Viscere di misericordia

il-perdonoL’espressione latina della Sacra Scrittura viscera misericordiae non è stata tradotta in italiano. Eppure ci offre un’immagine concreta dell’amore del Padre per il Figlio e per noi

di Giuseppe Cipolloni

Un fatto semplice quanto determinante per la mia vita è stata l’abitudine di leggere ogni giorno un passo del Vangelo. Lo avevo sempre fatto nella traduzione italiana, e dopo la Bibbia di Gerusalemme – un’edizione senza dubbio stupenda, ma anch’essa in italiano – mi procurai I quattro Vangeli della Bibbia di Navarra, che presenta, accanto al testo in italiano, anche quello della neo volgata in latino. Mi misi a leggere, nel Vangelo di Luca, il cantico che Zaccaria pronuncia dopo la nascita di Giovanni Battista: «Grazie alla bontà misericordiosa del nostro Dio, / per cui verrà a visitarci dall’alto un sole che sorge […]» (Lc 1, 78).
Sulla pagina a fronte, la traduzione in latino mi sembrò molto diversa: «Per viscera misericordiae Dei nostri, / in quibus visitavit nos oriens ex alto […]». Restai colpito dall’espressione viscera misericordiae e rimasi deluso nel constatare che non c’era alcun vocabolo nella traduzione italiana che ne rendesse il senso. E intanto, continuavo a riflettere: era chiaro che non poteva semplicemente trattarsi di bontà misericordiosa in senso astratto, ma di una tenerezza “viscerale” di Dio per l’uomo. Pensai che era bellissimo: una maniera quanto mai concreta per dire che Dio, per tenero amore, genera Gesù e, attraverso Lui, crea tutti noi. Ed è proprio in queste viscere (in quibus) che Dio ci avrebbe visitato dall’alto attraverso la Sua incarnazione, che di lì a poco sarebbe avvenuta. Allora mi sembrò per un attimo di intuire tante cose, mi intrigava molto e pensai di risalire all’originale in lingua greca, che trovai facilmente su internet: «Dia splagchna eleous Theou hêmôn / en hois episkepsetai hêmas anatolê ex hupsous».

Queste parole mi aprirono ancora meglio l’orizzonte: non si trattava soltanto di “tenerezza viscerale”, ma anche “uterina”, dell’«amore tenero che fa sentire a una madre brividi dall’utero per il figlio». Dio, Padre e Madre. In un momento ebbi la percezione che la misericordia di Dio è talmente connaturata con Lui da essere per Lui viscerale. Dio ci ha voluto visceralmente, e Gesù ha accettato di soffrire e morire dalle Sue viscere. Così profondamente da crearci attraverso Lui una prima volta con enorme fatica, tanto da doversi “riposare” il settimo giorno, e poi ancora una seconda volta, nella maniera più dolorosa e traumatica per mezzo della Sua incarnazione, passione, morte e risurrezione.
Ma non bastava. Iniziai a confrontare questo testo con altri della Scrittura. E ne trovai numerosi, ove è Gesù che prova, come il Padre, misericordia viscerale per le folle che Lo seguono prive di riferimenti, confuse, bisognose di guida. Rimasi colpito nel vedere qui lo stesso verbo di Luca, splagchneuo, a significare che anche Gesù avverte la stessa commozione viscerale del Padre. E non solo per le folle. Gesù prova lo stesso brivido di amore viscerale per tutte le sofferenze umane, originate da qualsiasi motivo. E ancora in Marco, quel medesimo verbo descrive il sentimento di Gesù nei confronti di un lebbroso (Mc 1, 40-41) e in Matteo riguardo a due ciechi (Mt 20, 30-34). Come pure questo verbo ritorna nuovamente in Luca nell’episodio della vedova di Nain, ove Gesù vede sé stesso nel giovane portato al cimitero dalla madre. E, unico caso nel Vangelo, lo resuscita senza averne avuto richiesta, perché prova una compassione viscerale, questa volta, per Sua Madre, al pensiero che lei stessa, come la vedova di Nain, di lì a poco Lo avrebbe dovuto accompagnare al sepolcro (Lc 7, 12-15).
Continuai la ricerca e constatai che anche nella stupenda parabola del figliuol prodigo lo stesso verbo è usato per mostrare che Dio è sentimento, supremo Sentimento, prima di essere suprema Ragione. Mi impressionò notare, come per la prima volta, perché alla luce di questo verbo, che il Padre rimane sempre in attesa del nostro ritorno e nota ogni minimo moto del nostro animo in qualsiasi momento, persino quando siamo ancora lontani: «Quando era ancora lontano il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò» (Lc 15, 20). Proprio quel famoso verbo anche qui: esplagchnisthê. La traduzione commosso non basta a trasmettere il profondissimo brivido emotivo dal cuore e dall’utero, dalle viscere, di Dio Padre e Madre. E il resto della frase concorre a rendere la tremenda tensione sentimentale del Padre nei nostri confronti. Vi si dice che Dio ci legge nel cuore e non può aspettare nemmeno un attimo, per darci il tempo di dirGli tutto il nostro pentimento e le nostre buone intenzioni per il futuro, perché ci accoglie in un abbraccio forte e stretto: «Kai dramôn epepesen epi ton trachêlon autou kai katephilêsen auton».
Sentii a questo punto di non potermi fermare e andai avanti nella ricerca, con tanta emozione, perché continuai a imbattermi in sempre più numerosi testi che confermavano l’Amore di Dio come viscerale, come fremito, brivido dell’intimo (Os 11, 8; Ger 31, 20; Is 49, 14-16; Gc 5, 1). Sempre ritornava questo verbo, splagchneuo, a esprimere la tenerezza del cuore del Padre e dell’utero della Madre nei confronti del bambino più esposto al bisogno e alla sofferenza. E questo bambino siamo noi, così tanto amati da Dio proprio per questa nostra condizione, «perché egli sa di che siamo plasmati, / ricorda che noi siamo polvere» (Sal 103, 14).


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