Chiesa

Perché sono ancora nella Chiesa

francesco-sorregge-lateranodi Joseph Ratzinger, 1970

Nelle considerazioni precedenti è già implicita la risposta all'interrogativo che ci siamo posto all'inizio: io sono nella chiesa perché credo che, oggi come prima ed indipendentemente da noi, dietro alla «nostra chiesa» vive la «sua chiesa». Io sono ancora nella chiesa perché, nonostante tutto, credo che essa non è assolutamente nostra, ma 'sua'.

In termini molto concreti: è la chiesa che, nonostante tutte le debolezze umane in essa esistenti, ci dà Gesù Cristo; soltanto per mezzo suo io posso ora riceverlo come una realtà viva e potente, che mi arricchisce e insieme mi impone dei doveri.
Henri de Lubac ha espresso così questa verità: «Coloro che accettano ancora Gesù pur rifiutando la chiesa, non sanno che in ultima analisi è da questa che essi ricevono Cristo?... Gesù è per noi una persona viva; eppure senza la continuità visibile della sua chiesa, sotto quale cumulo di sabbia non sarebbero stati sepolti non soltanto il suo nome e il suo ricordo, ma anche la sua influenza vitale, l'efficacia del vangelo e della fede nella sua divina persona?... 'Senza la chiesa Cristo dovrebbe darsi alla fuga, disgregarsi, sparire'. E che cosa sarebbe l'umanità se le si togliesse Cristo?»[1]

A fondamento di qualsiasi altra considerazione dobbiamo porre questa verità molto elementare: qualunque sia o qualunque sia stato il grado di infedeltà della chiesa, per quanto sia vero che essa abbia continuamente bisogno di misurarsi e confrontarsi con Cristo, fra Gesù e la chiesa non c'è alcun contrasto decisivo.

È per mezzo della chiesa che egli, superando le distanze della storia, ci parla oggi direttamente e rimane in mezzo a noi come nostro maestro e Signore, come fratello che ci rende fratelli. Donando a noi Cristo Gesù, rendendolo vivo e presente in mezzo a noi, rigenerandolo continuamente nella fede e nella preghiera degli uomini, la chiesa dà all'umanità una luce, un sostegno ed un conforto tali, che senza di essi il mondo non sarebbe più concepibile. Chi desidera la presenza di Cristo in mezzo all'umanità, la può trovare soltanto nella chiesa, mai contro di essa.

Da tutto ciò segue logicamente l'altro motivo: io sono nella chiesa per le stesse ragioni per cui sono cristiano. Non si può credere da soli. La fede è possibile soltanto in comunione con altri credenti. Per sua stessa natura essa è forza che unisce. Il suo vero modello è la realtà della Pentecoste, il miracolo della comprensione che si instaura fra uomini di provenienza e di storia diversa. Questa fede o è ecclesiale o non è alcunché.

Inoltre come non si può credere da soli, ma soltanto in comunione con altri, così non si può aver la fede per propria iniziativa o invenzione, ma soltanto se c'è qualcuno che mi comunica questa capacità, la quale non è in mio potere, ma mi precede e trascende. Una fede che fosse frutto della mia invenzione sarebbe una contraddizione in termini, perché mi potrebbe dire e garantire soltanto ciò che io già sono e so, ma non sarebbe mai in grado di superare i limiti del mio io.
Perciò una chiesa, una comunità che si facesse da sé, che fosse fondata soltanto sulla propria grazia, sarebbe una contraddizione in termini. La fede esige una comunità che abbia autorità, che sia superiore a me, e non una mia creazione, lo strumento e la realizzazione dei miei propri desideri.

Tutto ciò si può formulare anche da un punto di vista più storico: o questo Gesù fu un essere superiore all'uomo, dotato di un'autorità non frutto del proprio arbitrio, ma capace di resistere e di tramandarsi attraverso i secoli, oppure egli non ebbe tale autorità, né poté perciò lasciarla in eredità agli altri. In questo caso io sarei in balia delle mie ricostruzioni mentali ed egli non sarebbe superiore a nessun'altra grande figura di fondatore, di cui col pensiero si rinnova la presenza nel proprio tempo. Se invece Gesù è qualcosa di più, egli non dipende dalle mie rielaborazioni mentali, ma la sua autorità vale ancor oggi dopo tanti secoli.

Ma ritorniamo al pensiero precedente secondo cui si può essere cristiani soltanto all'interno della chiesa, non fuori o accanto a essa. Abbiamo il coraggio di porci con tutta obiettività la domanda piuttosto patetica: che cosa sarebbe il mondo senza Cristo? Senza un Dio che parli e si manifesti, che conosca l'uomo e si lascia da lui conoscere? La risposta ci viene chiara e inequivocabile da coloro che con esasperata tenacia cercano effettivamente di costruire un simile mondo. I loro sforzi si riducono a un esperimento assurdo, senza prospettive, né criteri d'azione.
Per quanto nella sua lunga storia il cristianesimo abbia concretamente mancato (e lo ha fatto in maniera sempre sconcertante), il messaggio in esso contenuto non ha mai cessato di far sentire i criteri della giustizia e della carità, spesso contro la chiesa stessa e tuttavia ma senza la forza di ciò che in essa è depositato.

In altri termini: io rimango nella chiesa perché credo che la fede, realizzabile soltanto in essa e comunque mai contro di essa, sia una vera necessità per l'uomo e per il mondo.Questo vive della fede anche là dove non la condivide. Infatti dove non c'è più Dio – e un Dio che tace non è Dio – non c'è più neppure la verità che è prima del mondo e dell'uomo. Ma in un mondo senza verità non si può vivere a lungo. Là dove si rinuncia alla verità, si continua a vivere per il fatto che essa non si è ancora spenta realmente, come se si spegnesse il sole, la sua luce giungerebbe ancora per qualche tempo, nascondendo agli uomini la notte glaciale in realtà già incominciata.

Lo stesso pensiero può essere espresso in un'altra forma: io rimango nella chiesa perché soltanto la fede della chiesa redime l'uomo. Può sembrare una frase molto tradizionale, dogmatica e irreale, ma è invece del tutto obiettiva e realistica. Nel nostro mondo pieno di inibizioni e di frustrazioni il desiderio di redenzione è riapparso in tutta la sua primordiale veemenza.

Gli sforzi di Freud e di C. G. Jung non sono altro che tentativi di dare una redenzione a gente che si sente irredente. Partendo da altre premesse, Marcuse, Adorno, Habermas continuano, alla loro maniera, a cercare e ad annunciare la redenzione. Quanto più l'uomo diventa libero, illuminato e potente, tanto più il desiderio di redenzione lo tormenta, tanto più si ritrova misero e schiavo.
Marx, Freud, Marcuse hanno tutti in comune la ricerca della redenzione, l'aspirazione verso un mondo senza dolori, malattie e miserie. Il grande ideale della nostra generazione è una società libera dalla tirannia, dal dolore e dall'ingiustizia; a questo mirano le turbolenti esplosioni dei giovani, mentre cresce il risentimento dei vecchi nel vedere che la tirannia, l'ingiustizia e il dolore continuano imperturbati.

La lotta contro il dolore e l'ingiustizia è senz'altro cristiana, ma il pensare che attraverso le riforme sociali o l'eliminazione del potere e dell'ordinamento giuridico si possa subito raggiungere un mondo libero dal dolore, è una vera e propria eresia, una profonda ignoranza dell'uomo e della sua natura.
In questo mondo il dolore non deriva soltanto dalla disuguaglianza di ricchezza e di potere. La sofferenza non è l'unico fastidio che l'uomo dovrebbe scrollarsi di dosso. Chi pensa così, deve rifugiarsi nel mondo illusorio degli stupefacenti, per ritrovarsi poi ancor più distrutto ed in contrasto con la realtà.

Soltanto sopportando se stesso e liberandosi dalla tirannide del proprio egoismo, l'uomo ritrova se stesso, la propria verità, propria gioia e la propria felicità. La crisi del nostro tempo dipende principalmente dal fatto che ci si vuol far credere che si può diventare uomini senza il dominio di sé, senza la pazienza della rinuncia e la fatica del superamento, che non è necessario il sacrificio di mantenere gli impegni presi, né lo sforzo per soffrire con pazienza la tensione fra ciò che si dovrebbe essere e ciò che effettivamente si è.

Un uomo che venga privato di ogni fatica e trasportato nella terra promessa dei suoi sogni, perde quanto ha di più caratteristico, smarrisce se stesso. In realtà l'uomo non viene redento se non attraverso la croce e l'accettazione della sofferenza propria e del mondo in unione con la passione di Cristo. Soltanto così egli diventa libero. Tutte le altre offerte più comode e più facili sono destinate al fallimento. Le speranze del cristianesimo e le chance della fede dipendono da una cosa molto semplice, dalla loro capacità di dire la verità. Le prospettive e le possibilità della fede sono le stesse della verità. Questa può essere offuscata o calpestata, mai però annientata.

E veniamo all'ultimo punto.
Un uomo vede soltanto nella misura in cui ama. Certo c'è anche la chiaroveggenza della negazione e dell'odio. Essi però possono vedere soltanto ciò che è loro conforme: gli aspetti negativi. Ma non sono in grado di costruire. Senza una certa quantità di amore non si trova nulla.
Chi non si inoltra almeno per un po' e con sentimenti benevoli sulla via della fede, chi non accetta di fare un'esperienza personale della chiesa e non affronta il rischio di guardarla con gli occhi dell'amore, non scoprirà altro che motivi di stizza e di rabbia. Il rischio dell'amore è condizione preliminare per giungere alla fede.
Chi lo osa, non ha bisogno di nascondersi nessuna delle debolezze della chiesa, perché scopre che essa non si riduce soltanto a queste, perché si accorge che accanto alla storia degli scandali c'è anche quella della fede forte e intrepida, incarnatasi lungo tutti i secolo in figure meravigliose, come Agostino, Francesco d'Assisi, il domenicano Las Casas infaticabile apostolo degli indios, Vincenzo de' Paolo e Giovanni XXIII.
Chi affronta questo rischio dell'amore scopre che la chiesa ha proiettato nella storia un fascio di luce tale da non poter essere dimenticato. Anche l'arte, sorta sotto impulso e ispirazione del suo messaggio e visibile ancor oggi in opere impareggiabili, diventa per lui una testimonianza di verità: ciò che si tradusse in espressioni così nobili non può essere soltanto tenebre.
La bellezza delle grandi cattedrali, l'armonia della musica scaturita al calore della fede, la solennità della liturgia ecclesiale, la stessa realtà della festa che non si può fare, ma soltanto accettare[2], l'organizzazione dell'anno liturgico, nel quale si fondono insieme l'ieri e l'oggi, il tempo e l'eternità – tutte queste cose che non sono, a mio avviso, casi fortuiti e insignificanti. Il bello è lo splendore del vero, ha detto Tommaso d'Aquino, e potremmo aggiungere che l'offesa del bello è l'autoironia del vero perduto. Le espressioni, nelle quali la fede ha saputo tradursi lungo i secoli della sua storia, sono testimonianza e conferma della sua verità.

Mi permetto di aggiungere ancora un'osservazione, anche se può sembrare che essa conduca molto nel soggettivo.

Se si tengono gli occhi aperti, anche oggi si possono incontrare delle persone, che sono una testimonianza vivente della forza liberatrice della fede cristiana. E non è una vergogna essere e rimanere cristiani anche a motivo di questi uomini che, dandoci l'esempio di un cristianesimo autentico, ce lo rendono più degno di fede e di amore.

In fin dei conti rimane vittima di un'illusione colui che vuol fare di sé una specie di soggetto trascendentale che considera valido solo ciò che non è fortuito. Certo è un dovere riflettere su simili esperienze, esaminare il loro grado di responsabilità, purificarle e dar loro un nuovo contenuto. Ma nel corso di questo necessario processo di obiettivizzazione non figura forse come una prova rilevante a favore del cristianesimo il fatto che esso renda più umani gli uomini nel momento stesso in cui li lega a Dio? L'elemento più soggettivo non è qui insieme anche un dato del tutto oggettivo di cui non è proprio il caso di vergognarsi davanti a nessuno?

Concludiamo con un'ultima osservazione.
Quando, come qui, si afferma che senza l'amore non si può vedere e che perciò per conoscere la chiesa è anche necessario amarla, molti arricciano il naso. L'amore non è forse il contrario della critica? Non è forse questa la scusa, a cui quanto hanno in mano il potere ricorrono volentieri per eliminare la critica e mantenere a loro favore la situazione di fatto? Si giova di più agli uomini cercando di tranquillizzarli e di mascherare le loro precarie situazioni, oppure intervenendo a loro favore contro le abituali ingiustizie o contro il predominio delle strutture? Si tratta senz'altro di questioni molto importanti, ma non possiamo ora prenderle tutte in considerazioni.

Una cosa è comunque certa, che l’amore non è né statico né acritico.
L’unica possibilità che abbiamo di cambiare in senso positivo un altro uomo è proprio quella di amarlo, trasformandolo lentamente da ciò che è in ciò che può essere.
Non diversamente avviene per la Chiesa. Basta guardare alla storia più recente: durante il rinnovamento liturgico e teologico della prima metà del secolo scorso è maturato un vero movimento di riforma che ha portato a trasformazioni positive.

Ciò fu possibile soltanto perché sorsero uomini che amarono la Chiesa con cuore attento e vigilante, con spirito critico, capace di cogliere i segni dei tempi, e che furono disposti a soffrire personalmente per essa.

Se oggi non riusciamo a realizzare qualcosa è perché siamo troppo preoccupati di difendere e di affermare soltanto noi stessi. Non varrebbe la spesa di restare in una chiesa che, per diventare accogliente e degna di essere abitata, avesse bisogno di essere fatta da noi. Sarebbe una contraddizione in termini.

Restare nella chiesa perché essa è in se stessa degna di restare nel mondo, perché è in se stessa degna di essere amata, ma di un amore capace di farla giungere a ciò che deve essere veramente: questa è la via che anche oggi viene chiaramente indicata dalla responsabilità della fede.

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*Il testo è estratto da: Joseph Ratzinger, Perché rimango nella chiesa, in Hans Urs von Balthasar - Joseph Ratzinger, Zwei Plädoyers. Warum ich noch ein Christ bin. Warum ich noch in der Kirche bin, 1971 Kösel-Verlag, München, trad. it., Perchè sono ancora cristiano. Perché sono ancora nella Chiesa, Queriniana, Brescia 2005 III ed., pp. 90-101.

Fonte: http://www.cattoliciromani.com/8-principale/50541-magdi-cristiano-allam-lascia-la-chiesa-cattolica/page4

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