Educarsi alla paternità

  Piccola analisi e prospettive psico-pedagogiche e spirituali.

creazione1Premesse


            1. La crisi della paternità

                                   - la famiglia

                                   - le istituzioni

                                   - la religione

                                   - cause?


            2. La debolezza dei valori

                                   - valori a medio termine

                                   - valori soggettivi

                                   - il narcisismo culturale

                                   - conseguenze?


            3. Segni di speranza

                                   - esigenza di autonomia

                                   - attenzione all'uomo

                                   - sensibilità per il senso


            4. Cosa fare o chi essere?

                                   - autenticità

                                   - il rapporto con l'area della paternità

                                   - l'oggettività dei valori

                                   - l'identità personale


            5. Indicazioni pedagogiche sulla via di Emmaus

                                   5.1 Proporre i valori del Vangelo ...

                                               - l'illusione didattica


                                   5.2 camminare con loro ...

                                               - l'illusione materna


                                   5.3 rapportare alla verità ...

                                               - l'illusione paterna (autorità)


                                   5.4 scomparire.

                                               - l'illusione romantica

Introduzione


            Le riflessioni che seguono danno per presupposto che chi ascolta sia impegnato non solo come educatore, ma anche come cristiano; non è quindi un annuncio cristiano il mio, ma una riflessione rivolta a persone già inserite in un cammino di fede di qualche tipo e che si fanno domande sul loro essere educatori.

            Metodologicamente intendo partire da una breve analisi psico-sociologica delle problematiche attuali del mondo giovanile (è questa una scelta di campo) per coglierne luci e ombre. Di qui, in un secondo momento, tenterò di rispondere alla domanda sull'identità dell'educatore cristiano nel nostro tempo. Terminerò con alcune indicazioni psico-pedagogiche e spirituali, che non sono la risoluzione di problemi specifici, ma valgono come impostazione educativa.

            I dati che ora analizzerò devono essere presi come punto di partenza, potremmo dire dovremmo guardarli con il senso biblico della 'visita di Dio'; chiedendoci cioè che cosa questa realtà dice a noi oggi, noi educatori.



            1. La crisi della paternità


            Con questa espressione intendo mettere in luce un dato culturale del nostro tempo, del quale è possibile trovare riscontro in diverse analisi sociologiche e psicologiche. Simbolicamente quando si parla di padre, di paternità, si intende, a diversi livelli, un riferimento con qualcosa di stabile, di rigido, a volte autoritario, che dà la legge, che chiede una obbedienza, che richiede una dipendenza. Insomma si fa metaforicamente riferimento a un punto fisso di riferimento. Ora, mi pare di poter dire che la realtà giovanile si presenta oggi come refrattaria a questa dimensione di stabilità e autorità. Quanto dirò di seguito sono alcuni dati, desunti da ricerche affermate, che evidenziano questo.

            Garelli[1], in alcune ricerche sulla condizione giovanile, ha riscontrato come le giovani generazioni rifiutano i modelli già precostituiti, le soluzioni che i genitori danno loro, in nome di una indipendenza e autonomia che li rendono più protagonisti della loro vita. Esiste come un 'rifiuto dei padri' inteso come rifiuto di tutto ciò che è calato dall'alto come verità per la vita, tutto ciò che vincola in un impegno che perdura nel tempo. Facilmente i giovani vedono come 'sorpassati' certi codici di moralità o di impegno dei loro genitori e sentono che il loro linguaggio è fuori moda. Questa autonomia, dice Garelli, se da una parte fa pensare a una maggiore desiderio di essere protagonisti e responsabili della propria vita dall'altra si trova in coppia con un altro tratto del mondo giovanile: il rinvio. Si rivendica una certa libertà di scelta, ma dall'altra parte si rimandano in continuazione le scelte che nella vita tendono a vincolare.

            Questo rifiuto dei padri non è solo all'interno della dinamica famigliare, ma si riscontra anche nel sociale, nella cultura, nelle istituzioni; le tradizionali agenzie di socializzazione, cioè le entità sociali che favoriscono l'inserimento dei giovani nel mondo degli adulti, sono in crisi (tutto questo ha delle cause molto complesse, sulle quali non ci soffermiamo troppo). L'esperienza comune, ma anche i dati di ricerca, ci mostrano come c'è la tendenza a vedere le istituzioni, specie quelle che presentano un certo verticalismo, come una minaccia alla propria libertà e creativi. Le ideologie, dopo i fatti recenti dell'89, si sono dimostrate fasulle, non credibili, non affidabili per un progetto a lunga scadenza, di qui una sfiducia nei confronti della politica e dell'impegno politico. La società in genere ha perso il riferimento a valori comuni, intorno ai quali radunare le grosse masse, la scuola di conseguenza non è più il luogo della trasmissione di valori largamente condivisi; essa a sua volta non è accettata dai giovani come 'istituzione totale' come era in passato. La famiglia, come istituzione, non ha più la presa che aveva alcuni decenni fa, ma è vista con sospetto a causa dell'impegno a lungo termine che richiede, o è usata come parcheggio per rinviare la scelta di impegno nella società.

            Una sorte non meno felice è toccata alla religione, in particolare le religioni tradizionali. Nei giovani oggi c'è una tendenza alle esperienze religiose, ma parallelamente vi è un rifiuto della religione istituzionale. Potremmo dire, come ha sottolineato qualcuno che, se prima l'atteggiamento religioso poteva essere definito come: Cristo sì, Chiesa no; oggi si potrebbe riassumere nel motto: Cristo no, Chiesa no, esperienza religiosa sì. Cioè vi è una tendenza all'esperienzialismo religioso, inteso come una forte esperienza (emotivo-affettiva) di Dio e un rifiuto della religione istituzionalizzata e dei suoi dogmi (il titolo emblematico di uno studio a livello di sociologia della religione era: Religione senza istituzione)[2]. Nei giovani che si definiscono cristiani o cattolici, poi, si nota un altro fenomeno interessante: vi è l'affermazione di ideali religiosi elevati insieme a uno scollamento della vita dai valori affermati. E' una specie di riflusso nel privato, dove si dà credito alla Chiesa e alle sue posizioni in materia di fede e di morale, ma poi si pensa che le questioni esistenziali vadano risolte con il proprio buon senso.

            Anche la religione, dunque, si inserisce in questo 'bisogno di autonomia' del mondo giovanile, esso ha come conseguenza il conflitto con tutto ciò che è pre-cotto, già preparato, dogmatico, verità assoluta. Nei termini psicologici potremmo dire che vi è una certa preferenza verso una religione materna e una opposizione verso una religione paterna. Un noto studioso di psicologia della religione[3] ha individuato come il 'fatto religioso' possa avere una differente percezione nelle persone: la religione materna risulta così essere quella che viene incontro ai miei bisogni, che risponde a tutte le mie domande e desideri, che rassicura le mie ansie, che mi presenta Dio soprattutto nei suoi attributi femminili (accoglienza, perdono, condivisione, etc.). La religione paterna invece è quella che non soddisfa sempre il desiderio, che è 'altra', che propone una verità che non sempre combacia con i desideri dell'uomo[4]. Ecco, nei giovani di oggi non vi sarebbe l'assenza della domanda e del desiderio religioso, solo che la religione che è più 'di moda' è quella di tipo materno[5].

            Ora, la domanda che tutti ci facciamo è intorno alle cause di questa situazione. Non è possibile rispondere qui a un problema così complesso, vi entrano fattori che non sono solo sociologici o psicologici, ma anche storici, filosofici, teologici etc. Possiamo però dare alcune piste di lettura. L'oggettività vuole che, al contrario di ciò che dicono alcuni, valutando subito negativamente la situazione o colpevolizzando le giovani generazioni, si riconosca che i fattori sono molteplici e tutti siamo interessati. A un livello globale si riscontra la costituzione di una società complessa[6], a più strati, con diversi ambiti di appartenenza. Lo sviluppo dell'informazione, della ricerca scientifica, della tecnica, ha creato un pluralismo di posizioni, questo di conseguenza ha preparato il terreno per le posizioni personali, le libertà individuali. Diciamo che sono stati erosi i comuni punti di riferimento e sono nati dei nuovi paradigmi dove esiste la democrazia e la libertà di pensiero. Tutto ciò ha portato a un certo rifiuto di tutto ciò che è troppo stabile e definito.

            Le diverse appartenenze che i giovani oggi sperimentano (la scuola, il gruppo sportivo, gli amici in discoteca, il gruppo dei giovani in parrocchia) creano un decentramento dei valori: non esiste più un unico punto di riferimento ma molti, e spesso tutti molto esigenti. Non è difficile capire come non sia facile prendere una posizione in un clima di relativismo e come sia più facile soggettivizzare la propria esperienza di vita, per non dire di quando si arriva a individualizzarla in modo radicale in opposizione a una qualsiasi autorità che, a questo punto, è percepita come una minaccia. Questo pluralismo e questa complessità sono dunque due fattori importanti dell'odierna 'crisi della paternità', ma non sono gli unici.

            Se l'autorità è in crisi, se la paternità non ha un ruolo chiave nella vita dei giovani, ciò è da attribuirsi anche a elementi interni alla stessa dinamica famigliare. Uno psicologo e studioso del mondo giovanile si è interrogato alcuni anni fa sull'attuale situazione del mondo giovanile, ha intitolato il suo studio con uno slogan: 'Interminabili adolescenze'[7]. Egli si è reso conto come il giovane della società occidentale, entra nella fase critica della vita denominata adolescenza (quella fase appunto si rivendica una certa autonomia dall'autorità dei genitori in vista di una identità più definita), ma non vi esce facilmente. Potremmo dire, riprendendo Garelli, vive in modo permanente la cosiddetta fase del 'rinvio'. Gli impegni costringenti della vita (lavoro, famiglia, impegno nel sociale) vengono demandati all'indefinito e si preferisce una situazione di parcheggio (scuole che non finiscono mai, convivenze senza obblighi, dipendenza dalla famiglia per lungo tempo). Le risposte che lui si dà sono quelle che ci diamo anche noi, forse le più ovvie: una società che non garantisce il lavoro, una scuola che non prepara etc. Ma poi fa un passo più in là: che cosa succede nelle famiglie? La sua indagine mostra come i 'padri', quelli che gli adolescenti rifiutano, spesso hanno delegato il loro compito, vogliono talvolta imitare i giovani e così non offrono un modello autentico di realizzazione, o ancora rinunciano a impostare una educazione intorno al bene e al male[8]. Insomma, la crisi della paternità non è una crisi che riguarda il mondo dei giovani, ma coinvolge e responsabilizza i cosiddetti adulti.



            2. La povertà dei valori


            Se da una parte i giovani rivendicano una maggiore autonomia, una libertà maggiore dai vincoli 'paterni' dobbiamo anche dire che questo non ha come conseguenza un rafforzamento della loro identità e dei valori sui quali giocare la propria vita. Ecco allora un altro fenomeno che ho voluto definire con 'povertà di valori', cioè di obiettivi, di ideali significativi sui quali impegnare se stessi. Siamo in un'epoca definita dagli specialisti come post-moderno, nella quale i valori della modernità (cioè della società industriale) sono sempre più in crisi e non vi sono altri valori pronti a sostituirli. O meglio, vi sono, ma sono valori di piccola gittata. Vaccarini[9] individua nei giovani una prevalenza dei valori espressivi su quelli più consolidati, intendendo con i primi quei valori che hanno a che fare con la realizzazione di sé, rispetto a quelli che riguardano il bene della collettività. Qualcuno ha definito questa tendenza come il nichilismo dei valori, caratteristica del post-moderno.

            A ben guardare, quindi, non vi è una vera assenza di valori, solo che questi sembrano avere delle caratteristiche ben precise: sono fondamentalmente soggettivi. Mentre la generazione del '68 rivendicava alcuni valori che avevano come comune denominatore il 'noi', oggi il comune denominatore dei valori è l''io'. Qualcuno ha detto che nel linguaggio corrente il pronome che più ricorre sia appunto io, come per dire che il nostro stesso clima culturale occidentale sia di riferimento alle esigenze della persona, dell'individuo. Uno psicologo[10] notava come nel periodo della contestazione vi era la tendenza a criticare le strutture superiori del sociali in nome di una nuova struttura, una nuova società che doveva nascere, ora la contestazione non c'è più, c'è piuttosto l'indifferenza. Se allora i giovani si trovavano insieme intorno ad un idea per cui lottare, ora si ritrovano insieme per ascoltare della musica ... il giudizio critico dello studioso arriva a dire che 'è finito il regno del super-io, regna l'es'. Si potrebbe quasi dire che il desiderio, il proprio mondo affettivo-emotivo, diviene criterio per affermare i valori.

            Quindi non una assenza dei valori, ma più propriamente una debolezza di valori. Il tutto rientra in un altro fenomeno, tipico del nostro tempo e delle nostre culture occidentali: il narcisismo[11]. Questa parola 'narcisismo', desunta dalla psicologia clinica, significa in breve 'amore di sé' ed è passata ad indicare un atteggiamento ricorrente dell'uomo contemporaneo. La nostra epoca ha un marcato accento antropologico, cioè un'attenzione notevole all'uomo e alla sua realtà (fisica, sociale, psicologica etc.) e questo, se da una parte è un indice positivo, dall'altra porta con se un modo di vita sempre più centrato sull'attenzione a sé, che a volte diventa patologico.

            Dal punto di vista comportamentale questo narcisismo si riscontra in alcuni atteggiamenti pratici che molti giovani oggi hanno. Un'attenzione forte per il presente che diviene l'unico spazio che merita di essere vissuta pienamente; il passato viene dimenticato (anche il passato personale e famigliare), esso non c'è più, non ha niente da dire alla mia esperienza di oggi; il futuro poi non c'è ancora, non vale la pena impegnarsi per un progetto o un ideale che vincoli la mia vita per un tempo che deve ancora venire. Ciò che conta è il presente: io lo vivo, lo sperimento, è una realtà sensibile con la quale mi devo misurare. Un altro tratto comportamentale è la mancanza di empatia: si riscontra in alcuni giovani una incapacità a commuoversi o a sentirsi chiamati in causa dalle emozioni e dalle sofferenze degli altri, una specie di ego-centrismo emotivo che fa del proprio vissuto la cosa più importante e di quello degli altri una cosa esterna a me, che non mi riguarda. Insomma questo fenomeno del narcisismo culturale sembra essere in relazione con la debolezza dei valori: questi sono il risultato di un uomo fortemente preso dalla preoccupazione per sé.

            Ma quali sono le conseguenze di questa povertà di valori? Nei giovani possiamo riscontrare come questa assenza di valori, di principi direttivi della propria vita, condiziona molto la formazione della loro identità umana e cristiana. L'identità è debole (non profonda, non dura nel tempo) e frammentata (legata alle diverse appartenenze). La ricerca dei nuovi culti, delle nuove religioni è in questa linea: il giovane cerca qualcosa che gli dia una risposta immediata alla sua esigenza immediata di capirsi e di definirsi. L'identità personale è sempre più debole perché fondata non su valori stabili e profondi, ma su ideali intermedi e ego-centrici. Ne segue che il giovane si ritrova confuso, insoddisfatto, incapace di vedere un senso in quello che fa.

            Dal punto di vista etico[12] la povertà di valori ha dei risvolti negativi non solo sui giovani, ma su tutti gli strati sociali. Da un punto di vista della coscienza personale si assiste, come si notava anche prima, a una soggettivizzazione e una privatizzazione della coscienza, dove è vero ciò che io sento e falso ciò che non mi interessa[13]. L'individualismo de valori ha condotto a una sorta di critica diffusa verso tutti quelli atteggiamenti virtuosi, di autocontrollo, di altruismo, di sacrificio di sé per il bene comune, che erano più in voga in passato[14]. La crisi dei valori insomma va di pari passo con la crisi etica, ci sono studi che evidenziano come ci troviamo in un tempo di vera e propria notte etica, alcune cifre per sbalordirci un po' e per pensare. La famiglia si presenta sempre più come una istituzione in via di fallimento, i divorzi e le separazioni sono in aumento, le convivenze vengono preferite perché rispondono meglio alla mentalità di non-vincolarsi in un progetto a lungo termine. Questo disagio della famiglia ha delle conseguenze sui figli notevoli a livello di adattamento psichico, sociale e scolastico. Un'altro segnale della crisi etica è l'aumento della violenza e la mancanza di autocontrollo, alcune cifre[15].

            Per riassumere i valori del mondo giovanile sono deboli, tendono a esser il frutto di personalità ego-centrate e perciò risultano essere soggettivi più che altruistici. Tutto ciò è frutto del clima culturale dominante e ha delle conseguenze a livello etico che non possono essere passate sotto silenzio.



            3. Segni di speranza


            Non vogliamo fermarci qui, ma considerare questo come il nostro tempo, il tempo nel quale ill Signore ci ha dato una missione da compiere. E' dunque un tempo di crisi il nostro, ma anche un tempo di grandi opportunità (la parola crisi in cinese ha questo doppio significato: rischio-opportunità); può allora essere letto in un orizzonte di possibilità, che come educatori possiamo e dobbiamo saper vedere.

            Innanzi tutto nella ricerca di una autonomia dei giovani d'oggi, dobbiamo poter vedere non solo una critica ai modelli patriarcali superati, ma una esigenza di autenticità, un desiderio di passare da una vita fatta di doveri a una di responsabilità. Il voler essere protagonisti e responsabili della propria vita può spingere a dare in qualità, molto più di quanto non si dia per dovere o per paura (Garelli nota come i giovani impegnati per un ideale siano veramente oblativi, desiderosi di dare tutto se stessi).

            Nella spiccata attenzione per se stessi deve essere visto non solo il narcisismo culturale (nel senso di una soggettività negativa), ma anche una maggiore attenzione ai problemi dell'uomo e alla consapevolezza nelle scelte (una soggettività in senso positivo). L'essere umano, la persona acquista sempre più dignità[16], l'individuo vuole capirsi sempre più. Questo ci mette di fronte a individui sempre più desiderosi, più o meno consciamente, di trovare un senso esistenziale. Questo guardare dentro se stessi, se da una parte può esser un auto-gratificazione, dall'altra rende maggiormente sensibili, capaci di percepire la propria inquietudine e più aperti alla ricerca di un senso. I giovani di oggi sono in qualche modo più a contatto con la loro insoddisfazione, quindi indirettamente più bisognosi di trovare un approdo a questa loro inquietudine.

            Un altro vantaggio ci viene dall'informazione: mai come in passato l'uomo ha a disposizione un volume di conoscenze così vasto e alla portata di tutti. Le diverse appartenenze rendono l'uomo maggiormente informato e specializzato in vari campi, ma spesso non sa cosa fare di tutto questo. Prima era la natura a dominare e impaurire l'uomo, ora è l'uomo a dominare e a manipolare la natura. Si dice che siamo nell'era della tecnica[17], della trasformazione della materia, ma nonostante tutte queste possibilità l'uomo avverte che tutto ciò non basta, ha bisogno di una ragione, di un logos, di un punto di riferimento. Ecco allora che le diverse informazioni e possibilità scientifiche sono come in attesa di un punto di riferimento.



            4. Cosa fare o piuttosto chi essere e come?

              Di fronte allo scenario di luci e ombre è opportuno farsi ora la domanda: cosa dobbiamo fare noi educatori cristiani? Credo che la domanda sia mal posta, infatti non è possibile aiutare le giovani generazioni se prima noi, io personalmente, non siamo passati positivamente attraverso questa crisi epocale e abbiamo trovato delle risposte per noi. Dobbiamo essere perfetti? No, non si richiede all'educatore la perfezione, ma l'autenticità; autentico è chi riesce a far corrispondere il suo volto esterno al suo cammino interno. Autenticità è quel tratto che dà autorevolezza a ciò che dico, che rende genuino il mio modo di pormi di fronte ai giovani, che mi fa essere vero e per ciò stesso credibile e degno di fiducia. Il giovane ha bisogno di trovarsi davanti innanzi tutto una persona autentica, che trasmette non parole o emozioni, ma esperienze realmente vissute. In fondo gli apostoli hanno prima vissuto, in tutta la loro fragilità e debolezza, il tempo della Passione e Risurrezione, poi, ricevuto lo Spirito, sono stati mandati a predicare, a fondare comunità. La loro autenticità veniva dalla vita cristiana che non solo proclamavano, ma vivevano.

            Bisogna dunque che noi ci lasciamo soprattutto educare, educare dal Signore a passare nelle crisi del nostro mondo e a fare, in questo mondo, esperienza della visita di Dio. E qui allora, a partire da quanto abbiamo detto, alcune domande per noi. Abbiamo fatto i conti con l'area della paternità? In che misura noi, chiamati a diventare padri di altri, abbiamo risolto i nostri problemi con l'autorità? Esiste in ognuno la tentazione di vivere un rapporto con Dio basato sull'utilità e non sulla sua verità, cioè si ragiona più o meno così: 'Mi piace questa esperienza di fede, perché qui mi sento bene, perché qui ho provato emozioni nuove'. Tradotto in termini pratici questa è la religione funzionale, la religione materna, la fede del bisogno. Fare i conti con la paternità significa riuscire a chiedersi: fino a che punto io accetto che Dio sia altro da me? Fino a che punto accetto di dover ancora crescere nel mio rapporto con Dio? Godin dice che una autentica esperienza di Dio accetta che lui si riveli anche in modo diverso da come io me lo sarei aspettato, che lui mi deluda e mi sorprenda un po', allora ho veramente incontrato Dio.

            Il secondo confronto potrebbe essere sui valori: i valori che ho scelto sono veramente quelli di Cristo o sono degli pseudo-valori, magari molto alla moda? I valori cristiani non sono mai facilmente condivisibili, creano sempre un certo disturbo nella mia vita, ma sono i soli che realmente mi riempiono di gioia. Anche noi viviamo in un clima di soggettivismo, di individualismo, di relativismo etico, di narcisismo, e anche noi possiamo arrivare a distorcere ciò che fonda la nostra identità. Una domanda intorno ai valori può aiutarci a vedere se anche noi viviamo una oggettività o siamo in clima di un pensiero debole. Per farmi capire, ci sono parole che oggi vanno molto di moda, anche tra i cristiani, ma che non necessariamente sono orientamenti cristiani, pensiamo per esempio a: solidarietà, partecipazione, accoglienza, libertà, condivisione, pace ... molto belle, forse sono presenti anche nella nostra vita, ma forse non bastano per essere cristiani. I valori cristiani sono molto più esigenti, ci toccano in profondità ed esigono una presa di posizione nella nostra vita, si pensi per esempio a: castità, obbedienza, sequela di Cristo, mitezza, amore al nemico, povertà etc. Tutti questi provocano qualcosa in noi, toccano le sfere profonde del nostro essere, fanno luce dentro di noi, o meglio, separano le tenebre dalla luce. Ecco allora, è importante che un educatore cristiano, per essere efficace, si confronti soprattutto con l'oggettività di questi valori.

            L'autenticità dell'educatore è dunque data dal fatto che egli viva nella propria vita una vera esperienza di Dio (abbia cioè fatto i conti con l'area della paternità) e una oggettività di valori (tenda cioè verso degli obiettivi autenticamente cristiani). Ma non basta. Occorre che egli abbia una solida identità personale, a livello umano-cristiano, è questo un terzo confronto. L'identità può essere definita come un senso di sé realistico e stabilmente positivo. Essa è costituita dai valori che uno persegue (il cosiddetto io-ideale) e dalle proprie dotazioni e limiti (il cosiddetto io-attuale). L'identità di una persona è data quindi da questi due poli: da una parte le mete ideali e dall'altra ciò che uno è. Ora, ognuno è chiamato a conoscersi in questo, questi due poli costituiscono come due piedi sui quali poggiare la propria esistenza e il proprio lavoro di educatore. Essi in sintesi corrispondono a due domande: Verso dove sto andando? (e dall'altra parte) Chi sono io di fronte alla strada che ho scelto? Se sulla prima domanda abbiamo già riflettuto parlando dei valori (dove l'identità cristiana è fatta dai valori cristiani), alla seconda rispondiamo dicendo che nelle diverse situazioni della vita uno si mette alla prova e impara a vedere di che pasta è fatto. La maturità vuole che riusciamo a vederci per ciò che veramente siamo, con i nostri limiti e con i nostri doni, accettando quelle parti di noi che oggettivamente rallentano il nostro cammino verso Dio, accettando tutto il nostro essere, il corpo, il mondo dei nostri bisogni, delle nostre relazioni, dei nostri desideri, dei nostri pensieri. Solo così si consolida l'identità personale e si creano le premesse per una autenticità educativa.



            5. Sulla via di Emmaus: indicazioni pedagogiche

              Dall'episodio dei discepoli di Emmaus, raccontatoci da Luca, è possibile cogliere molte analogie con l'attuale situazione che come educatori dobbiamo affrontare. Anche loro erano in 'crisi di identità', nel senso che avevano perso il punto di riferimento, era sfumato il loro rapporto con un Padre che Gesù aveva presentato loro e anche i valori della loro vita, i valori che Gesù aveva presentato loro rischiavano di indebolirsi ('Credevamo che fosse lui ...'). C'è nell'inizio del racconto un senso di fallimento, di tristezza, di passività e un desiderio di cambiare vita, di trovare qualcosa di più concreto del Vangelo, che assomiglia molto alla situazione di molti giovani oggi. I punti che indicherò di seguito costituiscono 4 tappe pedagogiche imprescindibili nel nostro lavoro.

5.1 - Proporre i valori del Vangelo ...

  Mai come oggi c'è bisogno di un senso: sappiamo fare tutto (la tecnica), conosciamo tutto (l'informazione), comunichiamo con tutti (i mass-media), le ideologie hanno perso la loro presa, ma abbiamo perso la direzionalità del nostro essere, dobbiamo riscoprire la verità di tutto. E' indispensabile che il compito fondamentale dell'educatore sia quello annunciare la verità. L'educatore è un po' come la guida alpina, essa deve conoscere bene la strada per poi indicarla ad altri; il nostro mondo super-attrezzato ha riconosciuto la vanità delle ideologie, ma no sa trovare nuove strade, è come confuso e sperduto. L'educatore deve indicare ai giovani la verità del loro essere, a livello umano e a livello religioso. Ma quale verità è più profonda di quella di Gesù Cristo, egli svela l'uomo a se stesso (GS 22). Capita molte volte, annunciando il vangelo, che la gente dica: 'Voi ci avete detto quello che da sempre aspettavamo, che era già in germe dentro il nostro cuore'. I valori cristiani annunciati hanno in se stessi una forza di attrazione, coinvolgono, affascinano (provate a spiegare a qualcuno la parabola del Figliol Prodigo, o raccontare la vita di S.Francesco). Oltre a ciò costituiscono un polo sul quale fondare la propria vita e fondare la propria identità: i giovani sentono che manca qualcosa alla loro vita, oltre alle tante proposte che ricevono, questo qualcosa che è il vangelo è capace di dare senso a tutto, di fare sintesi.

            Occorre che la proposta dei valori cristiano abbia però delle caratteristiche, per non cadere nei tanti fraintendimenti della comunicazione. Innanzi tutto deve essere graduale, non si può partire annunciando la Croce a un gruppo di persone che da tanti anni non va più in chiesa o a persone sofferenti per un lutto. Gesù stesso non ha fatto così con i suoi 12 (vedi l'itinerario evangelico di Luca). Poi la comunicazione dei valori deve essere chiara: di solito chi parla molto, dice molte cose magari belle, non viene ascoltato (anche se viene lodato). Bisogna che l'educatore abbia bene in mente cosa vuole annunciare, che lo abbia studiato e digerito bene, che non sia improvvisato, che sia proporzionato alla capacità dell'ascoltatore (la forza delle immagini e degli esempi). Ma soprattutto il messaggio ha presa sugli altri nella misura in cui è vissuto. In psicologia della comunicazione si è studiata la realtà dei cosiddetti 'doppi messaggi', cioè il dire una cosa, ma il viverne un'altra: il caso tipico è quello del genitore che dice al figlio di andare a messa, ma lui non ci va. Hanno trovato che questi doppi messaggi sono all'origine non solo di una maleducazione, ma anche di comportamenti a-sociali, cioè il bambino recepisce che quello che viene chiesto in fondo non è tanto vero e che, quando sarà diventato grande potrà fare di testa sua, si forma in lui la convinzione che barare, non è poi tanto grave.

            Ecco allora in sintesi: per formare dei giovani cristiani bisogna offrire loro dei poli oggettivi sui quali costruire la loro vita. Questi poli sono per noi i valori del Vangelo, essi hanno la forza di attrarre di per se stessi, ma devono anche essere annunciati in modo autentico. Qui mi permetto di fare uno schizzo, in negativo, di quanto ho detto. Dopo aver proposto, annunciato i valori, si può essere tentati di fermarsi qui, è un certo tipo di educatore che potremmo definire 'didattico'. Spesse volte, di fronte a una difficoltà che un giovane sperimenta, o a dei guai che combina, si sentono educatori che rispondono: 'Ma io glielo ho detto che non deve farlo'. E' una illusione frequente, una illusione didattica, per il fatto che glielo ho detto (magari tante, troppe volte), mi aspetto che lui lo metta in opera. Il clima culturale che abbiamo delineato non ci permette di pensare che basti 'dire' le cose perché l'altro le interiorizzi, anche se le diciamo molto bene. L'educazione è qualcosa di più ed io tempo che dietro a questa 'illusione didattica' si nasconda il nostro io pigro, che non vuole andare più in là nel lavoro educativo.

 5.2 - camminare con loro ...

  Tra l'annuncio del vangelo che Gesù aveva fatto e il momento di incontro coi due discepoli erano passati degli eventi, tra cui l'evento terribile della passione e morte stessa di Gesù. Ecco allora che anche per i discepoli viene il tempo della esperienza, non basta che conoscano il vangelo, bisogna sperimentarlo, metterlo in pratica. Da questa esperienza possono emergere aspetti positivi e negativi, vittorie e fallimenti. Bisogna che in un tempo di autonomia e responsabilità come il nostro noi permettiamo ai giovani di fare la loro esperienza, dopo che abbiamo loro annunciato il Vangelo. L'educatore non è un poliziotto che va a questionare ogni momento di vita del ragazzo, ma si fida di lui, anche quando questo dovesse talvolta un po' barare. Ma in queste esperienze bisogna che i ragazzi non siano lasciati soli, bisogna parlare con loro e farli parlare. E' quello che fa Gesù con i due di Emmaus: 'Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro', egli mette la sua persona (non solo una parte di sé) in relazione con la loro, accetta di accompagnarli anche lontano da Gerusalemme, fa loro domande empatiche che stimolano il dialogo.

            Ecco allora la seconda tappa, imprescindibile oggi, del cammino educativo. Bisogna ascoltare molto, non solo 'oggi' ma nel tempo ('camminava con loro'), bisogna saper attendere con pazienza che il giovane che abbiamo di fronte si riveli, si manifesti. In psicologia si sa come talvolta c'è bisogno di molto tempo per trovare quella fiducia in se stessi e rivelarsi ad un altro, specie per le persone più fragili. E' un processo che non si può forzare, pena il fatto di fare dei danni irreparabili nella psiche delle persone, bisogna che venga spontaneo. L'educatore deve riuscire a ricevere le confidenze umane e di fede della persona educata con naturalezza, cercando di cogliere empaticamente quello che sente, accettando i suoi ritmi, magari ponendo qualche domanda stimolo che invita al dialogo, ma che non forza al dialogo, né vi rinuncia.

            Inutile dire che per fare questo ci vogliono alcune caratteristiche importanti. Ci vuole cuore, cioè, in una parola: 'Io sono qui per te, tu sei importante per me, la tua crescita e il tuo vero bene mi interessano'. L'educatore che avesse interesse solo per la propria riuscita personale, o mille altri impegni da portare a termine prima e dopo l'incontro, o facesse entrare nell'incontro le sue preoccupazioni, le sue antipatie e simpatie etc. avrebbe già fallito prima ancora di cominciare. Un educatore deve poter dare al ragazzo la sensazione netta di poter dipendere, di potersi affidare a lui. Ciò comporta uno spirito di pazienza e di attesa: bisogna poter mettere da parte eventuali nostri giudizi, mappe di lettura delle situazioni, che spesso ci assalgono prima ancora di ascoltare quello che l'altro ha da dirci. Bisogna essere in grado di non scandalizzarci: Gesù non si scandalizza di fronte ai più grossi peccatori quando si aprono con lui. Ancora, bisogna avere la capacità di essere passivi: riuscire a metterci da parte per lasciare al ragazzo la palla, lasciare a lui condurre il dialogo, favorirlo in questo, mettere da parte le nostre iniziative, il nostro efficientismo che ci dice che dobbiamo sempre fare qualcosa.

            A conclusione di questa tappa, mi permetto di fare anche qui uno schizzo in negativo. Ci sono educatori che arrivano fino a qui, ma non vanno ai passi successivi, potremmo definirlo l'educatore mamma. C'è la tendenza talvolta, in buona fede, quando un ragazzo ci fa una confidenza di metterci sempre e comunque dalla sua parte, di sposare le sue difficoltà, di appoggiarlo nelle sue rivendicazione, insomma di fare di tutto perché se ne vada via da noi in pace e contento. Questo atteggiamento in sé positivo, non è valido per tutte le stagioni: possono esserci persone che, magari dopo un fallimento di qualche tipo, hanno molto bisogno di sostegno e di affetto. Ma sarebbe un errore pensare che una volta dato questo appoggio il nostro compito sia finito, è una specie di 'illusione materna' dell'educatore, molto vicina alle esigenze che i giovani di oggi hanno di trovare un Dio comprensivo e accogliente.

  5.3 - rapportare alla verità del Vangelo ...

  Stranamente Gesù, che aveva accettato di camminare con i due di Emmaus, diventa a questo punto un personaggio scomodo: di fronte allo scoraggiamento, alla mancanza di speranza dei due pellegrini, egli non pone solo la sua presenza consolante, ma la sua critica precisa. Sembrano sfumare qui tutte quelle immagini di Gesù buon pastore, che è con noi tutti i giorni, che fa del bene a tutti ... Meglio potremmo dire che Gesù è presente, al loro cammino, ma è assente dalle loro conclusioni. Egli confronta il loro pessimismo criticando la disposizione del cuore che non crede alle parole dei profeti. Che cosa vuol dire questo per noi educatori? Mi pare che alla passività della tappa precedente dobbiamo poter avvicinare l'attività di questo momento educativo: aiutare i ragazzi a confrontarsi, senza scoraggiarsi, con i valori del Vangelo.

            Concretamente ciò significa aiutare a leggere la propria vita, la vita che loro stessi ci hanno messo nelle mani (vedi tappa precedente) alla luce della Parola di Dio. Viene il momento in cui l'adolescente ci racconta tutta la sua desolazione perché gli è andata male con la ragazzina, si sente un fallito, lo facciamo sfogare, lo rimettiamo un po' apposto, diventiamo i suoi confidenti, è allora il momento di una proposta più alta: non è la fine di tutto, una strada è ancora aperta per te, per Dio non sei un fallito, ma uno sul quale ha riposto la sua fiducia. O di fronte al giovane che si sente tentato, incapace di rispondere alle esigenze del Vangelo, dopo che con serenità ci ha detto le sue fatiche, non è il caso di ricordare che la sequela di Gesù non sempre è esaltante, che altri come lui hanno faticato per arrivare nella terra promessa. Talvolta è utile 'la scrollatina', che il giovane a questo punto del cammino accetterà, soprattutto se ciò che muove l'educatore è l'affetto sincero e la passione per la verità. Anche l'esigenza dell'impegno, la coerenza, il senso di donazione possono essere richiesti qui, mandando il messaggio, tipico del Vangelo, che è 'dando che si riceve, donando che si ritrova se stessi'. Insomma questa tappa mette l'educatore in una posizione di attività, egli deve rimanere vicino al giovane, ma con senso critico, essere capace di stimolare un progresso senza scoraggiare.

            Anche qui mi permetto uno schizzo in negativo di alcuni atteggiamenti educativi errati. Ci sono educatori che si fermano a questa tappa, o peggio la assolutizzano fino ad esasperare la relazione educativa. E' un po' l'educazione vecchia maniera, quella che normalmente chiamiamo autoritaria. Ci sono educatori estremamente rigorosi, che non ammettono deviazioni o debolezze di sorta, che hanno sempre tutto chiaro e che pensano che 'Se solo tu fossi obbediente a me queste cose non ti accadrebbero, se tu avessi osservato tutto quello che ti avevo detto a quest'ora non ti troveresti dove sei'. Mi pare che, per il tempo in cui stiamo vivendo, dove la società ha perso la sua presa verticistica sugli individui, sia fuori luogo fermarsi a queste posizioni, dove non si cerca di mettere il giovane in un rapporto a presa diretta con la verità, ma si ritiene di essere i depositari della verità, e quindi si pretende una sudditanza assoluta. Questo tipo di relazione educativa, come si intuisce, porta all'infantilismo: se il giovane accetta un tipo di rapporto di questo genere potrà anche arrivare a vivere i valori, ma spesso per paura. Oppure, una volta che gli viene a mancare la 'direttiva paterna' va in crisi, si sente insicuro, o ha bisogno di un altro 'padre' che gli dica quello che deve fare. Ecco, credo che in questa illusione paterna a volte ci si cade, rinunciando così a formare alla responsabilità, ma obbligando a un dovere magari poco sentito.

  5.4 - scomparire.

  E' interessante notare come sul più bello Gesù scompare. Perché? Egli compie un gesto familiare, spezza il pane, lo aveva fatto tante volte quando era con loro, lo aveva fatto all'ultima Cena in un modo nuovo e misterioso. I due discepoli 'erano incapaci di riconoscerlo', lungo tutto il cammino avevano confidato a Gesù le loro paure, il loro avvilimento, lo avevano ascoltato, si erano lasciti mettere in crisi da lui, avevano sentito la gioia della sua compagnia, ma non lo avevano ancora riconosciuto. Erano cadute molte barriere, molti veli erano stati tolti nella loro vita, ne mancava ancora uno: riconoscere Gesù come il vivente. Sì, era tutto chiaro, per loro, ma il loro cuore doveva ancora fare il salto della fede, non era ancora arrivato a vedere la differenza tra una bella storia e una realtà viva e operante nella vita. L'obiettivo di ogni educatore è quello di accompagnare un ragazzo dalla dipendenza da lui alla indipendenza, dalla paura alla libertà, dal nido all'aria aperta. Un uomo è maturo quando accetta di vivere per dei valori che ha scelto, liberamente e con gioia, senza che altri gli indichino la strada o lo obblighino. Ecco perché Gesù scompare, ha finito il suo compito di educatore, ha messo i due in grado di comprendere che egli non era una bella favola, ma egli è vivo, presente nella loro vita e per lui vale la pena di giocarsi e di continuare a vivere ('In fretta andarono a Gerusalemme').

            Questo è il termine e l'obiettivo finale del processo educativo: aiutare i giovani a vivere i valori cristiani (in sé profondamente umani) e a farlo con libertà e con gioia, non per paura, non per una ricompensa, 'non perché lo fa il mio educatore e allora deve essere giusto', ma perché ho capito che questi sono la risposta al mio desiderio più profondo di essere felice, di crescere, di realizzare tutto ciò che sono. Il Vangelo è allora una reale risposta alle esigenze scritte nel cuore dell'uomo, egli che è fatto a immagine e somiglianza di Dio, che è creato per conoscerlo ed amarlo non troverà pace se non in lui, come dice Agostino: 'Ci hai fatti per te o Signore e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te'.

            Uno schizzo in negativo. Vi sono educatori un po' romantici, che si illudono che certe cose vanno da sé, che certi stati di vita dei ragazzi loro li hanno capiti, che in fondo non serve preoccuparsi tanto, che poi tutti i nodi vengono al pettine e che il Signore penserà lui a far crescere le persone, basta pregare un po', ricordarli al Signore, poi lui fa tutto. Affermazioni inattaccabili dal punto di vista teologico, non così da quello pedagogico: mi pare infatti che rinunciare al proprio compito di educatore, rinunciare a compiere il cammino che abbiamo delineato sia un abbandonare il campo prima del tempo, uno 'scomparire', ma non nel senso dei due di Emmaus. C'è infatti il rischio di mettersi in pensione troppo presto, ritenendo che si possono dormire sonni tranquilli, che tanto ai nostri ragazzi ci pensa il Signore o, al più, l'angelo custode. Questa illusione spiritualista non può che spingere i giovani a rimanere con le proprie domande e poi darsi delle risposte proprie, non sempre in linea con il vangelo. E' vero che bisogna scomparire, guai se volessimo tenere legati i ragazzi a noi stessi e non aprirli alla proprio progetto di vita, ma è altrettanto vero che bisogna scomparire quando essi sanno stare in piedi da soli, sanno leggere da soli la propria vita, umana e cristiana.


            Conclusioni

  Le presenti riflessioni non sono il toccasana a una situazione complessa come quella che stiamo vivendo, ma sono una pista, una proposta educativa, che viene soprattutto dalla mia piccola esperienza. L'idea che riassume tutto, forse, è il fatto che l'educazione, come la vita, è un cammino, fatto di conoscenza e di esperienza; cioè noi diventiamo degli educatori efficaci se non ci fermiamo mai, ma ci sentiamo sempre interpellati dai ragazzi che abbiamo davanti e dal Signore, se manteniamo sempre viva in noi una sana tensione verso la verità e verso il bene. Per questo, queste quattro tappe devono essere prese insieme perchè vi è sempre il rischio di fermarsi da qualche parte o di assolutizzare un momento educativo. Educare, invece, significa non accontentarsi mai, giocare la partita della vita fino in fondo, con coloro che educhiamo, senza stancarci mai di farci nuove domande. Diceva un educatore: nel momento in cui smettiamo di domandarci come bisogna educare non siamo più educatori.


     [1] A titolo riassuntivo si veda, Garelli F., 'Quasi sospesi tra disagi e valori' in Jesus 1/1995.

     [2] Vedi Dall'Osto A., 'Ancora cristiani?', Testimoni 19/1993.

     [3] Vergote A., Psicologia religiosa, Borla.

     [4] In altro modo, come fa Godin A. (Psicologia delle esperienze religiose, Queriniana), si potrebbe parlare di religione funzionale e non-funzionale: cioè una religione che mi serve, che è in funzione delle mie domande, o una religione che è al di là di me (sono queste le religioni cosiddette 'rivelate').

     [5] Vanzan P. ('Crisi della modernità e ambiguo ritorno al sacro', Civiltà Cattolica, 4/1995) fa notare come il cosiddetto 'ritorno al sacro' della società contemporanea abbia qualche ambiguità: tra ateismo e religioni tradizionali (dogmatiche) vi è una tendenza a scegliere i nuovi culti, le sette, come meno strutturati ideologicamente e più appaganti esperienzialmente.

     [6] Si veda Margaritti A., 'Il disagio della complessità', La rivista del clero italiano 6/1993.

     [7] L'autore, psicologo francese, è Anatrella T.

     [8] Si veda, ad esempio, l'articolo su Avvenire del 25.11.1995 intitolato: 'Soli nella cameretta, ma con la tv' e anche 'Un figlio? Un affare da sette milioni all'anno'.

     [9] Vaccarini I., 'I valori giovanili nelle società occidentali', Aggiornamenti Sociali 9-10/1984.

     [10] Manenti A.

     [11] Lasch C., La cultura del narcisismo, Bompiani.

     [12] Vedi Vaccarini I., 'Alcuni indicatori di crisi nella società occidentale', Aggiornamenti Sociali 6/1995.

     [13] Si è parlato a tal proposito di emotivismo.

     [14] Vedi Mc Intyre, Oltre la virtù, Feltrinelli, 1988.

     [15] Si veda l'articolo citato.

     [16] La tendenza antropologica del nostro tempo ha consolidato anche tutta una serie di valori umani (i valori della solidarietà e del rispetto) sui quali oggi si discute meno. Negli stati e nelle religioni tradizionali si sente sempre più il desiderio di dialogare e di operare concordemente per la pace e per la dignità della vita umana. E' vero che forse manca ancora molta strada, e si è ancora lontani da una vera coscientizzazione e realizzazione di questi valori, ma si stanno notando delle aperture.

     [17] Vedi Galimberti U., 'L'uomo nell'età della tecnica' in Credereoggi (Ed.Messaggero) n.75.