di una schiava, ma di una persona libera che si sottomette “al Signore”, cioè al piano salvifico di Dio: si obbedisce per compiere la volontà di Dio. Allo stesso modo, il marito attua la volontà divina amando la propria moglie, perché “chi ama la propria moglie ama se stesso”. In questa mutua sottomissione e in questo reciproco e tenero amore i due coniugi divengono simbolo dell’unione di Cristo con la Chiesa, divengono testimoni dell’amore di Cristo, che, regnando nella loro vita, edifica la Chiesa di Dio. Una tale concezione elevata del matrimonio cristiano non solo è in contrasto con ogni concezione giudaica o greco-romana del matrimonio, ma ha posto le basi per una fondamentale visione interpersonale della relazione tra i coniugi, che nel loro matrimonio troveranno il mistero di Dio agente nella loro vita, il sacramento di Cristo che li conduce alla perfezione umana e cristiana.

3) Uguaglianza uomo-donna in S. Paolo

“Nel Cristo Gesù”: ecco la soluzione paolina fondamentale e radicale del rapporto di amore che lega intimamente l’uomo alla donna e li unisce in un rapporto esistenziale e personale di amore reciproco. “Nel Cristo Gesù”, cioè per mezzo dell’opera redentrice e santificatrice di Cristo l’uomo e la donna possono vivere un rapporto nuovo di esistenza perché “chi è in Cristo, questi è una nuova creatura” (2Cor 5,17). Egli ha ristabilito l’uguaglianza e l’unità originaria ed essenziale tra l’uomo e la donna, restituendo ad essi la loro dignità di essere umani, creati a immagine di Dio: “E Dio creò l’uomo a sua immagine, a somiglianza di Dio lo creò, maschio e femmina lo creò’ (Gen 1,27). Ma c’è di più. “Nel Cristo Gesù”: cioè incorporati misticamente a lui, l’uomo e la donna formano una sola persona, perché tutti portiamo impressa sul nostro volto l’immagine gloriosa dei figli di Dio. Ciò è valido in primo luogo per i coniugi cristiani, per i quali Cristo nell’amore fa divenire una realtà concreta il comando del Genesi: “Perciò l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua donna e saranno una sola carne” (Gen 2,24). Ciò è valido, in maniera profonda e mistica, per le anime consacrate, che nell’amore di Cristo divengono fratelli e sorelle, segni escatologici dell’intima unione di Cristo con la sua Chiesa.

“Non c’è più uomo e donna. Tutti infatti siete uno nel Cristo Gesù”. Rivestiti di Cristo nel battesimo, si è prodotta nei cristiani una “nuova creazione”, che li immedesima alla vita di Cristo Signore. Questa nuova realtà produce da una parte un’unità, meglio un’identità unica tra tutti i battezzati: essi sono uno, perché tutti conformati a Cristo; dall’altra si determina un superamento esistenziale di ogni differenza etnico-religiosa, socio-politica e persino naturale, perché sorge una nuova dimensione, in cui ognuno, pur nella diversità personale, assume la “forma e il tipo di Cristo”. Si ha, cioè, un’unità personale e organica, dove ogni persona umana - uomo o donna che sia - per la sua immedesimazione totale a Cristo, porta il contributo della ricchezza della propria personalità, che si manifesta in tutti gli aspetti della propria storia personale, sociale, razziale e religiosa.

Non sono abolite le differenze, ma sono superate. L’affermazione paolina: “Non c’e più uomo e donna” non intende sovvertire questo o quell’altro ordinamento sociale, ma vuole sottolineare che simili differenze tra i cristiani, proprio perché si sono rivestiti di Cristo e sono divenuti “uno in lui”, non hanno più senso. L’affermazione di Paolo ha in sé un germe rivoluzionario, un contenuto esplosiva che agisce in tutte le manifestazioni della vita corrente: fa cadere pregiudizi innati, distorsioni egoistiche della realtà sociale, ingiustizie evidenti nei rapporti umani. Tutto ciò è evidente soprattutto nel superamento della profonda differenza sessuale, che segna tutta la personalità degli individui umani: fa cadere il pregiudizio secolare che la donna sia un essere di secondo ordine e gli restituisce il senso profondo del suo essere donna. “Nel Cristo Gesù”, l’uomo e la donna ritornano all’eguaglianza originale e all’unità intima e funzionale, voluta dal Creatore. Rivestiti della stessa forma e dello stesso tipo di Cristo, acquistano nella Chiesa uguali diritti e doveri: ciascuno secondo la funzione essenziale e specifica che Dio gli ha affidato. L’uguaglianza non è uniformità, ma è unità nell’amore reciproco, che edifica la Chiesa di Dio.

4) I ruoli della donna in S. Paolo

Qualche esegeta, forse per un pregiudizio femminista nei confronti di Paolo, sostiene che l’Apostolo ha formulato teoricamente il principio più audace di tutti i tempi sul’emancipazione della donna, ma concretamente l’ha fatto divenire lettera morta. Niente di più gratuito, di più falso e di più calunnioso poteva essere detto contro l’Apostolo. Le sue lettere, infatti, mostrano molto interesse al ruolo fondamentale che la donna assume nella diffusione dell’evangelo. Per Paolo, ogni donna ha il suo carisma che edifica la Chiesa di Cristo. Così, la donna e madre, che genera doppiamente i figli e li educa nell’amore di Cristo: “Vado rievocando - scrive l’Apostolo a Timoteo – quella fede senza ipocrisia che albergò nella tua nonna Loide e nella tua madre Eunice e, ne sono certo, alberga anche in te” (2Tim 1,5). Una madre santa rende i figli santi: l’esperienza di Monica e di Agostino sono una conferma del carisma dell’apostolato materno all’interno della famiglia cristiana.

La donna è sposa: questo suo carisma, vissuto nell’umile sottomissione al marito e nella dedizione amorosa e generosa ai figli, edifica il Corpo mistico di Cristo, il cui germe matura nella famiglia ed e custodito principalmente dalle spose cristiane, che alimentano la fede e l’amore nelle persone che Dio ha affidato alle loro cure. La donna ha il carisma della verginità, per consacrarsi con animo indiviso a Dio e a lui donare la pienezza della propria vita: “La donna non sposata, la vergine, si preoccupa delle cose del Signore, per essere santa nel corpo e nello spirito ... e piacere solo al Signore” (lCor 7,32.34). Anche la vedovanza e un carisma femminile, che illumina di umanità e di santità la donna cristiana: Onora le vedove che sono veramente tali - scrive Paolo a Timoteo - cioè quelle vedove che hanno riposto in Dio la propria speranza, attendono con perseveranza alla preghiera ed hanno a loro favore la testimonianza di buone opere: hanno educato bene i loro figli, praticato l’ospitalità, lavato i piedi ai santi, hanno soccorso i tribolati, hanno praticato ogni opera buona (lTim 5,3-10). Ma i carismi della donna non sono limitati dentro lo schema di una vita familiare o della consacrazione verginale. Le donne, come gli uomini, sono chiamati a diffondere il Vangelo di Cristo nel mondo che li circonda. Esse hanno ricevuto il carisma di collaboratrici ministeriali, che le rendeva particolarmente utili per penetrare nei ginecei del mondo greco-romano e portarvi cosi il fermento rinnovatore dell’Evangelo di Cristo. Paolo ricorda molte di queste donne impegnate totalmente nella diffusione del messaggio cristiano: Febe di Corinto, prima diaconessa della Chiesa, Prisca di Efeso, Lidia di Filippi, Damaride di Atene e tante altre, ricordate nelle lettere ai Romani e ai Filippesi che consacrarono tutta la loro vita alla causa di Cristo. Ma il carisma più alta che la donna abbia ricevuto nella Chiesa è per Paolo quello di pregare e di profetizzare pubblicamente. Nell’era escatologica Paolo avverte che lo Spirito ha fatto divenire realtà concreta l’antica profezia di Gioele: “Dopo tali cose io effonderò il mio Spirito su ogni mortale. I vostri figli e le vostre figlie profeteranno... Anzi in quei giorni anche sui servi e le serve effonderò lo Spirito mio” (Gl 3,1-2; cfr. At 2,18-21). Colmata dello Spirito di Dio, e rivestita di dignità e di libertà, la donna, vera figlia di Dio, è profetessa che trasmette alla Chiesa la volontà di Dio, edificando, esortando e consolando nel nome di Cristo Signore; è un orante che, animata interiormente dallo Spirito, lancia dal profondo del suo cuore e della sua vita, il grido della figliolanza divina: Abba! Padre! e a lui eleva nella gioia della sua esistenza salmi, inni, cantici spirituali, benedizioni e ringraziamenti (Col 3,16).

Elevate a tanta dignità, anche a voi, sorelle carissime nel Cristo, auguro di vivere con pienezza i doni che avete ricevuto dallo Spirito, per edificare la Chiesa di Dio, generare Cristo nelle anime che vi avvicinano e farle crescere nell’amore fino alla pienezza della maturità di Cristo Signore.

P. Marcello Buscemi O.F.M.

Pasqua di Resurrezione 1982.




P. Alfio Marcello Buscemi

Provincia francescana siciliana del Santissimo nome di Gesù
Titoli di studio: Licenza in Sacra Scrittura (PIB Roma: 1976)
Laurea in Teologia con specializzazione biblica (SBF Gerusalemme: 1978)
Posizione: Professore Ordinario (da 1998)
Segretario (1984-1993)
Vice-Decano dello SBF (2002-2003)

BIBLIOGRAFIA:

Libri
- Lettera ai Galati. Commentario esegetico (SBF Analecta 63), Jerusalem 2004.
- San Paolo. Vita opera messaggio. Traduzione in cinese dello Studium Biblicum Franciscanum, Hong Kong, 2002.
- S. Paolo: vita, opere e messaggio, (SBF Analecta), Jerusalem 2002.
- Gli inni di Paolo. Una sinfonia a Cristo Signore, (SBF Analecta 48), Jerusalem 2000.
- Paolo. Vita, opera e messaggio, Jerusalem 1996.
- La gioia della salvezza. Meditazioni sul Vangelo di Luca, Jerusalem 1996.
- L'uso delle preposizioni nella Lettera ai Galati (SBF Analecta 17) Jerusalem 1987, pp. 119.

Articoli (ultimi pubblicati)
Oltre agli articoli nel Liber Annuus:
- “«Verso la misura della piena maturità di Cristo» (Ef 4,13). Aspetti della perfezione in san Paolo”, in Forma Sororum 4 (2008) 195-213.
- “Una rilettura filologica di Col 2,23”, LA 57 (2007) 229-252.
- “Romani 1,3-4: una rilettura filologica”, in J. E. Aguilar Chiu – F. Manzi – F. Urso – C. Zesati Estrada, «Il Verbo di Dio è vivo». Studi sul Nuovo Testamento in onore del Cardinale Albert Vanhoye, SI (Analecta Biblica 165), Roma 2007, 263-275.
- “La chiesa in S. Paolo”, in G. Lauriola (ed.), Da Cristo la Chiesa (Centro Studi personalistici “Giovanni Duns Scoto, Quaderno n. 23), Castellana Grotte 2006, 27-42.
- “Giudei, Giudeo-cristiani e Gentilo-cristiani in Terra Santa dal periodo evangelico al periodo bizantino”, in G. Lauriola (ed.), Da Cristo la Chiesa (Centro Studi personalistici “Giovanni Duns Scoto, Quaderno n. 23), Castellana Grotte 2006, 75-93.
- “Che cosa si sa attualmente di Paolo”, Credere oggi 24 (2005) 7-18.
- “Ammonizione III. L’obbedienza perfetta”, Frate Francesco 71 (2005) 17-55.
- “Vivere in fraternità nel pensiero di S. Chiara”, Forma Sororum 41 (2004) 145-161.
- “Gesù Cristo nelle lettere di Paolo”, in G. Lauriola, Dalle cristologie al cristocentrismo, Castellana Grotte 2004, 77-94.
- “Gesù Cristo nelle lettere di Paolo”, in F. Mosetto, “Ecce ascendimus Jersolymam” (Lc 18,31). Miscellanea di studi offerti per il 75° dello Studio teologico salesiano in Terra Santa e il Centenario della Ispettoria salesiana del Medio Oriente (Biblioteca di Scienze Religiose 184), Roma 2003, 135-155.
- “Lo Studio Biblico Francescano di Hong Kong”, Frate Francesco 69 (2003) 155-165.
- “Francesco e Chiara”, Frate Francesco 69 (2003) 243-254.
- “La contemplazione in Santa Chiara”, Forma Sororum 40 (2003) 163-177.
- “Le lettere di Chiara”, Frate Francesco 68 (2002) 323-337.
- “Il male della propria volontà. L’ammonizione II di S. Francesco”, Frate Francesco. Nuova Serie 68/1 (2002) 171-187.
- “Dio Padre in S. Paolo”, Antonianum 76 (2001) 247-269.
- “Gal 3,8-14: le genti benedette in Abramo per la fede”, Antonianum 73 (1999) 195-225.
- “Jesus Christ in the Pauline Epistles”, in Biblical Review Hong Kong 22/1 (1998) 11-16; 22/2 (1998) 10-16; 22/3 (1998) 12-16 (in cinese).
- “Umiliazione e ed esaltazione di Cristo”, L’AUS 12 (1997) 123-143.
- “Critica testuale di Mc 1”, in M. Adinolfi - P. Kaswalder (ed.), Entrarono a Cafarnao, Gerusalemme 1997, 73-80.
- “La funzione della legge (Gal 3,19-25)”, in A. Sacchi e coll., Lettere paoline e altre lettere (Logos 6), Torino 1995, 409-420.
- “Il vangelo di Paolo (Gal 2,14-21)”, ivi, 397-408.
- “Il fondamento della speranza in Gal 2,20”, in La Speranza II (Studi biblico-teologici e apporti del pensiero francescano) B. Giordani (ed.), Roma 1983, 29-64.

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