Intorno al dolore del mondo
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- Creato: 21 Settembre 2012
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Anticipiamo alcuni stralci di uno dei saggi dell’ultimo numero della rivista «Vita e Pensiero».
di ALESSANDRO GHISALBERTI
Agostino visse in prima persona gli anni della grande crisi del mondo ellenistico romano, apertasi con l’assedio e il successivo orribile saccheggio di Roma da parte dei Visigoti di Alarico. L’enorme impressione suscitata dalla violazione di Roma, pluri- secolare simbolo di una civiltà considerata grande e perciò imperitura, indusse il mondo pagano ad accusare i cristiani della decadenza di Roma e della dissoluzione della sua civiltà, dal momento che i cristiani avevano assunto ideali di vita divergenti da quelli della civiltà romana.
Per rispondere a queste accuse maturò in Agostino il progetto di un’opera apologetica, La città di Dio, un ampio trattato di filosofia e teolo-gia della storia, nel quale la re-sponsabilità della grande crisi dell’impero romano veniva collega-ta con la religione, la visione filo-sofica della vita umana e gli ideali politici della Roma pagana. D ei ventidue libri che compongono La città di Dio, scritti tra il 412 e il 427, il libroXIXè tutto dedicato al-la lettura filosofica del «dolore del mondo», in confronto con la visio-ne della vita proposta dai filosofi seguaci dell’Accademia, e in parti-colare con la filosofia di Varrone e di Cicerone, i quali avevano miti-gato lo scetticismo accademico con ampie riprese di temi propri della filosofia stoica. Lo stoicismo affidava il compito di raggiungere la felicità in particolare all’e s e rc i z i o delle virtù cosiddette car-dinali: la prudenza, la giustizia, la fortezza e l’autocontrollo. Nella pra-tica della virtù della for-tezza d’animo del saggio e nella sua forte capacità di discernimento dei per-corsi compatibili con la felicità dell’uomo veniva contemplata la dottrina del suicidio, come un atto forte di libertà individua-le, che pone fine alla crisi del soggetto dubbioso di poter raggiungere la feli-cità desiderata. Per Agostino i filosofi hanno commesso un erro-re di prospettiva, quello di aver pensato non all’«altra vita», ma solo a «questa vita», e perciò di essersi considerati autar-chici, in grado di procu-rarsi da soli la felicità. «Il sommo bene è la vita eterna e il sommo male la morte eterna». Questa risposta è decisamente forte: essa viene dalla parola di Dio, che è ta-gliente come lama e illumina le menti di quanti l’hanno accolta. Ma, ci chiediamo, come poteva-no i filosofi vissuti fuori dal popo-lo destinatario della rivelazione far-si portatori di una risposta tanto precisa, difficile da descrivere e spiegare nei suoi contenuti anche da parte di un intelletto credente? Quale visione il sapiente può for-marsi della vita umana, fidando negli strumenti che la sola ragione gli fornisce? Il riporre la vita beata nell’aldilà non destituisce di valore la vita dell’uomo composto di ani-ma e corpo? Questi interrogativi urgono nella mente del lettore, mentre il testo di Agostino mostra di operare una precisa scelta di campo, in virtù della quale la formulazione filoso-fica della ricerca umana della feli-cità risulta un’opera impari già alla sua partenza, e perciò tutti gli in-terrogativi appena esposti, che ac-cordano fiducia unicamente allo sforzo riflessivo della ragione, sono inadeguati. La dichiarata colloca-zione nella vita eterna del sommo bene dell’uomo è infatti sostenuta da una lettura della presente con-dizione della natura umana come segnata dalla morte e dal dolore; a partire da questa lettura i filosofi dovrebbero convincersi della neces-sità di rinunziare a ogni ricerca pu-ramente terrena della felicità, per-ché tale ricerca non fa che alimen-tare e accrescere l’infelicità. Ogni categoria filosofica che, re-cependo i percorsi evidenziati da Varrone, era stata messa in campo perché su di essa si calibrasse la scelta dell’accesso alla felicità viene riconsiderata da Agostino secondo una prospettiva che convince dell’inanità dell’aspirazione alla fe-licità sulla base di risorse mera-mente naturali o di espedienti mentali. La stessa virtù non appare forse come una guerra continua contro i vizi, non quelli esteriori, ma quelli interiori, non quelli degli altri, ma esclusivamente i nostri? Se la virtù è una guerra intesti-na, non può essere certo il luogo della felicità, così come nessuno sforzo che il sapiente esplica per resistere alle passioni può conside-rarsi in se stesso una gioia: sono tutti tentativi di resistere ai mali dell’uomo, di non farsi travolgere dai limiti che segnano l’esistenza terrena. La riprova viene dall’ideale stoico di resistenza estrema all’insi-dia dei mali: scegliere la morte per darsi la felicità. È a questo punto che Agostino affronta direttamente il tema del suicidio: «La virtù cui si dà il no-me di fortezza, anche se associata con qualsiasi forma di sapienza, at-testa con la massima evidenza i mali dell’uomo, che ha indotto a sopportare nella pazienza. Mi sor-prende la sfrontatezza con cui gli stoici pretendono di non ritenerli mali, se poi riconoscono che, quando essi si sono fatti così gravi che il sapiente non può e non deve sostenerli, egli è costretto a darsi morte e a uscire da questa vita» (XIX, 4, 4). Gli stoici sostenevano che il sui-cidio, in certe circostanze, può es-sere considerato un atto di estrema libertà individuale. Può essere at-tuato solo da un vero sapiente, va-le a dire un uomo che ha raggiun-to un livello di conoscenza e d’im-perturbabilità tale da permettergli il privilegio di attuare un suicidio “ben ponderato”, come nel caso di chi scelga di dare la vita per la pa-tria. Agostino ritiene che la scelta della morte non esprima altro che rinunzia, valga cioè come atto di riconoscimento dell’infelicità che segna l’esistenza; un gesto radicale di morte non può mai dare alcuna risposta reale al desiderio di vita felice. Agostino scandaglia, circa il pro-blema della felicità dell’uomo, le posizioni meno radicali dell’esito suicida, offerte dai filosofi della storia: d’accordo con la maggioran-za degli uomini, essi hanno inseri-to il percorso verso la felicità nel contesto sociale, individuando nel-le forme della relazione e della convivenza tra gli uomini le situa-zioni maggiormente capaci di con-sentire un’esistenza felice, sottratta alle insidie dei mali più gravi. Passando in rassegna questi ten-tativi di liberazione dall’infelicità, Agostino ne capovolge la prospet-tiva, e li vede come il luogo natu-rale, congenito e strutturale, del dolore del mondo, in tutti e quat-tro gli stadi dell’organizzazione so-ciale, dalla famiglia, alla città, allo Stato e al mondo degli angeli, chiamato anche quarto mondo Nella famiglia sono na-scoste le insidie di quelli che Terenzio chiama i vizi nell’amore: «ingiurie, so-spetti, ostilità, tregue, e poi guerra e poi pace ancora». E se l’intimità della casa non è sicura, come può besserlo la città, molto più grande e affollata, anche prescindendo dai casi estre-mi di sommosse e guerre civili? Anche nell’a p p a re n -za di una vita cittadina pa-cifica, Agostino individua una situazione permanente di conflittualità, che è ori-ginata proprio dalla volon-tà di giustizia, e che porta all’attivazione dei tribunali dove l’uomo pronuncia giudizi sull’uomo. Quante e quali ferite producono i giudici nella coscienza in-teriore dell’uomo, più an-cora che nella sua fragile carne, senza avere ma la possibilità di essere sicuri di punire esclusivamente i colpevoli! Dopo la casa e la città, è la volta del mondo intero, che, come l’oceano, quanto più è grande tan-to più è colmo di pericoli: la lista dei mali che affliggono le nazioni si apre con la sofferenza indotta dalla diversità delle lingue, «che divide l’uomo dall’uomo». Segue la difficoltà che permane nel go-vernare le nazioni sottomesse, nel vigilare continuamente nei con-fronti delle nazioni straniere, che possono diventare ostili e promuo-vere repentine azioni belliche. Guerre si nascondono anche all’in-terno dello Stato, come le guerre sociali e quelle civili; è inoltre del tutto teorica l’affermazione che il sapiente conduca soltanto guerre giuste, perché pur essendo l’ingiu-stizia da parte dell’avversario a in-durre il sapiente a combattere una guerra giusta, comunque è proprio questa ingiustizia che addolora l’uomo, poiché appartiene agli uo-mini. Nell’ideale della coesistenza de-gli uomini, la cultura classica e la filosofia in particolare avevano as-segnato primario rilievo all’amici-zia, ed è nota a tutti la grande sen-sibilità di Agostino a questo lega-me. Tuttavia, nel capitolo 8 del li-bro XIXde La città di Dio, anche questo legame spirituale viene pre-sentato come fonte di preoccupa-zione, di sofferenza, di dolore: si teme che gli amici soffrano la fa-me, la guerra, le malattie, le prigio-ni; si soffre per la loro morte, an-che se «noi preferiamo sentire o vedere che sono morti quelli che amiamo, piuttosto che sentire o ve-dere che essi si sono allontanati dalla vera fede e dai retti costumi, cioè sono morti nell’anima». La fe-nomenologia del dolore del mondo si estende infine alla «società dei santi angeli, che quei filosofi per i quali gli dei ci sono amici hanno collocato al quarto posto, quasi passando dalla terra all’universo, in modo da abbracciare anche il cie-lo». Dove sorge qui l’insidia per l’uomo? Agostino la vede nell’ignoranza che impedisce all’uomo di distinguere il suggeri-mento dell’angelo buono da quello dell’angelo cattivo; la fragilità dell’umano conoscere impedisce di poter stabilire, senza l’aiuto divino, se godiamo dell’amicizia di angeli buoni o non abbiamo piuttosto a che fare con falsi amici, malvagi demoni astuti e menzogneri. L’ignoranza è la fonte e l’origine del lamento che da ogni piega dell’esistenza, a tutti i livelli, pro-clama la «grande infelicità». Potremmo così sintetizzare l’at-teggiamento globale di Agostino di fronte agli sforzi dei filosofi di vin-cere il dolore del mondo o di far conoscere all’uomo l’accesso alla felicità: proprio l’innata tensione dell’uomo alla felicità rende perspi-cua la diagnosi di infelicità, che contrassegna tutti i luoghi della fe-licità individuati dai sapienti; lungi dal saper offrire un riscatto dal do-lore del mondo, la filosofia ha la sua validità nel mettere a nudo il pàthos congenito dell’esistenza, la totale mancanza di autosufficienza sia nel garantire il bene, sia nell’esplorare le possibilità della vera felicità. Se dunque la filosofia si chiude in se stessa, essa diviene a sua vol-ta una voce, l’estrema voce, dell’in-felicità dell’uomo; se percepisce con lucidità il limite delle proprie vie, la filosofia rinunzia a offrire ri-sposte definitive e si apre ad altro, consegnando l’uomo, afflitto dai dolori e con l’animo colmo di tri-stezza, a un percorso diverso, che guarda oltre la morte: «In realtà la vita umana che è costretta a essere infelice per la presenza di tali e tanti mali in questo mondo, è feli-ce nella speranza di un mondo fu-turo e in tal modo è anche salva». Con questo annunzio, Agostino esibisce i tre termini del nuovo percorso, segnato dalla pace: la speranza, il mondo futuro, la sal-vezza, che egli sviluppa a partire dal capitolo 10 sino alla fine del li-bro XIX, facendo leva principal-mente sul tema dalla pace, la quale stabilisce uno stretto legame tra la città terrena e la città celeste e con-sente di delineare il percorso alla vera felicità, attraversando e oltre-passando l’esistenza attuale dell’uomo. L’annunzio della salvezza dal dolore, dall’infelicità e dal male non viene dalla filosofia, bensì dal-la città di Dio, che identifica il proprio sommo bene con la pace eterna e perfetta; questa salvezza si colloca oltre il tempo dell’esistenza contrassegnato dalla nascita e dalla morte, e perciò diventa l’oggetto della speranza di chi si trova a vi-vere nel tempo, ma ha accolto con fede l’annunzio della città di Dio.
© Osservatore Romano - 21 settembre 2012
di ALESSANDRO GHISALBERTI
Agostino visse in prima persona gli anni della grande crisi del mondo ellenistico romano, apertasi con l’assedio e il successivo orribile saccheggio di Roma da parte dei Visigoti di Alarico. L’enorme impressione suscitata dalla violazione di Roma, pluri- secolare simbolo di una civiltà considerata grande e perciò imperitura, indusse il mondo pagano ad accusare i cristiani della decadenza di Roma e della dissoluzione della sua civiltà, dal momento che i cristiani avevano assunto ideali di vita divergenti da quelli della civiltà romana.
Per rispondere a queste accuse maturò in Agostino il progetto di un’opera apologetica, La città di Dio, un ampio trattato di filosofia e teolo-gia della storia, nel quale la re-sponsabilità della grande crisi dell’impero romano veniva collega-ta con la religione, la visione filo-sofica della vita umana e gli ideali politici della Roma pagana. D ei ventidue libri che compongono La città di Dio, scritti tra il 412 e il 427, il libroXIXè tutto dedicato al-la lettura filosofica del «dolore del mondo», in confronto con la visio-ne della vita proposta dai filosofi seguaci dell’Accademia, e in parti-colare con la filosofia di Varrone e di Cicerone, i quali avevano miti-gato lo scetticismo accademico con ampie riprese di temi propri della filosofia stoica. Lo stoicismo affidava il compito di raggiungere la felicità in particolare all’e s e rc i z i o delle virtù cosiddette car-dinali: la prudenza, la giustizia, la fortezza e l’autocontrollo. Nella pra-tica della virtù della for-tezza d’animo del saggio e nella sua forte capacità di discernimento dei per-corsi compatibili con la felicità dell’uomo veniva contemplata la dottrina del suicidio, come un atto forte di libertà individua-le, che pone fine alla crisi del soggetto dubbioso di poter raggiungere la feli-cità desiderata. Per Agostino i filosofi hanno commesso un erro-re di prospettiva, quello di aver pensato non all’«altra vita», ma solo a «questa vita», e perciò di essersi considerati autar-chici, in grado di procu-rarsi da soli la felicità. «Il sommo bene è la vita eterna e il sommo male la morte eterna». Questa risposta è decisamente forte: essa viene dalla parola di Dio, che è ta-gliente come lama e illumina le menti di quanti l’hanno accolta. Ma, ci chiediamo, come poteva-no i filosofi vissuti fuori dal popo-lo destinatario della rivelazione far-si portatori di una risposta tanto precisa, difficile da descrivere e spiegare nei suoi contenuti anche da parte di un intelletto credente? Quale visione il sapiente può for-marsi della vita umana, fidando negli strumenti che la sola ragione gli fornisce? Il riporre la vita beata nell’aldilà non destituisce di valore la vita dell’uomo composto di ani-ma e corpo? Questi interrogativi urgono nella mente del lettore, mentre il testo di Agostino mostra di operare una precisa scelta di campo, in virtù della quale la formulazione filoso-fica della ricerca umana della feli-cità risulta un’opera impari già alla sua partenza, e perciò tutti gli in-terrogativi appena esposti, che ac-cordano fiducia unicamente allo sforzo riflessivo della ragione, sono inadeguati. La dichiarata colloca-zione nella vita eterna del sommo bene dell’uomo è infatti sostenuta da una lettura della presente con-dizione della natura umana come segnata dalla morte e dal dolore; a partire da questa lettura i filosofi dovrebbero convincersi della neces-sità di rinunziare a ogni ricerca pu-ramente terrena della felicità, per-ché tale ricerca non fa che alimen-tare e accrescere l’infelicità. Ogni categoria filosofica che, re-cependo i percorsi evidenziati da Varrone, era stata messa in campo perché su di essa si calibrasse la scelta dell’accesso alla felicità viene riconsiderata da Agostino secondo una prospettiva che convince dell’inanità dell’aspirazione alla fe-licità sulla base di risorse mera-mente naturali o di espedienti mentali. La stessa virtù non appare forse come una guerra continua contro i vizi, non quelli esteriori, ma quelli interiori, non quelli degli altri, ma esclusivamente i nostri? Se la virtù è una guerra intesti-na, non può essere certo il luogo della felicità, così come nessuno sforzo che il sapiente esplica per resistere alle passioni può conside-rarsi in se stesso una gioia: sono tutti tentativi di resistere ai mali dell’uomo, di non farsi travolgere dai limiti che segnano l’esistenza terrena. La riprova viene dall’ideale stoico di resistenza estrema all’insi-dia dei mali: scegliere la morte per darsi la felicità. È a questo punto che Agostino affronta direttamente il tema del suicidio: «La virtù cui si dà il no-me di fortezza, anche se associata con qualsiasi forma di sapienza, at-testa con la massima evidenza i mali dell’uomo, che ha indotto a sopportare nella pazienza. Mi sor-prende la sfrontatezza con cui gli stoici pretendono di non ritenerli mali, se poi riconoscono che, quando essi si sono fatti così gravi che il sapiente non può e non deve sostenerli, egli è costretto a darsi morte e a uscire da questa vita» (XIX, 4, 4). Gli stoici sostenevano che il sui-cidio, in certe circostanze, può es-sere considerato un atto di estrema libertà individuale. Può essere at-tuato solo da un vero sapiente, va-le a dire un uomo che ha raggiun-to un livello di conoscenza e d’im-perturbabilità tale da permettergli il privilegio di attuare un suicidio “ben ponderato”, come nel caso di chi scelga di dare la vita per la pa-tria. Agostino ritiene che la scelta della morte non esprima altro che rinunzia, valga cioè come atto di riconoscimento dell’infelicità che segna l’esistenza; un gesto radicale di morte non può mai dare alcuna risposta reale al desiderio di vita felice. Agostino scandaglia, circa il pro-blema della felicità dell’uomo, le posizioni meno radicali dell’esito suicida, offerte dai filosofi della storia: d’accordo con la maggioran-za degli uomini, essi hanno inseri-to il percorso verso la felicità nel contesto sociale, individuando nel-le forme della relazione e della convivenza tra gli uomini le situa-zioni maggiormente capaci di con-sentire un’esistenza felice, sottratta alle insidie dei mali più gravi. Passando in rassegna questi ten-tativi di liberazione dall’infelicità, Agostino ne capovolge la prospet-tiva, e li vede come il luogo natu-rale, congenito e strutturale, del dolore del mondo, in tutti e quat-tro gli stadi dell’organizzazione so-ciale, dalla famiglia, alla città, allo Stato e al mondo degli angeli, chiamato anche quarto mondo Nella famiglia sono na-scoste le insidie di quelli che Terenzio chiama i vizi nell’amore: «ingiurie, so-spetti, ostilità, tregue, e poi guerra e poi pace ancora». E se l’intimità della casa non è sicura, come può besserlo la città, molto più grande e affollata, anche prescindendo dai casi estre-mi di sommosse e guerre civili? Anche nell’a p p a re n -za di una vita cittadina pa-cifica, Agostino individua una situazione permanente di conflittualità, che è ori-ginata proprio dalla volon-tà di giustizia, e che porta all’attivazione dei tribunali dove l’uomo pronuncia giudizi sull’uomo. Quante e quali ferite producono i giudici nella coscienza in-teriore dell’uomo, più an-cora che nella sua fragile carne, senza avere ma la possibilità di essere sicuri di punire esclusivamente i colpevoli! Dopo la casa e la città, è la volta del mondo intero, che, come l’oceano, quanto più è grande tan-to più è colmo di pericoli: la lista dei mali che affliggono le nazioni si apre con la sofferenza indotta dalla diversità delle lingue, «che divide l’uomo dall’uomo». Segue la difficoltà che permane nel go-vernare le nazioni sottomesse, nel vigilare continuamente nei con-fronti delle nazioni straniere, che possono diventare ostili e promuo-vere repentine azioni belliche. Guerre si nascondono anche all’in-terno dello Stato, come le guerre sociali e quelle civili; è inoltre del tutto teorica l’affermazione che il sapiente conduca soltanto guerre giuste, perché pur essendo l’ingiu-stizia da parte dell’avversario a in-durre il sapiente a combattere una guerra giusta, comunque è proprio questa ingiustizia che addolora l’uomo, poiché appartiene agli uo-mini. Nell’ideale della coesistenza de-gli uomini, la cultura classica e la filosofia in particolare avevano as-segnato primario rilievo all’amici-zia, ed è nota a tutti la grande sen-sibilità di Agostino a questo lega-me. Tuttavia, nel capitolo 8 del li-bro XIXde La città di Dio, anche questo legame spirituale viene pre-sentato come fonte di preoccupa-zione, di sofferenza, di dolore: si teme che gli amici soffrano la fa-me, la guerra, le malattie, le prigio-ni; si soffre per la loro morte, an-che se «noi preferiamo sentire o vedere che sono morti quelli che amiamo, piuttosto che sentire o ve-dere che essi si sono allontanati dalla vera fede e dai retti costumi, cioè sono morti nell’anima». La fe-nomenologia del dolore del mondo si estende infine alla «società dei santi angeli, che quei filosofi per i quali gli dei ci sono amici hanno collocato al quarto posto, quasi passando dalla terra all’universo, in modo da abbracciare anche il cie-lo». Dove sorge qui l’insidia per l’uomo? Agostino la vede nell’ignoranza che impedisce all’uomo di distinguere il suggeri-mento dell’angelo buono da quello dell’angelo cattivo; la fragilità dell’umano conoscere impedisce di poter stabilire, senza l’aiuto divino, se godiamo dell’amicizia di angeli buoni o non abbiamo piuttosto a che fare con falsi amici, malvagi demoni astuti e menzogneri. L’ignoranza è la fonte e l’origine del lamento che da ogni piega dell’esistenza, a tutti i livelli, pro-clama la «grande infelicità». Potremmo così sintetizzare l’at-teggiamento globale di Agostino di fronte agli sforzi dei filosofi di vin-cere il dolore del mondo o di far conoscere all’uomo l’accesso alla felicità: proprio l’innata tensione dell’uomo alla felicità rende perspi-cua la diagnosi di infelicità, che contrassegna tutti i luoghi della fe-licità individuati dai sapienti; lungi dal saper offrire un riscatto dal do-lore del mondo, la filosofia ha la sua validità nel mettere a nudo il pàthos congenito dell’esistenza, la totale mancanza di autosufficienza sia nel garantire il bene, sia nell’esplorare le possibilità della vera felicità. Se dunque la filosofia si chiude in se stessa, essa diviene a sua vol-ta una voce, l’estrema voce, dell’in-felicità dell’uomo; se percepisce con lucidità il limite delle proprie vie, la filosofia rinunzia a offrire ri-sposte definitive e si apre ad altro, consegnando l’uomo, afflitto dai dolori e con l’animo colmo di tri-stezza, a un percorso diverso, che guarda oltre la morte: «In realtà la vita umana che è costretta a essere infelice per la presenza di tali e tanti mali in questo mondo, è feli-ce nella speranza di un mondo fu-turo e in tal modo è anche salva». Con questo annunzio, Agostino esibisce i tre termini del nuovo percorso, segnato dalla pace: la speranza, il mondo futuro, la sal-vezza, che egli sviluppa a partire dal capitolo 10 sino alla fine del li-bro XIX, facendo leva principal-mente sul tema dalla pace, la quale stabilisce uno stretto legame tra la città terrena e la città celeste e con-sente di delineare il percorso alla vera felicità, attraversando e oltre-passando l’esistenza attuale dell’uomo. L’annunzio della salvezza dal dolore, dall’infelicità e dal male non viene dalla filosofia, bensì dal-la città di Dio, che identifica il proprio sommo bene con la pace eterna e perfetta; questa salvezza si colloca oltre il tempo dell’esistenza contrassegnato dalla nascita e dalla morte, e perciò diventa l’oggetto della speranza di chi si trova a vi-vere nel tempo, ma ha accolto con fede l’annunzio della città di Dio.
© Osservatore Romano - 21 settembre 2012