Liturgia
La luce nella liturgia
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- Creato: 29 Marzo 2014
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di GIULIANO ZANCHI
Nella liturgia cristiana l'esperienza della luce riflette la vita pasquale della comunità. L’uso della luce è un modo per capire la qualità con cui una comunità vive e testimonia la risurrezione del Signore. La matrice di ogni illuminazione per la liturgia cristiana è perciò la veglia pasquale. Ogni progetto luministico dovrebbe insediarsi idealmente nel clima di quel momento.
Per svolgere questo tema, vorrei partire proprio da qui. Non mi sembra utile farlo attraverso una didascalia della simbolica della luce. Piuttosto vorrei insistere, ed è un secondo aspetto dell’idea generale, sulla questione della luce come fenomeno “transizionale”. L’esp erienza della luce in liturgia opera effetti transizionali. Effetti: vale a dire modificazioni reali della vita interiore; transizionali, cioè modificazioni che hanno la natura del passaggio. La presenza della luce nella liturgia ha il potere di generare reali esperienze di passaggio nella coscienza che crede. A questo potere della luce la liturgia affida l’ambizione propria della vita cristiana che è il passaggio nella vita della Pasqua. Uno dei più importanti eventi rituali della liturgia cristiana si chiama sintomaticamente lucernario. Esso inizia con un gesto che potremmo definire di natura primordiale. La fiamma crepitante di una candela, distillata dal furore caotico del fuoco, entra lentamente nell’oscurità di una chiesa buia. Dove regnava il nulla, l’indistinto, l’inesistente, grazie a quella minuscola sorgente, grazie a quell’esitante e fragile punto di emanazione, riappare un che di esistente, riaffiorano presenze, riemergono forme di un mondo abitabile. Nel suo carattere minimale l’effetto prodotto da quel segno è di una potenza formativa assoluta. Icona del Cristo risorto, esso è il vero primario corpo illuminante della liturgia. Nessun artificio luministico potrà mai compiere il medesimo silenzioso prodigio. In esso si riattiva l’esp erienza di una differenza originaria. Esperienza comune del ritrovarsi al mondo ritrovando un mondo. L’insieme di percezioni stimolate dal semplice apparire di una fiamma nel buio viene generato anche in circostanze di vita meno ritualizzate, certamente non predisposte, non programmate, ma che ci aiutano a sondare la potenza simbolica del fenomeno. In certe tarde serate estive, già avvolte dall’oscurità che annuncia la notte imminente, capita che gli effetti di un temporale in corso interrompano la distribuzione dell’energia elettrica. La casa piomba improvvisamente nel buio. Qualche istante di incerta attesa. Poi subito si rovista fra i cassetti alla ricerca di una candela, un fiammifero, un accendino buttato in un angolo. Si accende dunque una piccola fiamma e quello che si prova è davvero interessante. Basta la fiammella di un accendino, di una candela messa sul tavolo, a diffondere una generale euforia, una festosità pacata ma intensa, sproporzionata rispetto alla portata dell’evento, ma nel contempo destinata a farsi carico di un timore arcaico e di un sollievo inconscio, a esprimere il senso di una rassicurazione originaria, a respingere lo scampato pericolo di un'antica paura. Si sa perfettamente che non c’è nulla da temere, che si tratta solo di un problema tecnico, che come sempre tutto tornerà a posto. Tuttavia l’accensione provvisoria di una fiamma ha generato indubitabili automatiche sensazioni di sollievo. La rassicurazione indotta è peraltro non definitiva, non risolutiva, apre al contrario lo spazio di una fiduciosa attesa, il tempo di un’attesa sopportabile, nella quale l’oscurità ancora incombente non annuncia alcun sopravvento, nel quale la piccola fiamma che irrora l’ambiente lascia intendere il ritorno della luce piena, scorta amichevolmente verso il momento nel quale ogni cosa sarà di nuovo illuminata. Si capisce subito quanto sia lontano da questo compito così sofisticato una luce totale puramente finalizzata alla visibilità generale dell’ambiente e al servizio della lettura. L’ingenuo clima di festosità che normalmente si insegue nelle illuminazioni solenni delle nostre chiese ha davvero qualcosa di intimamente inautentico, insinua un che di stupefacente, gronda di un’euforia del tutto artificiale. Sotto una luce così ci si sente scovati più che invitati, portati allo scoperto più che accolti, individuati più che riconosciuti. Ci si rinchiude istintivamente in una posizione plastificata. Quando si può, ci si defila. Certamente si evita di stare al centro dell’azione. Molti difatti, come si sa, cercano ristoro verso margini più rassicuranti. La luce piena inibisce la presenza, irrigidisce i corpi, oltretutto disorienta lo sguardo e disperde lo spirito. Eppure si continua a identificare la presenza del risorto con lo sfolgorio degli stucchi. L’esibizionismo che anima segretamente questo atteggiamento è anche cristianamente poco consapevole. Il mistero della Pasqua è difatti mistero irrimediabilmente c h i a ro s c u r a l e . La gloria del Dio cristiano non si nasconde nella notte, ma nemmeno acceca in un incolore mezzogiorno. Abbiamo conosciuto mistiche in cui la luce e il buio erano di fatto un referente speculare e coincidente, l’idea di un Dio che si annuncia in una luce così accecante da essere nera come il buio. Mistiche che hanno camminato sul ciglio di pericolosi precipizi. Il cristiano invece abita lo spazio della penombra. Si lascia avvolgere da una luce che non lo sovrasta, che non lo soverchia, che non lo sorpassa, ma che lo concentra, lo unifica, lo protegge. Nella penombra le vicinanze si saldano con meno remore, l’assemblea trova unità con maggiore naturalezza, il corpo a corpo non ha più nulla di insidioso. Stare nel centro dove tutti sono chiamati non è più essere costretti a una esibizione a cui tutti sono esposti. Dunque è l’assemblea che deve essere illuminata e con la sapienza della penombra. Se una luce deve sopravanzare, se un punto focale deve acquisire risalto, questo è solo l’altare. L’a l t a re nella liturgia cristiana è la forma per eccellenza della presenza. Di un esserci che governa la gravitazione di ogni cosa. La luce più forte deve piombare su quel punto. Persino l’ambone a mio modo di vedere, respingendo tiepide allegorie sulla parola come luce, se restasse in una discreta penombra, lasciando relativamente indistinguibile il volto del lettore, lascerebbe alla voce lo spiraglio di una potenza timbrica che noi abbiamo tutto l’i n t e re s -se a recuperare. Ma l’a l t a re ha bisogno di luce piena, zenitale, chirurgica. L’altare è il punto in cui la relazione con il Signore si dà nel realismo più incandescente possibile nella storia degli umani. In quel punto la chiarezza sull’immagine cristiana di Dio è totale, precisamente nel rimemorare il morire e il risorgere, il sacrificio e il dono, il prendere e il condividere. Quel che Gesù dice di sé, l’a l t a re lo deve in qualche maniera attuare: «Quando sarò innalzato da terra attirerò tutti a me». La luce, in qualsiasi forma essa sia attinta, ha il compito di rivestire l’altare di questo magnetismo. Fossimo capaci di una tale sapienza, ci risparmieremmo le stucchevoli puntate della diatriba sul modo migliore di onorare la centralità dell’altare. Improvvisamente l’altare tornerebbe a essere pura presenza. Il suo modo di attrarre sarebbe congiunto alla sua capacità di ingiungere una distanza. Batterebbe immediatamente la metrica dello spazio liturgico. Sarebbe in grado di attrarre approssimazioni e inibire invasioni. Sarebbe infallibilmente la fonte e il culmine di ogni movimento. Ci è stato sufficientemente insegnato dalle discipline estetiche e dalle scienze neurologiche la complessa dinamica che rende l’apparato dei nostri cinque sensi una rete ricca di intersezioni. Ognuno di essi vive dello scarto e dell’analogia con ciascuno degli altri. Si dice appunto sinestesia, che grosso modo significa percepire insieme, secondo nessi analogici talvolta sfuggenti, ma anche per via di temporanee esclusioni. L’affidamento pressoché esclusivo che la nostra tradizione, culturale prima ancora che teologica, ha per secoli concesso alla visione, è un fenomeno noto. Non c’è bisogno di esporne le ragioni e gli effetti. Basta la nostra storia liturgica a ricordarci che ci siamo abituati a concentrare ogni atto di assimilazione del mistero nel gesto del vedere. Da ultimo abbiamo anche persino trasformato l’ascolto in lettura. Nelle nostre chiese la parola di Dio di fatto la si legge, non la si ascolta. L’incremento di comprensione letterale del testo in questo caso non paga nemmeno minimamente la perdita delle vive risonanze offerte dall’introiezione inumaginifica della voce. Non c’è più atto di parola. Non ci sono più nemmeno le condizioni di una assimilazione proprio corporea degli atti in gioco. Come quando chiudiamo gli occhi per gustare meglio un sapore, per baciare qualcuno, per sentire in profondità della musica. La vista in certi casi va sospesa. Essa difatti contatta solo uno strato dell’esperienza. Ci sono momenti in cui bisogna disattivarne la prepotenza onnivora perché gli altri sensi abbordino la densità di senso dell’esp erienza ad altri livelli percettivi. Così difatti lo spirito apre i suoi sentieri di scorrimento attraverso il corpo animato dell’uomo. La luce deve perciò essere alleata di queste virtuose sinestesie. Illuminare la liturgia cristiana è dunque un compito che interseca sfide pastorali decisamente essenziali. Chiama in causa questioni teologiche di primaria grandezza. In gioco c’è proprio la fede nel risorto e il destino spirituale della vita umana. Ma l’onda di riverberi che l’evento pasquale determina, si spinge a illuminare nuovamente il mondo stesso dell’uomo, la sua esperienza della natura, i sentieri della sua cultura. L’eredità della Pentecoste è un mondo abitato dalla grazia. Le ferite di un’alleanza mantenuta a caro prezzo sono tutte impresse nel corpo umano di Gesù. Per sempre. La storia riceve però in cambio il respiro irrevocabile del suo Spirito. La grazia con cui il Dio di Gesù compie ogni cosa è depositata in ogni angolo della terra, ravviva l’eco remota della creazione, rinnova la trepidazione antica con cui Dio mette l’uomo nel mondo come in casa sua, alimenta l’attesa della ricomposizione ultima di ogni cosa. La luce del risorto è del tutto nuova creazione. La storia riappare luogo di un incontro felice, non più l’esilio temporaneo di un rapporto difficile. Il mondo viene restituito come l’incontro armonioso di ogni grandezza creata, in cui la figura corporea dell’essere umano e la scena smisurata del cosmo corrono sulla scala di un medesimo ordine di cui il Cristo è l’unità di misura, il principio originario, la chiave di volta. La liturgia cristiana ha per secoli cantato questa ritrovata certezza, anche nell’architettura edificata per ospitarla. Le chiese sono state spesso costruite e descritte come una metrica del corpo umano ma anche come simbolo dell’ordine naturale. Un microcosmo espanso e un macrocosmo condensato. Cristo principio di questa riconciliazione dell’uomo col mondo. La gestione luministica di questi accordi spirituali è stata a tratti persino audace, ardita, sublime. L’episodio più noto di questa teologia della luce trasformata in architettura della grazia è quello legato all’invenzione della vetrata. Esso apriva lo spazio stesso del’'illuminazione. Ma il rigore luministico di epoche precedenti ha toccato vette non meno considerevoli. L’intento era comunque sempre quello. Avvolgere la creazione nella luce di un rinnovato stupore.
© Osservatore Romano - 30 marzo 2014