Chiesa
L’abbraccio di Cristo
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- Creato: 14 Marzo 2013
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Scriveva Chesterton che Cristo «non scelse come pietra fondamentale il mistico Giovanni, ma una persona inaffidabile, fuori posto, priva di coraggio, in sintesi, un uomo. Su quella pietra costruì la sua Chiesa; e le porte degli inferi non hanno prevalso contro di essa.
Tutti gli imperi e i regni sono finiti a causa della loro debolezza intrinseca e costante, pur essendo stati fon-dati su uomini forti e su spalle forti. Solo la Chiesa cristiana storica fu fondata su un uo-mo debole, e proprio per questo è indistrut-tibile». Gli appellativi che Chesterton utilizza in riferimento a Pietro, il primo vicario di Cri-sto in terra, possono apparirci irriverenti o poco concilianti, soprattutto se li paragonia-mo all’appellativo elogiativo che dedica a Giovanni. Ma in realtà persino il «mistico Giovanni» aveva i suoi peccatucci: sappiamo che era iracondo (come dimostra il suo so-prannome «figlio del tuono») e anche un p o’ vanitoso, come dimostra il fatto che chiedesse senza vergogna — utilizzando, co-me se non bastasse, sua madre quale inter-mediaria! — di sedersi accanto a Cristo in cielo. Ma Chesterton calca i toni nel descri-vere Pietro per far sì che ci soffermiamo su una realtà che agli occhi di un incredulo o, in generale, di qualcuno che aspira a capire la Chiesa con categorie meramente umane, risulta in realtà scandalosa, ossia che la Chiesa è stata fondata su uomini deboli; o, detto più esattamente, che la Chiesa è stata fondata tenendo conto della debolezza degli uomini. In ciò si differenzia da tutte le isti-tuzioni umane che ci sono state nel mondo, fondate senza tener conto di questa debolez-za; e che, non tenendone conto, sono ineso-rabilmente condannate all’estinzione. Cristo volle che la sua Chiesa fosse fonda-ta sulla debolezza della natura umana; e vol-le che a presiederla fosse un uomo debole proprio come uno qualunque di noi. L’esp e-rienza storica ci dimostra che per alcuni Pa-pi è possibile utilizzare gli appellativi che-stertoniani, ma ci dimostra soprattutto che molti di quegli uomini deboli posti da Cri-sto a capo della Chiesa sono stati, al contra-rio, uomini santi, esempio di virtù e faro di luce per i fedeli, ai quali hanno trasmesso la fede che hanno ricevuto. E lo sono stati non perché uomini senza macchia, liberi dal pec-cato originale, ma perché la grazia divina ha agito sul fango con cui erano fatti; perché hanno dato tutto ciò che avevano, come uo-mini fragili quali erano, e Cristo ha premiato quella dedizione incondizionata, adornando-la con i segni della santità. C’è un passo bellissimo nel Vangelo di Giovanni, commentato da Benedetto XVI, nel quale Gesù risorto appare a Pietro, sulle rive del lago di Tiberiade. Possiamo imma-ginare questo episodio come l’incontro tra due amici consapevoli della ferita che si è aperta nel loro rapporto, dopo le negazioni di Pietro la notte della passione, ma disposti a stagnarla sinceramente, disposti a ricevere e a dare il perdono, affinché quella ferita — causata dalla debolezza di Pietro — si tra-sformi, una volta risanata, in fermento di un’amicizia ancora più grande. Pietro sa che, quando il suo amico aveva più bisogno di lui, lo ha tradito per viltà o per mero affan-no di sopravvivenza, rinnegandolo ben tre volte dopo che gli aveva promesso fedeltà incondizionata. E Gesù, da parte sua, sa che quel tradimento è stato conseguenza della debolezza del suo amico, conseguenza in de-finitiva della stessa natura umana, ferita dal peccato originale; e sa anche che il suo ami-co è mortificato e abbattuto per la propria mancanza di coraggio e desidera che questa debolezza non si ripeta mai. Allora Gesù, pronto a dimenticare le man-canze passate, gli domanda a bruciapelo: «Mi ami?». Gesù glielo chiede utiliz-zando il verbo aga-pào, che significa amare senza riserve, con una donazione comple-ta, acerrima, talvolta so-vraumana. E Pietro gli risponde affermativa-mente, ma con il verbo filèo, che esprime l’a m o re tenero e devoto, fragile ed entusiasta, proprio degli uomini deboli. Gesù interpella tre volte Pietro, co-me tre erano state le volte che il suo amico lo aveva rinnegato in precedenza, ma nella terza utilizza il verbofilèo.È un mo-mento di grande forza emotiva, perché Ge-sù si rende conto di non poter esigere dal suo amico qualcosa che non è parte della fragile natura umana; e, dimenticandosi del-le esigenze sovraumane, si abbassa, si adatta, si conforma, abbraccia la debolezza di Pie-tro, perché capisce che nel suo amore uma-no, che inciampa e cade, e tuttavia torna ad alzarsi disposto a proseguire senza vacillare, c’è un impeto superiore persino a quello di un amore insuperbito che si crede vaccinato contro ogni difficoltà. E accetta questo amo-re filiale che gli offre Pietro, sapendo che la grazia divina lo perfezionerà, trasformandolo in amore pieno, in donazione completa. Questo passaggio mi sembra fondamenta-le per capire appieno il ministero di Pietro, l’uomo scelto come pietra della Chiesa con-segna a Cristo la sua intera umanità, con le sue debolezze e i suoi difetti; e Cristo abbraccia il suo gesto con l’azione di una gra-zia specialissima. Questo abbraccio amoroso sul quale pog-gia il ministero petrino risulta, in realtà, scandaloso. Alla nostra epoca piacerebbe che la fede cattolica fosse un pu-ro “spiritualismo” di uomini senza macchia, un’ideologia di superuomini che possa essere refutata o combattuta mediante un’altra ideologia o corpus dot-trinale opposto, elaborato a sua volta da superuomini. Ma la fe-de cattolica è esattamente il contrario: l0intervento di Dio nella storia si è compiuto attraverso la presenza di un corpo tangibile e vulnerabile come quello di qualsiasi altro uomo; la presenza di Cristo tra i suoi seguaci si perpetua mediante i sa-cramenti, che esigono la vicinanza e persino il contatto; il dono supremo della grazia ri-chiede, per agire, la mediazione della nostra fragile natura. E questa carnalità della fede trova la propria espressione più sovversiva e scandalosa nella successione apostolica e nell’istituzione del papato, che è la conse-guenza più estrema del mistero dell’incarna-zione e la confutazione più sconcertante del-lo “spiritualismo”. Noi cattolici riconosciamo in un uomo de-bole il vicario di Cristo in terra; riconoscia-mo in un uomo fragile proprio come uno qualunque di noi, peccatore proprio come uno qualunque di noi, ma pieno di amore fi-liale, la realtà attraverso la quale l’amore di Dio si riversa, in modo gratuito e paterno, su ognuno di noi. Questa è la nostra fede: la fede che tiene conto della nostra debolezza, la fede che agisce, mediante la grazia, utiliz-zando come mediazione la nostra natura de-bole. È questo abbraccio amoroso a rendere indistruttibile la Chiesa, e ciò spiega perché le porte degli inferi non hanno prevalso contro di essa.
© Osservatore Romano - 14 marzo 2013 - edizione speciale