San Giovanni Paolo II - Settimo ciclo di Catechesi sul Genesi

Il matrimonio vocazione alla santitaSettimo ciclo – Amore e Fecondità

(Rilettura ed approfondimenti di "Humanae Vitae" e abbozzi di spiritualità familiare e coniugale alla luce dell'enciclica)

Mercoledì, 4 luglio 1984

1. Riportiamoci oggi al classico testo del capitolo 5° della lettera agli Efesini, la quale rivela le sorgenti eterne dell’alleanza nell’amore del Padre e insieme la sua nuova e definitiva istituzione in Gesù Cristo.

Questo testo ci conduce a una dimensione tale del “linguaggio del corpo” che potrebbe essere chiamata “mistica”. Parla infatti del matrimonio come di un “grande mistero”. “Questo mistero è grande”(Ef 5, 32). E sebbene questo mistero si compia nell’unione sponsale di Cristo redentore con la Chiesa e nella Chiesa-sposa con Cristo (“Lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa” (Ef 5, 32)), sebbene si effettui definitivamente nelle dimensioni escatologiche, tuttavia l’autore della lettera agli Efesini non esita ad estendere l’analogia dell’unione di Cristo con la Chiesa nell’amore sponsale, delineata in modo così “assoluto” ed “escatologico”, al segno sacramentale del patto sponsale dell’uomo e della donna, i quali sono “sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo” (Ef 5, 21). Non esita a estendere quella mistica analogia al “linguaggio del corpo”, riletto nella verità dell’amore sponsale e dell’unione coniugale dei due.

2. Bisogna riconoscere la logica di questo stupendo testo, che libera radicalmente il nostro modo di pensare dagli elementi di manicheismo o da una considerazione non personalista del corpo e al tempo stesso avvicina il “linguaggio del corpo”, racchiuso nel segno sacramentale del matrimonio, alla dimensione della reale santità.

I sacramenti innestano la santità sul terreno dell’umanità dell’uomo: penetrano l’anima e il corpo, la femminilità e la mascolinità del soggetto personale, con la forza della santità. Tutto ciò viene espresso nella lingua della liturgia: vi si esprime e vi si attua.

La liturgia, la lingua liturgica, eleva il patto coniugale dell’uomo e della donna, basato sul “linguaggio del corpo” riletto nella verità, alle dimensioni del “mistero” e, nel medesimo tempo, consente che quel patto si realizzi nelle suddette dimensioni attraverso il “linguaggio del corpo”.

Di ciò parla appunto il segno del sacramento del matrimonio, il quale nella lingua liturgica esprime un evento interpersonale, carico di intenso contenuto personale, assegnato ai due “fino alla morte”. Il segno sacramentale significa non solo il “fieri”, il nascere del matrimonio, ma costruisce il suo “esse”, la sua durata: l’uno e l’altro come realtà sacra e sacramentale, radicata nella dimensione dell’alleanza e della grazia, nella dimensione della creazione e della redenzione. In tal modo la lingua liturgica assegna a entrambi, all’uomo e alla donna, l’amore, la fedeltà e l’onestà coniugale mediante il “linguaggio del corpo”. Assegna loro l’unità e l’indissolubilità del matrimonio nel “linguaggio del corpo”. Assegna loro come compito tutto il “sacrum” della persona e della comunione delle persone, e parimenti la loro femminilità e mascolinità, proprio in questo linguaggio.

3. In tale senso affermiamo, che la lingua liturgica diventa “linguaggio del corpo”. Ciò significa una serie di fatti e di compiti, che formano la “spiritualità” del matrimonio, il suo “ethos”. Nella vita quotidiana dei coniugi questi fatti diventano compiti, e i compiti, fatti. Questi fatti - come anche gli impegni - sono di natura spirituale, tuttavia si esprimono a un tempo col “linguaggio del corpo”.

L’Autore della lettera agli Efesini scrive in proposito: “. . . i mariti hanno il dovere di amare le mogli come il proprio corpo . . .” (Ef 5, 28) (“come se stesso”:Ef 5, 33), “e la donna sia rispettosa verso il marito” (Ef 5, 33). Ambedue, del resto, siano “sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo” (Ef 5, 21).

Il “linguaggio del corpo”, quale ininterrotta continuità della lingua liturgica si esprime non solo come il fascino e il compiacimento reciproco del Cantico dei Cantici, ma anche come una profonda esperienza del “sacrum”, che sembra essere infuso nella stessa mascolinità e femminilità attraverso la dimensione del “mysterium”: “mysterium magnum” della lettera agli Efesini, che affonda le radici appunto nel “principio”, cioè nel mistero della creazione dell’uomo: maschio e femmina a immagine di Dio, chiamati fin “dal principio” ad essere segno visibile dell’amore creativo di Dio.

4. Così dunque “quel timore di Cristo” e “rispetto”, di cui parla l’autore della lettera agli Efesini, è nient’altro che una forma spiritualmente matura di quel fascino reciproco: vale a dire dell’uomo per la femminilità e della donna per la mascolinità, che si rivela per la prima volta nel libro della Genesi (Gen 2, 23-25). In seguito, lo stesso fascino sembra scorrere come un largo torrente attraverso i versetti del Cantico dei cantici per trovare, in circostanze del tutto diverse, la sua concisa e concentrata espressione nel libro di Tobia.

La maturità spirituale di questo fascino altro non è che il fruttificare del dono del timore, uno dei sette doni dello Spirito Santo, di cui ha parlato san Paolo nella prima lettera ai Tessalonicesi (1 Ts 4, 4-7).

D’altronde, la dottrina di Paolo sulla castità, come “vita secondo lo Spirito” (cf. Rm 8, 5), ci consente (particolarmente in base alla prima lettera ai Corinzi 6) di interpretare quel “rispetto” in senso carismatico, cioè quale dono dello Spirito Santo.

5. La lettera agli Efesini - nell’esortare i coniugi, perché siano sottomessi gli uni agli altri “nel timore di Cristo” (Ef 5, 21) e nell’invogliarli, in seguito, al “rispetto” nel rapporto coniugale, sembra rivelare - conformemente alla tradizione paolina - la castità quale virtù e quale dono.

In tal modo, attraverso la virtù e ancor più attraverso il dono (“vita secondo lo Spirito”) matura spiritualmente il reciproco fascino della mascolinità e della femminilità. Entrambi, l’uomo e la donna, allontanandosi dalla concupiscenza, trovano la giusta dimensione della libertà del dono, unita alla femminilità e mascolinità nel vero significato sponsale del corpo.

Così la lingua liturgica, cioè la lingua del sacramento e del “mysterium”, diviene nella loro vita e convivenza “linguaggio del corpo” in tutta una profondità, semplicità e bellezza fino a quel momento sconosciute.

6. Tale sembra essere il significato integrale del segno sacramentale del matrimonio. In quel segno, attraverso il “linguaggio del corpo”, l’uomo e la donna vanno incontro al “grande mysterium”, per trasferire la luce di quel mistero, luce di verità e di bellezza, espresso nella lingua liturgica, in “linguaggio del corpo”, nel linguaggio cioè della prassi dell’amore, della fedeltà e dell’onestà coniugale, ossia nell’ethos radicato nella “redenzione del corpo” (cf. Rm 8, 23). Su questa via, la vita coniugale diviene in certo senso liturgia.

Mercoledì, 11 luglio 1984

1. Le riflessioni finora svolte sull’amore umano nel piano divino resterebbero in qualche modo incomplete, se non cercassimo di vederne l’applicazione concreta nell’ambito della morale coniugale e familiare. Vogliamo compiere questo ulteriore passo, che ci porterà alla conclusione del nostro ormai lungo cammino, sulla scorta di un importante pronunciamento del magistero recente: l’enciclica Humanae vitae, che il papa Paolo VI ha pubblicato nel luglio del 1968. Rileggeremo questo significativo documento alla luce dei risultati a cui siamo giunti esaminando l’iniziale disegno divino e le parole di Cristo, che ad esso rimandano.

2. “La Chiesa insegna che qualsiasi atto matrimoniale deve rimanere per sé aperto alla trasmissione della vita . . . Tale dottrina, più volte esposta dal magistero, è fondata sulla connessione inscindibile, che Dio ha voluto e che l’uomo non può rompere di sua iniziativa, tra i due significati dell’atto coniugale: il significato unitivo e il significato procreativo” (Humanae Vitae, 11-12).

3. Le considerazioni che mi accingo a fare riguarderanno particolarmente il passo dell’enciclica che tratta dei “due significati dell’atto coniugale” e della loro “connessione inscindibile”. Non intendo presentare un commento all’intera enciclica, ma piuttosto illustrarne e approfondirne un passo. Dal punto di vista della dottrina morale racchiusa nel documento citato, quel passo ha un significato centrale. Al tempo stesso è un brano che si collega strettamente con le nostre precedenti riflessioni sul matrimonio nella dimensione del segno (sacramentale).

Poiché - come detto - è un passo centrale dell’enciclica, è ovvio che esso sia inserito molto profondamente in tutta la sua struttura: la sua analisi pertanto deve orientarci verso le varie componenti di quella struttura, anche se l’intenzione è di non commentare l’intero testo.

4. Nelle riflessioni sul segno sacramentale, è stato già detto a più riprese che esso è basato sul “linguaggio del corpo” riletto nella verità. Si tratta di una verità affermata una prima volta all’inizio del matrimonio, quando gli sposi novelli, promettendosi a vicenda di “essere fedeli sempre . . . e di amarsi e onorarsi tutti i giorni della loro vita”, divengono ministri del matrimonio come sacramento della Chiesa.

Si tratta poi di una verità che viene, per così dire, sempre nuovamente affermata. Infatti l’uomo e la donna, vivendo nel matrimonio “sino alla morte”, ripropongono di continuo, in un certo senso, quel segno ch’essi hanno posto - attraverso la liturgia del sacramento - il giorno del loro sposalizio.

Le parole sopra citate dell’enciclica di papa Paolo VI riguardano quel momento nella vita comune dei coniugi, in cui entrambi, unendosi nell’atto coniugale, diventano, secondo l’espressione biblica, “una sola carne” (Gen 2, 24). Proprio in un tale momento, così ricco di significato, è pure particolarmente importante che si rilegga il “linguaggio del corpo” nella verità. Tale lettura diviene condizione indispensabile per agire nella verità, ossia per comportarsi conformemente al valore e alla norma morale.

5. L’enciclica non solo ricorda questa norma, ma cerca anche di darne l’adeguato fondamento. Per chiarire più a fondo quella “connessione inscindibile che Dio ha voluto . . . tra i due significati dell’atto coniugale”, Paolo VI così scrive nella frase successiva: “. . . per la sua intima struttura, l’atto coniugale, mentre unisce profondamente gli sposi, li rende atti alla generazione di nuove vite, secondo leggi iscritte nell’essere stesso dell’uomo e della donna” (Humanae Vitae, 12).

Osserviamo che nella frase precedente il testo appena citato tratta soprattutto del “significato” e nella frase successiva, della “intima struttura” (cioè della natura) del rapporto coniugale. Definendo questa “struttura intima”, il testo fa riferimento “alle leggi iscritte nell’essere stesso dell’uomo e della donna”.

Il passaggio dalla frase, che esprime la norma morale, alla frase che la esplica e motiva, è particolarmente significativo. L’enciclica induce a cercare il fondamento della norma, che determina la moralità delle azioni dell’uomo e della donna nell’atto coniugale, nella natura di questo stesso atto e, ancor più profondamente, nella natura degli stessi soggetti che agiscono.

6. In tal modo, l’“intima struttura” (ossia natura) dell’atto coniugale costituisce la base necessaria per un’adeguata lettura e scoperta dei significati, che devono trasferirsi nella coscienza e nelle decisioni delle persone agenti, e anche la base necessaria per stabilire l’adeguato rapporto di questi significati, cioè la loro inscindibilità. Poiché ad un tempo “l’atto coniugale unisce profondamente gli sposi . . . e li rende atti alla generazione di nuove vite”, e l’una cosa e l’altra avvengono “per la sua intima struttura”, ne consegue che la persona umana (con la necessità propria della ragione, la necessità logica) “deve” leggere contemporaneamente i “due significati dell’atto coniugale” e anche la “connessione inscindibile tra i due significati dell’atto coniugale”.

Di null’altro qui si tratta che di leggere nella verità il “linguaggio del corpo” come è stato detto più volte nelle precedenti analisi bibliche. La norma morale, insegnata costantemente dalla Chiesa in questo ambito, ricordata e riconfermata da Paolo VI nella sua enciclica, scaturisce dalla lettura del “linguaggio del corpo” nella verità.

Si tratta qui della verità, prima nella dimensione ontologica (“struttura intima”) e poi - di conseguenza - nella dimensione soggettiva e psicologica (“significato”). Il testo dell’enciclica sottolinea che nel caso in questione si tratta di una norma della legge naturale.

Mercoledì, 18 luglio 1984

1. Nell’enciclica Humanae Vitae (Pauli VI, Humane Vitae, n. 11) si legge: “Richiamando gli uomini all’osservanza delle norme della legge naturale interpretata dalla sua costante dottrina, la Chiesa insegna che qualsiasi atto matrimoniale deve rimanere per sé aperto alla trasmissione della vita”.

In pari tempo lo stesso testo considera e perfino pone in rilievo la dimensione soggettiva e psicologica, quando parla del “significato”, ed esattamente dei “due significati dell’atto coniugale”.

Il “significato” nasce nella coscienza con la rilettura della verità (ontologica) dell’oggetto. Mediante questa rilettura, la verità (ontologica) entra per così dire nella dimensione conoscitiva: soggettiva e psicologica.

L’Humanae Vitae sembra volgere particolarmente la nostra attenzione verso quest’ultima dimensione. Ciò è confermato tra l’altro, indirettamente, anche dalla frase seguente: “Noi pensiamo che gli uomini del nostro tempo sono particolarmente in grado di afferrare il carattere profondamente ragionevole e umano di questo fondamentale principio” (Ibid., 12).

2. Quel “carattere ragionevole” riguarda non soltanto la verità nella dimensione ontologica, ossia ciò che corrisponde alla struttura reale dell’atto coniugale. Esso riguarda anche la stessa verità nella dimensione soggettiva e psicologica, vale a dire la retta comprensione dell’intima struttura dell’atto coniugale, cioè l’adeguata rilettura dei significati corrispondenti a tale struttura e della loro connessione inscindibile, in vista di un comportamento moralmente retto. In questo consiste appunto la norma morale e la corrispondente regolazione degli atti umani nella sfera della sessualità. In tal senso diciamo che la norma s’identifica con la rilettura, nella verità, del “linguaggio del corpo”.

3. L’enciclica Humanae Vitae contiene dunque la norma morale e la sua motivazione, o almeno un approfondimento di ciò che costituisce la motivazione della norma. Poiché, per altro, nella norma si esprime in modo vincolante il valore morale, ne segue che gli atti conformi alla norma sono moralmente retti, gli atti contrari sono invece intrinsecamente illeciti. L’autore dell’enciclica sottolinea che tale norma appartiene alla “legge naturale”, vale a dire, che essa è conforme alla ragione come tale. La Chiesa insegna questa norma, sebbene essa non sia espressa formalmente (cioè letteralmente) nella Sacra Scrittura; e ciò fa nella convinzione che l’interpretazione dei precetti della legge naturale appartenga alla competenza del magistero.

Possiamo tuttavia dire di più. Anche se la norma morale, in tal modo formulata nell’enciclica Humanae vitae, non si trova letteralmente nella Sacra Scrittura, nondimeno dal fatto che essa è contenuta nella tradizione e - come scrive il papa Paolo VI - è stata “più volte esposta dal magistero” (Ivi) ai fedeli, risulta che questa norma corrisponde all’insieme della dottrina rivelata contenuta nelle fonti bibliche (Ivi, 4).

4. Si tratta qui non solo dell’insieme della dottrina morale racchiusa nella Sacra Scrittura, delle sue premesse essenziali e del carattere generale del suo contenuto, ma di quel complesso più ampio, al quale abbiamo dedicato in precedenza numerose analisi trattando della “teologia del corpo”.

Proprio sullo sfondo di tale ampio complesso si rende evidente che la menzionata norma morale appartiene non soltanto alla legge morale naturale, ma anche all’ordine morale rivelato da Dio: anche da questo punto di vista essa non potrebbe essere diversa, ma unicamente quale la tramandano la tradizione e il magistero e, ai giorni nostri, l’enciclica Humanae Vitae, come documento contemporaneo di tale magistero.

Paolo VI scrive: “Noi pensiamo che gli uomini del nostro tempo sono particolarmente in grado di afferrare il carattere profondamente ragionevole e umano di questo fondamentale principio” (Humanae Vitae, 12). Si può aggiungere: essi sono in grado di afferrare anche la sua profonda conformità con tutto ciò che viene trasmesso dalla tradizione scaturita dalle fonti bibliche. Le basi di questa conformità sono da ricercarsi particolarmente nell’antropologia biblica. D’altronde, è noto il significato che l’antropologia ha per l’etica, cioè per la dottrina morale. Sembra essere del tutto ragionevole cercare proprio nella “teologia del corpo” il fondamento della verità delle norme che riguardano la problematica così fondamentale dell’uomo in quanto “corpo”: “i due saranno una sola carne” (Gen 2, 24).

5. La norma dell’enciclica Humanae Vitae riguarda tutti gli uomini, in quanto è norma della legge naturale e si basa sulla conformità con la ragione umana (quando, s’intende, questa cerca la verità). A maggior ragione essa concerne tutti i credenti membri della Chiesa, dato che il carattere ragionevole di questa norma trova indirettamente conferma e solido sostegno nell’insieme della “teologia del corpo”. Da questo punto di vista abbiamo parlato, nelle precedenti analisi, dell’“ethos” della redenzione del corpo.

La norma della legge naturale, basata su questo “ethos”, trova non soltanto una nuova espressione, ma anche un pieno fondamento antropologico ed etico sia nella parola del Vangelo, sia nell’azione purificante e corroborante dello Spirito Santo.

Vi sono tutte le ragioni affinché ogni credente e in particolare ogni teologo rilegga e comprenda sempre più profondamente la dottrina morale dell’enciclica in questo contesto integrale.

Le riflessioni, che da lungo tempo facciamo qui, costituiscono appunto un tentativo di tale rilettura.

Mercoledì, 25 luglio 1984

1. Riprendiamo le riflessioni che tendono a collegare l’enciclica Humanae Vitae con l’insieme della teologia del corpo.

Tale enciclica non si limita a ricordare la norma morale che concerne la convivenza coniugale, riconfermandola davanti alle nuove circostanze. Paolo VI, nel pronunciarsi con magistero autentico mediante l’enciclica (1968), ha avuto dinanzi agli occhi l’autorevole enunciato del Concilio Vaticano II, contenuto nella costituzione Gaudium et Spes (1965).

L’enciclica non si trova soltanto sulla linea dell’insegnamento conciliare, ma costituisce anche lo svolgimento e il completamento dei problemi ivi racchiusi, in modo particolare riguardo al problema dell’“accordo dell’amore umano col rispetto della vita”. Su questo punto, leggiamo nella Gaudium et Spes le seguenti parole (Gaudium et Spes, n. 51): “La Chiesa ricorda che non può esserci vera contraddizione tra le leggi divine del trasmettere la vita e del dovere di favorire l’autentico amore coniugale”.

2. La costituzione pastorale del Vaticano II esclude qualsiasi “vera contraddizione” nell’ordine normativo, il che, da parte sua, conferma Paolo VI, cercando contemporaneamente di far luce su quella “non-contraddizione” e in tal modo di motivare la rispettiva norma morale, dimostrandone la conformità alla ragione.

Tuttavia, l’Humanae Vitae parla non tanto della “non contraddizione” nell’ordine normativo, quanto della “connessione inscindibile” tra la trasmissione della vita e l’autentico amore coniugale dal punto di vista dei “due significati dell’atto coniugale: il significato unitivo e il significato procreativo” (Pauli VI, Humanae Vitae, 12), di cui abbiamo già trattato.

3. Ci si potrebbe soffermare a lungo sull’analisi della norma stessa; ma il carattere dell’uno e dell’altro documento induce piuttosto a riflessioni, almeno indirettamente, pastorali. Infatti, la Gaudium et Spes è una costituzione pastorale e l’enciclica di Paolo VI - con il suo valore dottrinale - tende ad avere lo stesso orientamento. Essa vuol essere, infatti, risposta agli interrogativi dell’uomo contemporaneo. Sono, questi, interrogativi di carattere demografico, conseguentemente di carattere socio-economico e politico, in rapporto alla crescita della popolazione sul globo terrestre. Sono interrogativi che partono dal campo delle scienze particolari, e di pari passo sono gli interrogativi dei moralisti contemporanei (teologi-moralisti). Sono innanzitutto gli interrogativi dei coniugi, che si trovano già al centro dell’attenzione della costituzione conciliare e che l’enciclica riprende con tutta la precisione desiderabile. Vi leggiamo infatti: “Date le condizioni della vita odierna e dato il significato che le relazioni coniugali hanno per l’armonia tra gli sposi e per la loro mutua fedeltà, non sarebbe forse indicata una revisione delle norme etiche finora vigenti, soprattutto se si considera che esse non possono essere osservate senza sacrifici, talvolta eroici?” (Ibid., 3).

4. Nella suddetta formulazione è evidente con quanta sollecitudine l’autore dell’enciclica cerchi di affrontare gli interrogativi dell’uomo contemporaneo in tutta la loro portata. La rilevanza di questi interrogativi suppone una risposta proporzionalmente ponderata e profonda. Se dunque da una parte è giusto attendersi un’acuta trattazione della norma, dall’altra, ci si può pure aspettare che un peso non minore sia dato agli argomenti pastorali, concernenti più direttamente la vita degli uomini concreti, di coloro appunto che pongono le domande menzionate all’inizio.

Paolo VI ha avuto sempre davanti agli occhi questi uomini. Di ciò è espressione, tra l’altro, il seguente passo della Humanae Vitae (Pauli VI, Humanae Vitae, n. 20): “La dottrina della Chiesa sulla regolazione della natalità, che promulga la legge divina, apparirà facilmente a molti di difficile o addirittura impossibile attuazione. E certamente, come tutte le realtà grandi e benefiche, essa richiede serio impegno e molti sforzi, individuali, familiari e sociali. Anzi, non sarebbe attuabile senza l’aiuto di Dio, che sorregge e corrobora la buona volontà, degli uomini. Ma a chi ben riflette non potrà non apparire che tali sforzi sono nobilitanti per l’uomo e benefici per la comunità umana”.

5. A questo punto non si parla più della “non-contraddizione” normativa, ma piuttosto della “possibilità dell’osservanza della legge divina”, cioè di un argomento, almeno indirettamente, pastorale. Il fatto che la legge debba essere di “possibile” attuazione, appartiene direttamente alla natura stessa della legge, ed è dunque contenuto nel quadro della “non-contraddittorietà normativa”. Tuttavia la “possibilità”, intesa come “attuabilità” della norma, appartiene anche alla sfera pratica e pastorale. Nel testo citato il mio predecessore parla, precisamente, da questo punto di vista.

6. Si può qui aggiungere una considerazione: il fatto che tutto il retroterra biblico, denominato “teologia del corpo”, ci offra, anche se indirettamente, la conferma della verità della norma morale, contenuta nella Humanae Vitae, ci prepara a considerare più a fondo gli aspetti pratici e pastorali del problema nel suo insieme. I principi e i presupposti generali della “teologia del corpo” non erano forse estratti tutti quanti dalle risposte che Cristo diede alle domande dei suoi concreti interlocutori? E i testi di Paolo - come ad esempio quelli della lettera ai Corinzi - non sono forse un piccolo manuale riguardante i problemi della vita morale dei primi seguaci di Cristo? E in questi testi troviamo certamente quella “regola di comprensione”, che sembra tanto indispensabile di fronte ai problemi di cui tratta l’Humanae vitae, e che in questa enciclica è presente.

Chi crede che il Concilio e l’enciclica non tengano abbastanza conto delle difficoltà presenti nella vita concreta, non comprende la preoccupazione pastorale che fu all’origine di quei documenti. Preoccupazione pastorale significa ricerca del vero bene dell’uomo, promozione dei valori impressi da Dio nella sua persona; significa cioè attuazione di quella “regola di comprensione”, che mira alla scoperta sempre più chiara del disegno di Dio sull’amore umano, nella certezza che l’unico e vero bene della persona umana consiste nell’attuazione di questo disegno divino.

Si potrebbe dire che, proprio nel nome della citata “regola di comprensione” il Concilio ha posto la questione dell’“accordo dell’amore umano col rispetto della vita” (Gaudium et Spes, 51), e l’enciclica Humanae Vitae ha in seguito ricordato non soltanto le norme morali che obbligano in questo ambito, ma si occupa inoltre ampiamente del problema della “possibilità dell’osservanza della legge divina”.

Le presenti riflessioni sul carattere del documento Humanae Vitae ci preparano a trattare in seguito il tema della “paternità responsabile”.

Mercoledì, 1° agosto 1984

1. Per oggi abbiamo scelto il tema della “paternità e maternità responsabili” alla luce della costituzione Gaudium et Spes e dell’enciclica Humanae Vitae.

La Costituzione conciliare, nell’affrontare l’argomento, si limita a ricordare le premesse fondamentali; il documento pontificio invece va oltre, dando a queste premesse contenuti più concreti.

Il testo conciliare suona così: “. . . Quando si tratta di comporre l’amore coniugale con la trasmissione responsabile della vita, il carattere morale del comportamento non dipende solo dalla sincera intenzione e dalla valutazione dei motivi, ma va determinato da criteri oggettivi, che hanno il loro fondamento nella natura stessa della persona umana e dei suoi atti e sono destinati a mantenere in un contesto di vero amore l’integro senso della mutua donazione e della procreazione umana; e tutto ciò non sarà possibile se non venga coltivata con sincero animo la virtù della castità coniugale”.

E il Concilio aggiunge: “I figli della Chiesa, fondati su questi principi, nel regolare la procreazione non potranno seguire strade che sono condannate dal magistero” (Gaudium et Spes, 51. 50).

2. Prima del passo citato, il Concilio insegna che i coniugi “adempiranno il loro dovere con umana e cristiana responsabilità e con docile riverenza verso Dio”. Il che vuol dire che: “con riflessione e impegno comune si formeranno un retto giudizio, tenendo conto sia del proprio bene personale che di quello dei figli, tanto di quelli nati che di quelli che si prevede nasceranno, valutando le condizioni di vita del proprio tempo e del proprio stato di vita, nel loro aspetto tanto materiale, che spirituale; e, infine, salvaguardando la scala dei valori del bene della comunità familiare, della società temporale e della stessa Chiesa”.

A questo punto seguono parole particolarmente importanti per determinare con maggiore precisione il carattere morale della “paternità e maternità responsabili”. Leggiamo: “Questo giudizio, in ultima analisi, lo devono formulare, davanti a Dio, gli sposi stessi”.

E proseguendo: “Però nella loro linea di condotta i coniugi cristiani siano consapevoli che non possono procedere a loro arbitrio, ma devono sempre essere retti da una coscienza che sia conforme alla legge divina stessa, docili al magistero della Chiesa, che in modo autentico quella legge interpreta alla luce del Vangelo. Tale legge divina manifesta il significato pieno dell’amore coniugale, lo salvaguarda e lo sospinge verso la sua perfezione veramente umana” (Gaudium et Spes, 50).

3. La costituzione conciliare, limitandosi a ricordare le premesse necessarie per una “paternità e maternità responsabili”, le ha rilevate in maniera del tutto univoca, precisando gli elementi costitutivi di tale paternità e maternità, cioè il giudizio maturo della coscienza personale nel suo rapporto con la legge divina, autenticamente interpretata dal magistero della Chiesa.

4. L’enciclica Humanae  Vitae, basandosi sulle medesime premesse, prosegue oltre, offrendo indicazioni concrete. Lo si vede prima nel modo di definire la “paternità responsabile” (Pauli VI, Humanae Vitae, 10). Paolo VI cerca di precisare questo concetto, risalendo ai suoi vari aspetti ed escludendo in anticipo la sua riduzione a uno degli aspetti “parziali”, come fanno coloro che parlano esclusivamente di controllo delle nascite. Fin dall’inizio, infatti, Paolo VI è guidato nella sua argomentazione da una concezione integrale dell’uomo (cf. Ibid., 7) e dell’amore coniugale (cf. Ibid., 8. 9).

5. Si può parlare di responsabilità nell’esercizio della funzione paterna e materna sotto diversi aspetti. Così, egli scrive, “in rapporto ai processi biologici, paternità responsabile significa conoscenza e rispetto delle loro funzioni: l’intelligenza scopre, nel potere di dare la vita, leggi biologiche che fanno parte della persona umana” (Pauli VI, Humanae Vitae, 10). Quando poi si tratta della dimensione psicologica delle “tendenze dell’istinto e delle passioni, la paternità responsabile significa il necessario dominio che la ragione e la volontà devono esercitare su di esse” (Ibid., 10).

Supposti i suddetti aspetti intra-personali e aggiungendo ad essi “le condizioni economiche e sociali”, occorre riconoscere che “la paternità responsabile si esercita, sia con la deliberazione ponderata e generosa di far crescere una famiglia numerosa, sia con la decisione, presa per gravi motivi e nel rispetto della legge morale, di evitare temporaneamente e anche a tempo indeterminato, una nuova nascita” (Pauli VI, Humanae Vitae, 10).

Ne consegue che nella concezione della “paternità responsabile” è contenuta la disposizione non soltanto ad evitare “una nuova nascita” ma anche a far crescere la famiglia secondo i criteri della prudenza. In questa luce, in cui bisogna esaminare e decidere la questione della “paternità responsabile”, resta sempre centrale “l’ordine morale oggettivo, stabilito da Dio, e di cui la retta coscienza è fedele interprete” (Ibid., 10).

6. I coniugi adempiono in questo ambito “i propri doveri verso Dio, verso se stessi, verso la famiglia e verso la società, in una giusta gerarchia dei valori” (Pauli VI, Humanae Vitae, 10). Non si può dunque parlare qui di “procedere a proprio arbitrio”. Al contrario, i coniugi devono “conformare il loro agire all intenzione creatrice di Dio” (Ibid., 10).

A partire da questo principio l’enciclica fonda la sua argomentazione sull’“intima struttura dell’atto coniugale” e sulla “connessione inscindibile dei due significati dell’atto coniugale” (cf. Ibid., 12); il che è stato già in precedenza riferito. Il relativo principio della morale coniugale risulta essere, pertanto, la fedeltà al piano divino, manifestato nell’“intima struttura dell’atto coniugale” e nella “connessione inscindibile dei due significati dell’atto coniugale”.

Mercoledì, 8 agosto 1984

1. Abbiamo detto precedentemente che il principio della morale coniugale, insegnato dalla Chiesa (Concilio Vaticano II, Paolo VI), è il criterio della fedeltà al piano divino.

In conformità con questo principio l’enciclica Humanae Vitae distingue rigorosamente tra quello che costituisce il modo moralmente illecito della regolazione delle nascite o, con più precisione, della regolazione della fertilità e quello moralmente retto.

In primo luogo, è moralmente illecita “l’interruzione diretta del processo generativo già iniziato” (“aborto”) (Ibid., 14), la “sterilizzazione diretta” e “ogni azione che, o in previsione dell’atto coniugale, o nel suo compimento, o nello sviluppo delle conseguenze naturali si proponga, come scopo o come mezzo, di rendere impossibile la procreazione” (Ibid., 14), quindi, tutti i mezzi contraccettivi. È invece moralmente lecito “il ricorso ai periodi infecondi” (Ibid., 16): “Se dunque per distanziare le nascite esistono seri motivi, derivanti o dalle condizioni fisiche o psicologiche dei coniugi, o da circostanze esteriori, la Chiesa insegna essere allora lecito tener conto dei ritmi naturali immanenti alle funzioni generative per l’uso del matrimonio nei soli periodi infecondi e così regolare la natalità senza offendere i principi morali . . .” (Ibid., 16).

2. L’enciclica sottolinea in modo particolare che “tra i due casi esiste una differenza essenziale” e cioè una differenza di natura etica: “Nel primo caso, i coniugi usufruiscono legittimamente di una disposizione naturale; nell’altro caso, essi impediscono lo svolgimento dei processi naturali” (Pauli VI, Humanae Vitae, 16).

Ne derivano due azioni con qualificazione etica diversa, anzi, addirittura opposta: la regolazione naturale della fertilità è moralmente retta, la contraccezione non è moralmente retta. Questa differenza essenziale tra le due azioni (modi di agire) concerne la loro intrinseca qualificazione etica, sebbene il mio predecessore Paolo VI affermi che “nell’uno e nell’altro caso, i coniugi concordano nella volontà positiva di evitare la prole per ragioni plausibili”, e persino scriva: “cercando la sicurezza che non verrà” (Ibid., 16). In queste parole il documento ammette che, sebbene anche coloro che fanno uso delle pratiche anticoncezionali possano essere ispirati da “ragioni plausibili”, tuttavia ciò non cambia la qualificazione morale che si fonda sulla struttura stessa dell’atto coniugale come tale.

3. Si potrebbe osservare, a questo punto, che i coniugi, i quali ricorrono alla regolazione naturale della fertilità, potrebbero essere privi delle ragioni valide, di cui si è parlato in precedenza: ciò costituisce, però, un problema etico a parte, quando si tratti del senso morale della “paternità e maternità responsabili”.

Supponendo che le ragioni per decidere di non procreare siano moralmente rette, resta il problema morale del modo di agire in tale caso, e questo si esprime in un atto che - secondo la dottrina della Chiesa trasmessa nell’enciclica - possiede una sua intrinseca qualificazione morale positiva o negativa. La prima, positiva, corrisponde alla “naturale” regolazione della fertilità; la seconda, negativa, corrisponde alla “contraccezione artificiale”.

4. Tutta la precedente argomentazione si riassume nell’esposizione della dottrina contenuta nella Humanae Vitae, rilevandone il carattere normativo e insieme pastorale. Nella dimensione normativa si tratta di precisare e chiarire i principi morali dell’agire; nella dimensione pastorale si tratta soprattutto di illustrare la possibilità di agire secondo questi principi (“possibilità dell’osservanza della legge divina”: Humanae Vitae, 20).

Dobbiamo soffermarci sull’interpretazione del contenuto dell’enciclica. A tal fine occorre vedere quel contenuto, quell’insieme normativa-pastorale alla luce della teologia del corpo, quale emerge dall’analisi dei testi biblici.

5. La teologia del corpo non è tanto una teoria, quanto piuttosto una specifica, evangelica, cristiana pedagogia del corpo. Ciò deriva dal carattere della Bibbia, e soprattutto dal Vangelo che, come messaggio salvifico, rivela ciò che è il vero bene dell’uomo, al fine di modellare - a misura di questo bene - la vita sulla terra nella prospettiva della speranza del mondo futuro.

L’enciclica Humanae Vitae, seguendo questa linea, risponde al quesito sul vero bene dell’uomo come persona, in quanto maschio e femmina; su ciò che corrisponde alla dignità dell’uomo e della donna, quando si tratta dell’importante problema della trasmissione della vita nella convivenza coniugale.

A questo problema dedicheremo ulteriori riflessioni.

Mercoledì, 22 agosto 1984

1. Qual è l’essenza della dottrina della Chiesa circa la trasmissione della vita nella comunità coniugale, di quella dottrina che ci è stata ricordata dalla costituzione pastorale del Concilio Gaudium et Spes e dall’enciclica Humanae Vitae di papa Paolo VI?

Il problema sta nel mantenere l’adeguato rapporto tra ciò che viene definito “dominio . . . delle forze della natura” (Pauli VI, Humanae Vitae, 2) e la “padronanza di sé” (Ibid., 21) indispensabile alla persona umana. L’uomo contemporaneo manifesta la tendenza a trasferire i metodi propri del primo ambito a quelli del secondo. “L’uomo ha compiuto progressi stupendi nel dominio e nell’organizzazione razionale delle forze della natura - leggiamo nell’enciclica - talché tende ad estendere questo dominio al suo stesso essere globale: al corpo, alla vita psichica, alla vita sociale, e perfino alle leggi che regolano la trasmissione della vita” (Ibid., 2).

Tale estensione della sfera dei mezzi di “dominio . . . delle forze della natura”, minaccia la persona umana, per la quale il metodo della “padronanza di sé” è e rimane specifico. Essa - la padronanza di sé - infatti corrisponde alla costituzione fondamentale della persona: è appunto un metodo “naturale”. Invece la trasposizione dei “mezzi artificiali” infrange la dimensione costitutiva della persona, priva l’uomo della soggettività che gli è propria e fa di lui un oggetto di manipolazione.

2. Il corpo umano non è soltanto il campo di reazioni di carattere sessuale, ma è, al tempo stesso, il mezzo di espressione dell’uomo integrale, della persona, che rivela se stessa attraverso il “linguaggio del corpo”. Questo “linguaggio” ha un importante significato interpersonale, specialmente quando si tratta dei rapporti reciproci tra l’uomo e la donna. Per di più, le nostre analisi precedenti mostrano che in questo caso il “linguaggio del corpo” deve esprimere, a un determinato livello, la verità del sacramento. Partecipando all’eterno piano d’amore “Sacramentum absconditum in Deo” il “linguaggio del corpo” diventa infatti quasi un “profetismo del corpo”.

Si può dire che l’enciclica Humanae Vitae porta alle estreme conseguenze, non soltanto logiche e morali, ma anche pratiche e pastorali, questa verità sul corpo umano nella sua mascolinità e femminilità.

3. L’unità dei due aspetti del problema - della dimensione sacramentale (ossia teologica) e di quella personalistica - corrisponde alla globale “rivelazione del corpo”. Da qui deriva anche la connessione della visione strettamente teologica con quella etica, che si richiama alla “legge naturale”.

Il soggetto della legge naturale è infatti l’uomo non soltanto nell’aspetto “naturale” della sua esistenza, ma anche nella verità integrale della sua soggettività personale. Egli ci si manifesta, nella rivelazione, come maschio e femmina, nella sua piena vocazione temporale ed escatologica. Egli è chiamato da Dio ad essere testimone e interprete dell’eterno disegno dell’amore, divenendo ministro del sacramento, che “da principio” è costituito nel segno dell’“unione della carne”.

4. Come ministri di un sacramento che si costituisce attraverso il consenso e si perfeziona attraverso l’unione coniugale, l’uomo e la donna sono chiamati ad esprimere quel misterioso “linguaggio” dei loro corpi in tutta la verità che gli è propria. Per mezzo dei gesti e delle reazioni, per mezzo di tutto il dinamismo, reciprocamente condizionato, della tensione e del godimento - la cui diretta sorgente è il corpo nella sua mascolinità e femminilità, il corpo nella sua azione e interazione - attraverso tutto questo “parla” l’uomo, la persona.

L’uomo e la donna svolgono nel “linguaggio del corpo” quel dialogo che - secondo la Genesi (Gen 2, 24-25) - ebbe inizio nel giorno della creazione. È appunto a livello di questo “linguaggio del corpo” - che è qualcosa di più della sola reattività sessuale e che, come autentico linguaggio delle persone, è sottoposto alle esigenze della verità, cioè a norme morali obiettive - l’uomo e la donna esprimono reciprocamente se stessi nel modo più pieno e più profondo, in quanto è loro consentito dalla stessa dimensione somatica . . . mascolinità e femminilità: l’uomo e la donna esprimono se stessi nella misura di tutta la verità della loro persona.

5. L’uomo è appunto persona perché è padrone di sé e domina se stesso. In quanto infatti è padrone di se stesso può “donarsi” all’altro. Ed è questa dimensione della libertà del dono - che diventa essenziale e decisiva per quel “linguaggio del corpo”, in cui l’uomo e la donna si esprimono reciprocamente nell’unione coniugale. Dato che questa è comunione di persone, il “linguaggio del corpo” deve essere giudicato secondo il criterio della verità. Proprio tale criterio richiama l’enciclica Humanae Vitae, come è confermato dai passi citati in precedenza.

6. Secondo il criterio di questa verità, che deve esprimersi nel “linguaggio del corpo”, l’atto coniugale “significa” non soltanto l’amore, ma anche la potenziale fecondità, e perciò non può essere privato del suo pieno e adeguato significato mediante interventi artificiali. Nell’atto coniugale non è lecito separare artificialmente il significato unitivo dal significato procreativo, perché l’uno e l’altro appartengono alla verità intima dell’atto coniugale: l’uno si attua insieme all’altro e in certo senso l’uno attraverso l’altro. Così insegna l’enciclica (cf. Humanae Vitae, 12). Quindi in tal caso l’atto coniugale privo della sua verità interiore, perché privato artificialmente della sua capacità procreativa, cessa anche di essere atto di amore.

7. Si può dire che nel caso di un’artificiale separazione di questi due significati, nell’atto coniugale si compie una reale unione corporea, ma essa non corrisponde alla verità interiore e alla dignità della comunione personale: “communio personarum”. Tale comunione esige infatti che il “linguaggio del corpo” sia espresso reciprocamente nell’integrale verità del suo significato. Se manca questa verità, non si può parlare ne della verità del reciproco dono e della reciproca accettazione di sé da parte della persona. Tale violazione dell’ordine interiore della comunione coniugale, che affonda le sue radici nell’ordine stesso della persona, costituisce il male essenziale dell’atto contraccettivo.

8. La suddetta interpretazione della dottrina morale, esposta nell’enciclica Humanae Vitae, si situa sul vasto sfondo delle riflessioni connesse con la teologia del corpo. Specialmente valide per questa interpretazione sono le riflessioni sul “segno” in connessione col matrimonio, inteso come sacramento. E l’assenza della violazione che turba l’ordine interiore dell’atto coniugale non può essere intesa in modo teologicamente adeguato, senza le riflessioni sul tema della “concupiscenza della carne”.

Mercoledì, 29 agosto 1984

1. L’enciclica Humanae Vitae, dimostrando, il male morale della contraccezione, al tempo stesso approva pienamente la regolazione naturale della fertilità e, in questo senso, approva la paternità e maternità responsabili. Bisogna qui escludere che possa qualificarsi “responsabile” dal punto di vista etico quella procreazione nella quale si ricorre alla contraccezione per attuare la regolazione della fertilità. Il vero concetto di “paternità e maternità responsabili” è invece connesso con la regolazione della fertilità onesta dal punto di vista etico.

2. Leggiamo a proposito: “Un’onesta pratica di regolazione della natalità richiede anzitutto dagli sposi che acquistino e posseggano solide convinzioni circa i veri valori della vita e della famiglia, e che tendano ad acquistare una perfetta padronanza di sé. Il dominio dell’istinto, mediante la ragione e la libera volontà, impone indubbiamente un’ascesi, affinché le manifestazioni affettive della vita coniugale siano secondo il retto ordine e in particolare per l’osservanza della continenza periodica. Ma questa disciplina, propria della purezza degli sposi, ben lungi dal nuocere all’amore coniugale, gli conferisce invece un più alto valore umano. Esige un continuo sforzo, ma grazie al suo benefico influsso i coniugi sviluppano integralmente la loro personalità arricchendosi di valori spirituali . . . (Pauli VI, Humanae Vitae, 21).

3. L’enciclica illustra poi le conseguenze di tale comportamento non soltanto per gli stessi coniugi, ma anche per tutta la famiglia, intesa come comunità di persone. Occorrerà riprendere in considerazione questo argomento. Essa sottolinea che la regolazione eticamente onesta della fertilità esige dai coniugi anzitutto un determinato comportamento familiare e procreativo: esige cioè “che acquistino e posseggano solide convinzioni circa i valori della vita e della famiglia” (Humanae Vitae, 21). Partendo da questa premessa, è stato necessario procedere a una considerazione globale della questione, come fece il Sinodo dei Vescovi del 1980 (De muneribus familiae christianae). In seguito, la dottrina relativa a questo particolare problema della morale coniugale e familiare, di cui tratta l’enciclica Humanae Vitae, ha trovato il giusto posto e l’ottica opportuna nel complessivo contesto dell’esortazione apostolica Familiaris Consortio. La teologia del corpo, particolarmente come pedagogia del corpo, affonda le radici, in certo senso, nella teologia della famiglia e, ad un tempo, ad essa conduce. Tale pedagogia del corpo, la cui chiave oggi è l’enciclica Humanae Vitae, si spiega soltanto nel pieno contesto di una corretta visione dei valori della vita e della famiglia.

4. Nel testo sopra citato papa Paolo VI si richiama alla castità coniugale, scrivendo che l’osservanza della continenza periodica è la forma di padronanza di sé, in cui si manifesta “la purezza degli sposi” (Pauli VI, Humanae Vitae, 21).

Nell’intraprendere ora un’analisi più approfondita di questo problema, occorre tener presente tutta la dottrina sulla purezza intesa come vita dello Spirito (cf. Gal 5, 25), considerata da noi già in precedenza, per comprendere così le rispettive indicazioni dell’enciclica sul tema della “continenza periodica”. Quella dottrina resta infatti la vera ragione, a partire dalla quale l’insegnamento di Paolo VI definisce la regolazione della natalità e la paternità e maternità responsabili come eticamente oneste.

Sebbene la “periodicità” della continenza venga in questo caso applicata ai cosiddetti “ritmi naturali” (Humanae Vitae, 16), tuttavia la continenza stessa è un determinato e permanente atteggiamento morale, è virtù, e perciò tutto il modo di comportarsi, da essa guidato, acquista carattere virtuoso. L’enciclica sottolinea abbastanza chiaramente che qui non si tratta solo di una determinata “tecnica”, ma dell’etica nel senso stretto del termine come moralità di un comportamento.

Pertanto, opportunamente l’enciclica pone in rilievo, da un lato, la necessità di rispettare nel suddetto comportamento l’ordine stabilito dal Creatore, e, dall’altro, la necessità dell’immediata motivazione di carattere etico.

5. Riguardo al primo aspetto leggiamo: “Usufruire . . . del dono dell’amore coniugale rispettando le leggi del processo generativo significa riconoscersi non arbitri delle sorgenti della vita umana, ma piuttosto ministri del disegno stabilito dal Creatore” (Humanae Vitae, 13). “La vita umana è sacra” - come ha ricordato il nostro predecessore Giovanni XXIII - fin dal suo affiorare impegna direttamente l’azione creatrice di Dio” (Mater et magistra; cf. Humanae Vitae, 13). Quanto all’immediata motivazione, l’enciclica Humanae Vitae richiede che “per distanziare le nascite esistano seri motivi, derivanti o dalle condizioni fisiche o psicologiche dei coniugi, o da circostanze esteriori . . .” (Humanae Vitae, 16).

6. Nel caso di una regolazione moralmente retta della fertilità che si attua mediante la continenza periodica, si tratta chiaramente di praticare la castità coniugale, cioè di un determinato atteggiamento etico. Nel linguaggio biblico, diremo che si tratta di vivere dello Spirito (cf. Gal 5, 25).

La regolazione moralmente retta viene anche denominata “regolazione naturale della fertilità”, il che può essere spiegato quale conformità alla “legge naturale”. Per “legge naturale” intendiamo qui l’“ordine della natura” nel campo della procreazione, in quanto esso è compreso dalla retta ragione: tale ordine è l’espressione del piano del Creatore sull’uomo. Ed è proprio questo che l’enciclica, insieme con tutta la tradizione della dottrina e della pratica cristiana, sottolinea in modo particolare: il carattere virtuoso dell’atteggiamento, che si esprime nella “naturale” regolazione della fertilità, è determinato non tanto dalla fedeltà a un’impersonale “legge naturale” quanto al Creatore-persona, sorgente e Signore dell’ordine che si manifesta in tale legge.

Da questo punto di vista, la riduzione alla sola regolarità biologica, staccata dall’“ordine della natura” cioè dal “piano del Creatore” deforma l’autentico pensiero dell’enciclica Humanae Vitae (cf. Humanae Vitae, 14).

Il documento prosegue certamente quella regolarità biologica, anzi, esorta le persone competenti a studiarla e ad applicarla in modo ancor più approfondito, ma intende sempre tale regolarità come l’espressione dell’“ordine della natura” cioè del provvidenziale piano del Creatore, nella cui fedele esecuzione consiste il vero bene della persona umana.

Mercoledì, 5 settembre 1984

1. Abbiamo precedentemente parlato dell’onesta regolazione della fertilità, secondo la dottrina contenuta nell’enciclica Humanae Vitae (Pauli VI, Humane Vitae, n. 19), e nell’esortazione Familiaris Consortio. La qualifica di “naturale”, che si attribuisce alla regolazione moralmente retta della fertilità (seguendo i ritmi naturali, cf. Humanae Vitae, 16), si spiega con il fatto che il relativo modo di comportarsi corrisponde alla verità della persona e quindi alla sua dignità: una dignità che “per natura” spetta all’uomo quale essere ragionevole e libero. L’uomo, come essere ragionevole e libero, può e deve rileggere con perspicacia quel ritmo biologico che appartiene all’ordine naturale. Può e deve conformarsi ad esso, al fine di esercitare quella “paternità-maternità responsabile”, che, secondo il disegno del Creatore, è iscritta nell’ordine naturale della fecondità umana. Il concetto di regolazione moralmente retta della fertilità non è altro che la rilettura del “linguaggio del corpo” nella verità. Gli stessi “ritmi naturali immanenti alle funzioni generative” appartengono alla verità oggettiva di quel linguaggio, che le persone interessate dovrebbero rileggere nel suo pieno contenuto oggettivo. Bisogna aver presente che il “corpo parla” non soltanto con tutta l’eterna espressione della mascolinità e della femminilità, ma anche con le strutture interne dell’organismo, della reattività somatica e psicosomatica. Tutto ciò che deve trovare il posto che gli spetta in quel linguaggio, con cui dialogano i coniugi, come persone chiamate alla comunione nell’“unione del corpo”.

2. Tutti gli sforzi che tendono alla conoscenza sempre più precisa di quei “ritmi naturali”, che si manifestano in rapporto alla procreazione umana, tutti gli sforzi poi dei consultori familiari e infine degli stessi coniugi interessati, non mirano a “biologizzare” il linguaggio del corpo (a “biologizzare l’etica”, come erroneamente ritengono alcuni), ma esclusivamente ad assicurare l’integrale verità a quel “linguaggio del corpo”, con cui i coniugi debbono esprimersi in modo maturo di fronte alle esigenze della paternità e maternità responsabili.

L’enciclica Humanae Vitae sottolinea a più riprese che la “paternità responsabile” è connessa a un continuo sforzo e impegno, e che essa viene attuata a prezzo di una precisa ascesi (cf. Pauli VI, Humanae Vitae, 21). Tutte queste e altre simili espressioni mostrano che nel caso della “paternità responsabile” ossia della regolazione della fertilità moralmente retta, si tratta di ciò che è il vero bene delle persone umane e di ciò che corrisponde alla vera dignità della persona.

3. L’usufruire dei “periodi infecondi” nella convivenza coniugale può diventare sorgente di abusi, se i coniugi cercano in tal modo di eludere senza giuste ragioni la procreazione, abbassandola sotto il livello moralmente giusto delle nascite nella loro famiglia. Occorre che questo giusto livello sia stabilito tenendo conto non soltanto del bene della propria famiglia, come pure dello stato di salute e delle possibilità degli stessi coniugi, ma anche del bene della società a cui appartengono, della Chiesa, e perfino dell’umanità intera.

L’enciclica Humanae Vitae presenta la “paternità responsabile” come espressione di un alto valore etico. In nessun modo essa è unilateralmente diretta alla limitazione e ancor meno all’esclusione della prole; essa significa anche la disponibilità ad accogliere una prole più numerosa. Soprattutto, secondo l’enciclica Humanae Vitae, la “paternità responsabile” attua “un più profondo rapporto all’ordine morale chiamato oggettivo, stabilito da Dio e di cui la retta coscienza è fedele interprete” (Pauli VI, Humanae Vitae, 10).

4. La verità della paternità e maternità responsabile, e la sua messa in atto, è unita alla maturità morale della persona, ed è qui che molto spesso si rivela la divergenza tra ciò a cui l’enciclica attribuisce esplicitamente il primato e ciò a cui questo viene attribuito nella mentalità comune.

Nell’enciclica viene messa in primo piano la dimensione etica del problema, sottolineando il ruolo della virtù della temperanza, rettamente intesa. Nell’ambito di questa dimensione c’è anche un adeguato “metodo” secondo cui agire. Nel comune modo di pensare capita spesso che il “metodo”, staccato dalla dimensione etica che gli è proprio, viene messo in atto in modo meramente funzionale, e perfino utilitario. Separando il “metodo naturale” dalla dimensione etica, si cessa di percepire la differenza che intercorre tra esso e gli altri “metodi” (mezzi artificiali) e si arriva a parlarne come se si trattasse soltanto di una diversa forma di contraccezione.

5. Dal punto di vista dell’autentica dottrina, espressa dall’enciclica Humanae Vitae è dunque importante una corretta presentazione del metodo stesso, di cui fa cenno il medesimo documento (cf. Pauli VI, Humanae Vitae, 16); soprattutto è importante l’approfondimento della dimensione etica, nel cui ambito il metodo, come “naturale”, acquista il significato di metodo onesto, “moralmente retto”. E perciò, nel quadro della presente analisi, ci converrà volgere principalmente l’attenzione a ciò che l’enciclica asserisce sul tema della padronanza di sé e sulla continenza. Senza un’interpretazione penetrante di quel tema non giungeremo né al nucleo della verità morale, né al nucleo della verità antropologica del problema. Già prima è stato rilevato che le radici di questo problema affondano nella teologia del corpo: è questa (quando diviene, come deve, pedagogia del corpo) che costituisce in realtà il “metodo” moralmente onesto della regolazione della natalità, inteso nel suo senso più profondo e più pieno.

6. Caratterizzando in seguito i valori specificamente morali della regolazione della natalità “naturale” (cioè onesta, ossia moralmente retta), l’autore della Humanae Vitae così si esprime: “Questa disciplina . . . apporta alla vita familiare frutti di serenità e di pace e agevola la soluzione di altri problemi; favorisce l’attenzione verso l’altro coniuge, aiuta gli sposi a bandire l’egoismo, nemico del vero amore, e approfondisce il loro senso di responsabilità. I genitori acquistano con essa la capacità di un influsso più profondo ed efficace per l’educazione dei figli; la fanciullezza e la gioventù crescono nella giusta stima dei valori umani e nello sviluppo sereno e armonioso delle loro facoltà spirituali e sensibili” (Pauli VI, Humanae Vitae, 21).

7. Le frasi citate completano il quadro di ciò che l’enciclica Humanae Vitae (Pauli VI, Humane Vitae, n. 21) intende per “onesta pratica di regolazione della natalità”. Questa è, come si vede, non soltanto un “modo di comportarsi” in un determinato campo, ma un atteggiamento che si fonda sull’integrale maturità morale delle persone e insieme la completa.

Mercoledì, 3 ottobre 1984

1. Riferendoci alla dottrina contenuta nell’enciclica Humanae Vitae, cercheremo di delineare ulteriormente la vita spirituale dei coniugi.

Eccone le grandi parole: “La Chiesa, mentre insegna le esigenze inviolabili della legge divina, annunzia la salvezza e apre con i sacramenti le vie della grazia, la quale fa dell’uomo una nuova creatura, capace di corrispondere nell’amore e nella vera libertà al disegno supremo del suo Creatore e Salvatore e di trovare dolce il giogo di Cristo.

Gli sposi cristiani, dunque, docili alla sua voce, ricordino che la loro vocazione cristiana iniziata col Battesimo si è ulteriormente specificata e rafforzata col sacramento del matrimonio. Per esso i coniugi sono corroborati e quasi consacrati per l’adempimento fedele dei propri doveri, per l’attuazione della propria vocazione fino alla perfezione e per una testimonianza cristiana loro propria di fronte al mondo. Ad essi il Signore affida il compito di rendere visibile agli uomini la santità e la soavità della legge che unisce l’amore vicendevole degli sposi con la loro cooperazione all’amore di Dio autore della vita umana” (Pauli VI, Humanae Vitae, 25).

2. Mostrando il male morale dell’atto contraccettivo, e delineando al tempo stesso un quadro possibilmente integrale della pratica “onesta” della regolazione della fertilità, ossia della paternità e maternità responsabili, l’enciclica Humanae Vitae crea le premesse che consentono di tracciare le grandi linee della spiritualità cristiana della vocazione e della vita coniugale, e, parimente, di quella dei genitori e della famiglia.

Si può anzi dire che l’enciclica presuppone l’intera tradizione di questa spiritualità, la quale affonda le radici nelle sorgenti bibliche, già in precedenza analizzate, offrendo l’occasione di riflettere nuovamente su di esse e di costruire un’adeguata sintesi.

Conviene ricordare qui ciò ch’è stato detto sul rapporto organico tra la teologia del corpo e la pedagogia del corpo. Tale “teologia-pedagogia”, infatti, costituisce già di per se stessa il nucleo essenziale della spiritualità coniugale. E ciò è indicato anche dalle frasi sopraccitate dell’enciclica.

3. Certamente rileggerebbe ed interpreterebbe in modo erroneo l’enciclica Humanae vitae colui che vedesse in essa soltanto la riduzione della “paternità e maternità responsabile” ai soli “ritmi biologici di fecondità”. L’autore dell’enciclica energicamente disapprova e contraddice ogni forma di interpretazione riduttiva (e in tal senso “parziale”), e ripropone con insistenza l’intendimento integrale. La paternità-maternità responsabile, intesa integralmente, non è altro che un’importante componente di tutta la spiritualità coniugale e familiare, di quella vocazione cioè di cui parla il testo citato della Humanae Vitae, quando afferma che i coniugi debbono attuare la “propria vocazione fino alla perfezione” (Pauli VI, Humanae Vitae, 25). È il sacramento del matrimonio che li corrobora e quasi consacra a raggiungerla (cf. Humanae Vitae, 25).

Alla luce della dottrina, espressa nell’enciclica, conviene renderci maggiormente conto di quella “forza corroborante” che è unita alla “consacrazione sui generis” del sacramento del matrimonio.

Poiché l’analisi della problematica etica del documento di Paolo VI era centrata soprattutto sulla giustezza della rispettiva norma, l’abbozzo della spiritualità coniugale, che vi si trova, intende porre in rilievo proprio queste “forze” che rendono possibile l’autentica testimonianza cristiana della vita coniugale.

4. “Non intendiamo affatto nascondere le difficoltà talvolta gravi inerenti alla vita dei coniugi cristiani: per essi, come per ognuno, "è stretta la porta e angusta la via che conduce alla vita" (cf. Mt 7, 14). Ma la speranza di questa vita deve illuminare il loro cammino, mentre coraggiosamente si sforzano di vivere con saggezza, giustizia e pietà nel tempo presente, sapendo che la figura di questo mondo passa” (Humanae Vitae, 25).

Nell’enciclica, la visione della vita coniugale è, ad ogni passo, contrassegnata da realismo cristiano, ed è proprio questo che giova maggiormente a raggiungere quelle “forze” che consentono di formare la spiritualità dei coniugi e dei genitori nello spirito di un’autentica pedagogia del cuore e del corpo.

La stessa coscienza “della vita futura” apre, per così dire, un ampio orizzonte ai quelle forze che debbono guidarli per la via angusta (cf. Humanae Vitae, 25) e condurli per la porta stretta della vocazione evangelica.

L’enciclica dice: “Affrontino quindi gli sposi i necessari sforzi, sorretti dalla fede e dalla speranza che "non delude, perché l’amore di Dio è stato effuso nei nostri cuori con lo Spirito Santo, che ci è stato dato"” (Pauli VI, Humanae Vitae, 25).

5. Ecco la “forza” essenziale e fondamentale: l’amore innestato nel cuore (“effuso nei cuori”) dallo Spirito Santo. In seguito l’enciclica indica come i coniugi debbano implorare tale “forza” essenziale e ogni altro “aiuto divino” con la preghiera; come debbano attingere la grazia e l’amore alla sorgente sempre viva dell’Eucaristia; come debbano superare “con umile perseveranza” le proprie mancanze e i propri peccati nel sacramento della Penitenza.

Questi sono i mezzi - infallibili e indispensabili - per formare la spiritualità cristiana della vita coniugale e familiare. Con essi quella essenziale e spiritualmente creativa “forza” d’amore giunge ai cuori umani e, nello stesso tempo, ai corpi umani nella loro soggettiva mascolinità e femminilità. Questo amore, infatti, consente di costruire tutta la convivenza dei coniugi secondo quella “verità del segno”, per mezzo della quale viene costruito il matrimonio nella sua dignità sacramentale, come rivela il punto centrale dell’enciclica (cf. Humanae Vitae, 12).

Mercoledì, 10 ottobre 1984

1. Continuiamo a delineare la spiritualità coniugale nella luce dell’enciclica Humanae Vitae.

Secondo la dottrina in essa contenuta, conformemente alle fonti bibliche e a tutta la tradizione, l’amore è - dal punto di vista soggettivo - “forza”, cioè capacità dello spirito umano, di carattere “teologico” (o piuttosto “teologale”). Questa è dunque la forza data all’uomo per partecipare a quell’amore con cui Dio stesso ama nel mistero della creazione e della redenzione. È quell’amore che “si compiace della verità” (1 Cor 13, 6), nel quale cioè si esprime la gioia spirituale (il “frui” agostiniano) di ogni autentico valore: gaudio simile al gaudio dello stesso Creatore, il quale al principio vide che “era cosa molto buona” (Gen 1, 31).

Se le forze della concupiscenza tentano di staccare il “linguaggio del corpo” dalla verità, tentano cioè di falsificarlo, la forza dell’amore invece lo corrobora sempre di nuovo in quella verità, affinché il mistero della redenzione del corpo possa fruttificare in essa.

2. Lo stesso amore, che rende possibile e fa sì che il dialogo coniugale si attui secondo la verità piena della vita degli sposi, è a un tempo forza ossia capacità di carattere morale, orientata attivamente verso la pienezza del bene e per ciò stesso verso ogni vero bene. E perciò il suo compito consiste nel salvaguardare l’unità inscindibile dei “due significati dell’atto coniugale”, di cui tratta l’enciclica (Pauli VI, Humanae Vitae, 12), vale a dire nel proteggere sia il valore della vera unione dei coniugi (cioè della comunione personale) sia quello della paternità e maternità responsabili (nella loro forma matura e degna dell’uomo).

3. Secondo il linguaggio tradizionale, l’amore, quale “forza” superiore, coordina le azioni delle persone, del marito e della moglie, nell’ambito dei fini del matrimonio. Sebbene né la costituzione conciliare né l’enciclica, nell’affrontare l’argomento, usino il linguaggio un tempo consueto, essi trattano, tuttavia, di ciò a cui si riferiscono le espressioni tradizionali.

L’amore, come forza superiore che l’uomo e la donna ricevono da Dio insieme alla particolare “consacrazione” del sacramento del matrimonio, comporta una coordinazione corretta dei fini, secondo i quali - nell’insegnamento tradizionale della Chiesa - si costituisce l’ordine morale (o piuttosto “teologale e morale”) della vita dei coniugi.

La dottrina della costituzione Gaudium et Spes, come pure quella dell’enciclica Humanae Vitae, chiariscono lo stesso ordine morale nel riferimento all’amore, inteso come forza superiore che conferisce adeguato contenuto e valore agli atti coniugali secondo la verità dei due significati, quello unitivo e quello procreativo, nel rispetto della loro inscindibilità.

In questa rinnovata impostazione, il tradizionale insegnamento sui fini del matrimonio (e sulla loro gerarchia) viene confermato e insieme approfondito dal punto di vista della vita interiore dei coniugi, ossia della spiritualità coniugale e familiare.

4. Il compito dell’amore, che è “effuso nei cuori” (Rm 5, 5) degli sposi come la fondamentale forza spirituale del loro patto coniugale, consiste - come si è detto - nel proteggere sia il valore della vera comunione dei coniugi, sia quello della paternità-maternità veramente responsabile. La forza dell’amore - autentica nel senso teologico ed etico - si esprime in questo che l’amore unisce correttamente “i due significati dell’atto coniugale”, escludendo non solo nella teoria, ma soprattutto nella pratica, la “contraddizione” che potrebbe verificarsi in questo campo. Tale “contraddizione” è il più frequente motivo di obiezione all’enciclica Humanae Vitae e all’insegnamento della Chiesa. Occorre un’analisi ben approfondita, e non soltanto teologica ma anche antropologica (abbiamo cercato di farla in tutta la presente riflessione), per dimostrare che non bisogna qui parlare di contraddizione”, ma soltanto di “difficoltà”. Orbene, l’enciclica stessa sottolinea tale “difficoltà” in vari passi.

E questa deriva dal fatto che la forza dell’amore è innestata nell’uomo insidiato dalla concupiscenza: nei soggetti umani l’amore s’imbatte con la triplice concupiscenza (cf. 1 Gv 2, 16), in particolare con la concupiscenza della carne che deforma la verità del “linguaggio del corpo”. E perciò anche l’amore non è in grado di realizzarsi nella verità del “linguaggio del corpo”, se non mediante il dominio sulla concupiscenza.

5. Se l’elemento chiave della spiritualità dei coniugi e dei genitori - quella essenziale “forza” che i coniugi debbono di continuo attingere dalla “consacrazione” sacramentale - è l’amore, questo amore, come risulta dal testo dell’enciclica (cf. Pauli VI, Humanae Vitae, 20), è per sua natura congiunto con la castità che si manifesta come padronanza di sé, ossia come continenza: in particolare, come continenza periodica. Nel linguaggio biblico, sembra alludere a ciò l’autore della Lettera agli Efesini, quando nel suo “classico” testo esorta gli sposi a essere “sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo” (Ef 5, 21).

Si può dire che l’enciclica Humanae Vitae costituisca appunto lo sviluppo di questa verità biblica sulla spiritualità cristiana coniugale e familiare. Tuttavia per renderlo ancor più manifesto occorre un’analisi più profonda della virtù della continenza e del suo particolare significato per la verità del mutuo “linguaggio del corpo” nella convivenza coniugale e (indirettamente) nell’ampia sfera dei reciproci rapporti tra l’uomo e la donna.

Intraprenderemo questa analisi durante le successive riflessioni del mercoledì.

Mercoledì, 24 ottobre 1984

1. In conformità a quanto preannunciato, intraprendiamo oggi l’analisi della virtù della continenza.

La “continenza”, che fa parte della virtù più generale della temperanza, consiste nella capacità di dominare, controllare e orientare le pulsioni di carattere sessuale (concupiscenza della carne) e le loro conseguenze, nella soggettività psico-somatica dell’uomo. Tale capacità, in quanto disposizione costante della volontà, merita di essere chiamata virtù.

Sappiamo dalle precedenti analisi che la concupiscenza della carne, e il relativo “desiderio” di carattere sessuale da essa suscitato, si esprime con una specifica pulsione nella sfera della reattività somatica e inoltre con un’eccitazione psico-emotiva dell’impulso sessuale.

Il soggetto personale per giungere a padroneggiare tale pulsione ed eccitazione deve impegnarsi in una progressiva educazione all’autocontrollo della volontà, dei sentimenti, delle emozioni, che deve svilupparsi a partire dai gesti più semplici, nei quali è relativamente facile tradurre in atto la decisione interiore. Ciò suppone, com’è ovvio, la chiara percezione dei valori espressi nella norma e la conseguente maturazione di salde convinzioni che, se accompagnate dalla rispettiva disposizione della volontà, danno origine alla corrispondente virtù. Tale è appunto la virtù della continenza (padronanza di sé), che si rivela fondamentale condizione sia perché il reciproco linguaggio del corpo rimanga nella verità, e sia perché i coniugi “siano sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo”, secondo le parole bibliche (Ef 5, 21). Questa “sottomissione reciproca” significa la comune sollecitudine per la verità del “linguaggio del corpo”, la sottomissione invece “nel timore di Cristo” indica il dono del timore di Dio (dono dello Spirito Santo) che accompagna la virtù della continenza.

2. Questo è molto importante per un’adeguata comprensione della virtù della continenza e, in particolare, della cosiddetta “continenza periodica”, di cui tratta l’enciclica Humanae Vitae. La convinzione che la virtù della continenza “si oppone” alla concupiscenza della carne è giusta, ma non è del tutto completa. Non è completa, specialmente quando teniamo conto del fatto che questa virtù non appare e non agisce astrattamente e quindi isolatamente, ma sempre in connessione con le altre (“nexus virtutum”), dunque in connessione con la prudenza, giustizia, fortezza e soprattutto con la carità.

Alla luce di queste considerazioni, è facile intendere che la continenza non si limita a opporre resistenza alla concupiscenza della carne, ma mediante questa resistenza si apre ugualmente a quei valori, più profondi e più maturi, che ineriscono al significato sponsale del corpo nella sua femminilità e mascolinità, come anche all’autentica libertà del dono nel reciproco rapporto delle persone. La concupiscenza stessa della carne, in quanto cerca anzitutto il godimento carnale e sensuale, rende l’uomo, in certo senso, cieco e insensibile ai valori più profondi che scaturiscono dall’amore e che nello stesso tempo costituiscono l’amore nella verità interiore che gli è propria.

3. In tal modo si manifesta anche il carattere essenziale della castità coniugale nel suo legame organico con la “forza” dell’amore, che è effuso nei cuori degli sposi insieme alla “consacrazione” del sacramento del matrimonio. Diviene inoltre evidente che l’invito diretto ai coniugi, affinché siano “sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo” (Ef 5, 21), sembra aprire quello spazio interiore in cui entrambi divengono sempre più sensibili ai valori più profondi e più maturi, che sono connessi con il significato sponsale del corpo e con la vera libertà del dono.

Se la castità coniugale (e la castità in generale) si manifesta dapprima come capacità di resistere alla concupiscenza della carne, in seguito essa gradualmente si rivela quale singolare capacità di percepire, amare e attuare quei significati del “linguaggio del corpo”, che rimangono del tutto sconosciuti alla concupiscenza stessa e che progressivamente arricchiscono il dialogo sponsale dei coniugi, purificandolo, approfondendolo e insieme semplificandolo.

Perciò quell’ascesi della continenza, di cui parla l’enciclica (Pauli VI, Humanae Vitae, 21) non comporta l’impoverimento delle “manifestazioni affettive”, anzi le rende più intense spiritualmente, e quindi ne comporta l’arricchimento.

4. Analizzando in tal modo la continenza, nella dinamica propria di questa virtù (antropologica, etica e teologica), ci accorgiamo che sparisce quell’apparente “contraddizione” che viene spesso obiettata all’enciclica Humanae Vitae e alla dottrina della Chiesa sulla morale coniugale. Esisterebbe cioè “contraddizione” (secondo coloro che muovono questa obiezione) tra i due significati dell’atto coniugale, il significato unitivo e quello procreativo (cf. Humanae Vitae, 12), così che se non fosse lecito dissociarli i coniugi verrebbero privati del diritto all’unione coniugale, quando non potessero responsabilmente permettersi di procreare.

A questa apparente “contraddizione” dà risposta l’enciclica Humanae Vitae se studiata profondamente. Papa Paolo VI conferma, infatti, che non esiste tale “contraddizione”, ma soltanto una “difficoltà” collegata con tutta la situazione interiore dell’“uomo della concupiscenza”. Invece, precisamente in ragione di questa “difficoltà”, viene assegnato all’impegno interiore e ascetico dei coniugi il vero ordine della convivenza coniugale, in vista del quale essi vengono “corroborati e quasi consacrati” (Humanae Vitae, 25) dal sacramento del matrimonio.

5. Quell’ordine della convivenza coniugale significa inoltre l’armonia soggettiva tra la paternità (responsabile) e la comunione personale, armonia creata dalla castità coniugale. In essa, di fatto, maturano i frutti interiori della continenza. Attraverso questa maturazione interiore lo stesso atto coniugale acquista l’importanza e dignità che gli è propria nel suo significato potenzialmente procreativo; contemporaneamente acquistano un adeguato significato tutte le “manifestazioni affettive” (Humanae Vitae, 21), che servono a esprimere la comunione personale dei coniugi proporzionalmente alla ricchezza soggettiva della femminilità e mascolinità.

6. Conformemente all’esperienza e alla tradizione, l’enciclica rivela che l’atto coniugale è anche una “manifestazione di affetto” (Humanae Vitae, 16), ma una “manifestazione di affetto” particolare, perché, al tempo stesso ha un significato potenzialmente procreativo, Di conseguenza, esso è orientato ad esprimere l’unione personale, ma non soltanto quella. Contemporaneamente l’enciclica, sia pure in modo indiretto, indica molteplici “manifestazioni di affetto”, efficaci esclusivamente ad esprimere l’unione personale dei coniugi.

Il compito della castità coniugale, e ancor più precisamente quello della continenza, non sta solo nel proteggere l’importanza e la dignità dell’atto coniugale in rapporto al suo significato potenzialmente procreativo, ma anche nel tutelare l’importanza e la dignità proprie dell’atto coniugale in quanto espressivo dell’unione interpersonale, svelando alla coscienza e all’esperienza dei coniugi tutte le altre possibili “manifestazioni di affetto”, che esprimano tale loro comunione profonda.

Si tratta infatti di non recare danno alla comunione dei coniugi nel caso in cui per giuste ragioni essi debbano astenersi dall’atto coniugale. E, ancor più, che tale comunione, costruita di continuo, giorno per giorno, mediante conformi “manifestazioni affettive”, costituisca, per così dire, un vasto terreno su cui, nelle condizioni opportune, matura la decisione di un atto coniugale moralmente retto.

Mercoledì, 31 ottobre 1984

1. Procediamo nell’analisi della continenza, alla luce dell’insegnamento contenuto nell’enciclica Humanae Vitae. Si pensa spesso che la continenza provochi tensioni interiori, dalle quali l’uomo deve liberarsi. Alla luce delle analisi compiute, la continenza, integralmente intesa, è piuttosto l’unica via per liberare l’uomo da tali tensioni. Essa significa nient’altro che lo sforzo spirituale che mira ad esprimere il “linguaggio del corpo” non solo nella verità, ma anche nell’autentica ricchezza delle “manifestazioni di affetto”.

2. È possibile questo sforzo? Con altre parole (e sotto altro aspetto) ritorna qui l’interrogativo circa l’“attuabilità della norma morale”, ricordata e confermata dall’Humanae Vitae. Esso costituisce uno degli interrogativi più essenziali (ed attualmente anche uno dei più urgenti) nell’ambito della spiritualità coniugale.

La Chiesa è pienamente convinta della giustezza del principio che afferma la paternità e maternità responsabili - nel senso spiegato in precedenti catechesi - e questo non soltanto per motivi “demografici”, ma per ragioni più essenziali. Responsabile chiamiamo la paternità e maternità che corrispondono alla dignità personale dei coniugi come genitori, alla verità della loro persona e dell’atto coniugale. Di qui deriva lo stretto e diretto rapporto che collega questa dimensione con tutta la spiritualità coniugale.

Il papa Paolo VI, nella Humanae Vitae, ha espresso ciò che d’altronde avevano affermato molti autorevoli moralisti e scienziati anche non cattolici, e cioè precisamente che in questo campo, tanto profondamente ed essenzialmente umano e personale, occorre anzitutto far riferimento all’uomo come persona, al soggetto che decide di se stesso e non ai “mezzi” che lo fanno “oggetto” (di manipolazioni) e lo “depersonalizzano”. Si tratta dunque qui di un significato autenticamente “umanistico” dello sviluppo e del progresso della civiltà umana.

3. È possibile questo sforzo? Tutta la problematica dell’enciclica Humanae Vitae non si riduce semplicemente alla dimensione biologica della fertilità umana (alla questione dei “ritmi naturali di fecondità”), ma risale alla soggettività stessa dell’uomo, a quell’“io” personale, per cui egli è uomo o è donna.

Già durante la discussione nel Concilio Vaticano II, in relazione al capitolo della Gaudium et Spes sulla “Dignità del matrimonio e della famiglia e la sua valorizzazione” si parlava della necessità di un’analisi approfondita delle relazioni (e anche delle emozioni) collegate con la reciproca influenza della mascolinità e femminilità sul soggetto umano. Questo problema appartiene non tanto alla biologia quanto alla psicologia: dalla biologia e psicologia passa in seguito nella sfera della spiritualità coniugale e familiare. Qui, infatti, questo problema è in stretto rapporto con il metodo di intendere la virtù della continenza, ossia della padronanza di sé e, in particolare, della continenza periodica.

4. Un’attenta analisi della psicologia umana (che è ad un tempo una soggettiva autoanalisi e in seguito diviene analisi di un “oggetto” accessibile alla scienza umana), consente di giungere ad alcune affermazioni essenziali. Di fatto, nelle relazioni interpersonali in cui si esprime l’influsso reciproco della mascolinità e femminilità, si libera nel soggetto psico-emotivo nell’“io” umano, accanto a una reazione qualificabile come “eccitazione”, un’altra reazione che può e deve essere chiamata “emozione”. Benché questi due generi di reazioni appaiano congiunti, è possibile distinguerli sperimentalmente e “differenziarli” riguardo al contenuto ovvero al loro “oggetto”.

La differenza oggettiva tra l’uno e l’altro genere di reazioni consiste nel fatto che l’eccitazione è anzitutto “corporea” e in questo senso, “sessuale”; l’emozione invece - sebbene suscitata dalla reciproca reazione della mascolinità e femminilità - si riferisce soprattutto all’altra persona intesa nella sua “integralità”. Si può dire che questa è una “emozione causata dalla persona”, in rapporto alla sua mascolinità o femminilità.

5. Ciò che qui affermiamo relativamente alla psicologia delle reciproche reazioni della mascolinità e femminilità aiuta a comprendere la funzione della virtù della continenza, di cui si è parlato in precedenza. Questa non è soltanto - e neppure principalmente - la capacità di “astenersi”, cioè la padronanza delle molteplici reazioni che s’intrecciano nel reciproco influsso della mascolinità e femminilità: una tale funzione potrebbe essere definita come “negativa”. Ma esiste anche un’altra funzione (che possiamo chiamare “positiva”) della padronanza di sé: ed è la capacità di dirigere le rispettive reazioni, sia quanto al loro contenuto sia quanto al loro carattere.

È stato già detto che, nel campo delle reciproche reazioni della mascolinità e femminilità, l’“eccitazione” e l’“emozione” appaiono non soltanto come due distinte e differenti esperienze dell’“io” umano, ma molto spesso appaiono congiunte nell’ambito della stessa esperienza quali due diverse componenti di essa. Da varie circostanze di natura interiore ed esteriore dipende la reciproca proporzione in cui queste due componenti appaiono in una determinata esperienza. Alle volte prevale nettamente una delle componenti, altre volte piuttosto c’è equilibrio tra loro.

6. La continenza, quale capacità di dirigere l’“eccitazione” e l’“emozione” nella sfera dell’influsso reciproco della mascolinità e femminilità, ha il compito essenziale di mantenere l’equilibrio tra la comunione in cui i coniugi desiderano esprimere reciprocamente soltanto la loro unione intima e quella in cui (almeno implicitamente) accolgono la paternità responsabile. Difatti, l’“eccitazione” e l’“emozione” possono pregiudicare, da parte del soggetto, l’orientamento e il carattere del reciproco “linguaggio del corpo”.

L’eccitazione cerca anzitutto di esprimersi nella forma del piacere sensuale e corporeo, ossia tende all’atto coniugale che (dipendente dai “ritmi naturali di fecondità”) comporta la possibilità di procreazione. Invece l’emozione provocata da un altro essere umano come persona, anche se nel suo contenuto emotivo è condizionata dalla femminilità o mascolinità dell’“altro”, non tende di per sé all’atto coniugale, ma si limita ad altre “manifestazioni di affetto”, nelle quali si esprime il significato sponsale del corpo, e che tuttavia non racchiudono il suo significato (potenzialmente) procreativo.

È facile comprendere quali conseguenze derivano da ciò rispetto al problema della paternità e maternità responsabili. Queste conseguenze sono di natura morale.

Mercoledì, 7  novembre 1984

1. Proseguiamo l’analisi della virtù della continenza alla luce della dottrina contenuta nell’enciclica Humanae Vitae. Conviene ricordare che i grandi classici del pensiero etico (e antropologico), sia precristiani sia cristiani (Tommaso d’Aquino), vedono nella virtù della continenza non soltanto la capacità di “contenere” le reazioni corporali e sensuali, ma ancor più la capacità di controllare e guidare tutta la sfera sensuale ed emotiva dell’uomo. Nel caso in questione si tratta della capacità di dirigere sia la linea dell’eccitazione verso il suo corretto sviluppo, sia anche la linea dell’emozione stessa, orientandola verso l’approfondimento e l’intensificazione interiore del suo carattere “puro” e, in un certo senso, “disinteressato”.

2. Questa differenziazione tra la linea dell’eccitazione e la linea dell’emozione non è una contrapposizione. Essa non significa che l’atto coniugale, come effetto dell’eccitazione, non comporti nello stesso tempo la commozione dell’altra persona. Certamente è così, o comunque, non dovrebbe essere altrimenti.

Nell’atto coniugale, l’unione intima dovrebbe comportare una particolare intensificazione dell’emozione, anzi, la commozione dell’altra persona. Ciò è anche contenuto nella Lettera agli Efesini, sotto forma di esortazione, diretta ai coniugi: “Siate sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo” (Ef 5, 21).

La distinzione tra “eccitazione” ed “emozione”, rilevata in questa analisi, comprova soltanto la soggettiva ricchezza reattivo-emotiva dell’“io” umano; questa ricchezza esclude qualunque riduzione unilaterale e fa sì che la virtù della continenza possa essere attuata come capacità di dirigere il manifestarsi sia dell’eccitazione sia dell’emozione, suscitate dalla reciproca reattività della mascolinità e della femminilità.

3. La virtù della continenza, così intesa, ha un ruolo essenziale per mantenere l’equilibrio interiore tra i due significati, l’unitivo e il procreativo, dell’atto coniugale (cf. Pauli VI, Humanae Vitae, 12), in vista di una paternità e maternità veramente responsabili.

L’enciclica Humanae Vitae dedica la dovuta attenzione all’aspetto biologico del problema, vale a dire, al carattere ritmico della fecondità umana. Sebbene tale periodicità possa essere chiamata, alla luce dell’enciclica, indice provvidenziale per una paternità e maternità responsabili, tuttavia non solo a questo livello si risolve un problema come questo, che ha un significato così profondamente personalistico e sacramentale (teologico).

L’enciclica insegna la paternità e maternità responsabili “come verifica di un maturo amore coniugale” e perciò contiene non soltanto la risposta al concreto interrogativo che si pone nell’ambito dell’etica della vita coniugale, ma, come è già stato detto, indica altresì un tracciato della spiritualità coniugale, che desideriamo almeno delineare.

4. Il corretto modo di intendere e praticare la continenza periodica quale virtù (ossia, secondo la Humanae Vitae, 21, la “padronanza di sé”) decide anche essenzialmente della “naturalità” del metodo, denominato anch’esso “metodo naturale”: questa è “naturalità” a livello della persona. Non si può quindi pensare a un’applicazione meccanica delle leggi biologiche. La conoscenza stessa dei “ritmi di fecondità” – anche se indispensabile – non crea ancora quella libertà interiore del dono, che è di natura esplicitamente spirituale e dipende dalla maturità dell’uomo interiore. Questa libertà suppone una capacità tale di dirigere le reazioni sensuali ed emotive, da rendere possibile la donazione di sé all’altro “io” in base al possesso maturo del proprio “io” nella sua soggettività corporea ed emotiva.

5. Come è noto dalle analisi bibliche e teologiche fatte in precedenza, il corpo umano nella sua mascolinità e femminilità è interiormente ordinato alla comunione delle persone (“communio personarum”). In questo consiste il suo significato sponsale.

Proprio il significato sponsale del corpo è stato deformato, quasi alle sue stesse basi, dalla concupiscenza (in particolare dalla concupiscenza della carne, nell’ambito della “triplice concupiscenza”). La virtù della continenza nella sua forma matura svela gradatamente l’aspetto “puro” del significato sponsale del corpo. In tal modo la continenza sviluppa la comunione personale dell’uomo e della donna, comunione che non è in grado di formarsi e di svilupparsi nella piena verità delle sue possibilità unicamente sul terreno della concupiscenza. Appunto ciò afferma l’enciclica Humanae Vitae. Tale verità ha due aspetti: quello personalistico e quello teologico.

Mercoledì, 14  novembre 1984

1. Alla luce dell’enciclica Humanae Vitae l’elemento fondamentale della spiritualità coniugale è l’amore effuso nei cuori degli sposi come dono dello Spirito Santo (cf. Rm 5, 5). Gli sposi ricevono nel sacramento questo dono insieme a una particolare “consacrazione”. L’amore è unito alla castità coniugale che, manifestandosi come continenza, realizza l’ordine interiore della convivenza coniugale.

La castità è vivere nell’ordine del cuore. Questo ordine consente lo sviluppo delle “manifestazioni affettive” nella proporzione e nel significato loro propri. In tal modo viene confermata anche la castità coniugale come “vita dello Spirito” (cf. Gal 5, 25), secondo l’espressione di san Paolo. L’apostolo aveva in mente non soltanto le energie immanenti dello spirito umano, ma soprattutto l’influsso santificante dello Spirito Santo e i suoi doni particolari.

2. Al centro della spiritualità coniugale sta dunque la castità, non solo come virtù morale (formata dall’amore), ma parimente come virtù connessa con i doni dello Spirito Santo - anzitutto con il dono del rispetto di ciò che viene da Dio (“donum pietatis”). Questo dono è nella mente dell’autore della Lettera agli Efesini, quando esorta i coniugi ad essere “sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo” (Ef 5, 21). Così dunque l’ordine interiore della convivenza coniugale, che consente alle “manifestazioni affettive” di svilupparsi secondo la loro giusta proporzione e significato, è frutto non solo della virtù in cui i coniugi si esercitano, ma anche dei doni dello Spirito Santo con cui collaborano.

L’enciclica Humanae Vitae in alcuni passi del testo (particolarmente 21; 26), trattando della specifica ascesi coniugale, ossia dell’impegno per acquistare la virtù dell’amore, della castità e della continenza, parla indirettamente dei doni dello Spirito Santo, ai quali i coniugi divengono sensibili nella misura della maturazione nella virtù.

3. Ciò corrisponde alla vocazione dell’uomo al matrimonio. Quei “due”, i quali - secondo l’espressione più antica della Bibbia - “saranno una sola carne” (Gen 2, 24), non possono attuare tale unione al livello delle persone (“communio personarum”), se non mediante le forze provenienti dallo spirito, e precisamente, dallo Spirito Santo che purifica, vivifica, corrobora e perfeziona le forze dello spirito umano. “È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla” (Gv 6, 63).

Ne risulta che le linee essenziali della spiritualità coniugale sono “dal principio” iscritte nella verità biblica sul matrimonio. Tale spiritualità è anche “da principio” aperta ai doni dello Spirito Santo. Se l’enciclica Humanae Vitae esorta i coniugi ad una “perseverante preghiera” e alla vita sacramentale (dicendo: “attingano soprattutto nell’Eucaristia la sorgente della grazia e della carità”; “ricorrano con umile perseveranza alla misericordia di Dio, che viene elargita nel sacramento della Penitenza”, Pauli VI, Humanae Vitae, 25), essa lo fa in quanto è memore dello Spirito che “dà vita” (2 Cor 3, 6).

4. I doni dello Spirito Santo, e in particolare il dono del rispetto di ciò che è sacro, sembrano avere qui un significato fondamentale. Tale dono sostiene infatti e sviluppa nei coniugi una singolare sensibilità a tutto ciò che nella loro vocazione e convivenza porta il segno del mistero della creazione e redenzione: a tutto ciò che è un riflesso creato della sapienza e dell’amore di Dio. Pertanto quel dono sembra iniziare l’uomo e la donna in modo particolarmente profondo al rispetto dei due significati inscindibili dell’atto coniugale, di cui parla l’enciclica (Humanae Vitae, 12) in rapporto al sacramento del matrimonio. Il rispetto dei due significati dell’atto coniugale può svilupparsi pienamente solo in base ad un profondo riferimento alla dignità personale di ciò che nella persona umana è intrinseco alla mascolinità e femminilità, e inscindibilmente in riferimento alla dignità personale della nuova vita, che può sorgere dall’unione coniugale dell’uomo e della donna. Il dono del rispetto di quanto è creato da Dio si esprime appunto in tale riferimento.

5. Il rispetto del duplice significato dell’atto coniugale nel matrimonio, che nasce dal dono del rispetto per la creazione di Dio, si manifesta anche come timore salvifico: timore di infrangere o di degradare ciò che porta in sé il segno del mistero divino della creazione e redenzione. Di tale timore parla appunto l’autore della Lettera agli efesini: “Siate sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo” (Ef 5, 21).

Se tale timore salvifico si associa immediatamente alla funzione “negativa” della continenza (ossia alla resistenza nei riguardi della concupiscenza della carne), esso si manifesta pure - e in misura crescente, via via che tale virtù matura - come sensibilità piena di venerazione per i valori essenziali dell’unione coniugale: per i “due significati dell’atto coniugale (ovvero, parlando nel linguaggio delle analisi precedenti, per la verità interiore del mutuo “linguaggio del corpo”).

In base a un profondo riferimento a questi due valori essenziali, ciò che significa unione dei coniugi viene armonizzato nel soggetto con ciò che significa paternità e maternità responsabili. Il dono del rispetto di ciò che è creato da Dio fa sì che l’apparente “contraddizione” in questa sfera sparisca e la difficoltà derivante dalla concupiscenza venga gradatamente superata, grazie alla maturità della virtù e alla forza del dono dello Spirito Santo.

6. Se si tratta della problematica della cosiddetta continenza periodica (ossia del ricorso ai “metodi naturali”), il dono del rispetto per l’opera di Dio aiuta, in linea di massima, a conciliare la dignità umana con i “ritmi naturali di fecondità”, cioè con la dimensione biologica della femminilità e mascolinità dei coniugi; dimensione che ha anche un proprio significato per la verità del mutuo “linguaggio del corpo” nella convivenza coniugale.

In tal modo, anche ciò che - non tanto nel senso biblico, quanto addirittura in quello “biologico” - si riferisce all’“unione coniugale del corpo”, trova la sua forma umanamente matura grazie alla vita “secondo lo spirito”.

Tutta la pratica dell’onesta regolazione della fertilità, così strettamente unita alla paternità e maternità responsabili, fa parte della cristiana spiritualità coniugale e familiare; e soltanto vivendo “secondo lo Spirito” diventa interiormente vera e autentica.

Mercoledì, 21  novembre 1984

1. Sullo sfondo della dottrina contenuta nell’enciclica Humanae Vitae intendiamo tracciare un abbozzo della spiritualità coniugale. Nella vita spirituale dei coniugi operano anche i doni dello Spirito Santo e, in particolare, il “donum pietatis”, cioè il dono del rispetto per ciò che è opera di Dio.

2. Questo dono, unito all’amore e alla castità, aiuta a identificare, nell’insieme della convivenza coniugale, quell’atto in cui, almeno potenzialmente, il significato sponsale del corpo si collega col significato procreativo. Esso orienta a capire, tra le possibili “manifestazioni di affetto”, il significato singolare, anzi, eccezionale di quell’atto: la sua dignità e la conseguente grave responsabilità ad esso connessa. Pertanto, l’antitesi della spiritualità coniugale è costituita, in certo senso, dalla soggettiva mancanza di tale comprensione, legata alla pratica e alla mentalità anticoncezionali. Oltre a tutto, ciò è un enorme danno dal punto di vista dell’interiore cultura dell’uomo. La virtù della castità coniugale, e ancor più il dono del rispetto per ciò che viene da Dio, modellano la spiritualità dei coniugi al fine di proteggere la particolare dignità di questo atto, di questa “manifestazione di affetto”, in cui la verità del “linguaggio del corpo” può essere espressa solo salvaguardando la potenzialità procreativa.

La paternità e maternità responsabili significano la spirituale valutazione - conforme alla verità - dell’atto coniugale nella coscienza e nella volontà di entrambi i coniugi, che in questa “manifestazione di affetto”, dopo aver considerato le circostanze interiori ed esterne, in particolare quelle biologiche, esprimono la loro matura disponibilità alla paternità e maternità.

3. Il rispetto per l’opera di Dio contribuisce a far sì che l’atto coniugale non venga sminuito e privato d’interiorità nell’insieme della convivenza coniugale - che non divenga “abitudine” - e che in esso si esprima un’adeguata pienezza di contenuti personali ed etici, e anche di contenuti religiosi, cioè la venerazione alla maestà del Creatore, unico e ultimo depositario della sorgente della vita, e all’amore sponsale del Redentore. Tutto ciò crea e allarga, per così dire, lo spazio interiore della mutua libertà del dono, in cui si manifesta pienamente il significato sponsale della mascolinità e femminilità.

L’ostacolo a questa libertà è dato dall’interiore costrizione della concupiscenza, diretta verso l’altro “io” quale oggetto di godimento. Il rispetto di ciò che è creato da Dio libera da questa costrizione, libera da tutto ciò che riduce l’altro “io” a semplice oggetto: corrobora la libertà interiore del dono.

4. Ciò può realizzarsi soltanto attraverso una profonda comprensione della dignità personale, sia dell’“io” femminile che di quello maschile, nella reciproca convivenza. Tale comprensione spirituale è il frutto fondamentale del dono dello Spirito che spinge la persona a rispettare l’opera di Dio. Da tale comprensione, e dunque indirettamente da quel dono, attingono il vero significato sponsale tutte le “manifestazioni affettive”, che costituiscono la trama del perdurare dell’unione coniugale. Questa unione si esprime attraverso l’atto coniugale solo in circostanze determinate, ma può e deve manifestarsi continuamente, ogni giorno, attraverso varie “manifestazioni affettive”, le quali sono determinate dalla capacità di una “disinteressata” emozione dell’“io” in rapporto alla femminilità e - reciprocamente - in rapporto alla mascolinità.

L’atteggiamento di rispetto per l’opera di Dio, che lo Spirito suscita nei coniugi, ha un enorme significato per quelle “manifestazioni affettive”, poiché di pari passo con esso va la capacità del profondo compiacimento, dell’ammirazione, della disinteressata attenzione alla “visibile” bellezza della femminilità e mascolinità, e infine un profondo apprezzamento del dono disinteressato dell’“altro”.

5. Tutto ciò decide della identificazione spirituale di ciò che è maschile o femminile, di ciò che è “corporeo” e insieme spirituale. Da questa spirituale identificazione emerge la consapevolezza dell’unione “attraverso il corpo”, nella tutela della libertà interiore del dono. Mediante le “manifestazioni affettive” i coniugi si aiutano vicendevolmente a perdurare nell’unione, e al tempo stesso queste “manifestazioni” proteggono in ciascuno quella “pace del profondo” che è, in certo senso, la risonanza interiore della castità guidata dal dono del rispetto per ciò che è creato da Dio.

Questo dono comporta una profonda e universale attenzione alla persona nella sua mascolinità e femminilità, creando così il clima interiore idoneo alla comunione personale. Solo in tale clima di comunione personale dei coniugi matura correttamente quella procreazione, che qualifichiamo come “responsabile”.

6. L’enciclica Humanae Vitae ci consente di tracciare un abbozzo della spiritualità coniugale. Questo è il clima umano e soprannaturale in cui - tenendo conto dell’ordine “biologico” e, ad un tempo, in base alla castità sostenuta dal “donum pietatis” - si plasma l’interiore armonia del matrimonio, nel rispetto di ciò che l’enciclica chiama “duplice significato dell’atto coniugale” (Pauli VI, Humanae Vitae, 12). Questa armonia significa che i coniugi convivono insieme nell’interiore verità del “linguaggio del corpo”. L’enciclica Humanae Vitae proclama inscindibile la connessione tra questa “verità” e l’amore.

Mercoledì, 28  novembre 1984

1. L’insieme delle catechesi che ho iniziato da oltre quattro anni e che oggi concludo, può essere compreso sotto il titolo: “L’amore umano nel piano divino”, o con maggior precisione: “La redenzione del corpo e la sacramentalità del matrimonio”. Esse si dividono in due parti.

La prima parte è dedicata all’analisi delle parole di Cristo, che risultano adatte ad aprire il tema presente. Queste parole sono state analizzate a lungo nella globalità del testo evangelico: e in seguito alla pluriennale riflessione si è convenuto di porre in rilievo i tre testi, che sono sottoposti all’analisi appunto nella prima parte delle catechesi. C’è anzitutto il testo in cui Cristo si riferisce “al principio” nel colloquio con i farisei sull’unità e indissolubilità del matrimonio (cf. Mt 19, 8; Mc 10, 6-9). Proseguendo, ci sono le parole pronunziate da Cristo nel discorso della montagna sulla “concupiscenza” come “adulterio commesso nel cuore” (cf. Mt 5, 28). Infine, ci sono le parole trasmesse da tutti i sinottici, in cui Cristo si richiama alla risurrezione dei corpi nell’“altro mondo” (cf. Mt 22, 30; Mc 12, 25; Lc 20, 35).

La parte seconda della catechesi è stata dedicata all’analisi del sacramento in base alla Lettera agli Efesini (Ef 5, 22-33) che si riporta al biblico “principio” del matrimonio espresso nelle parole del libro della Genesi: “. . . l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne” (Gen 2, 24).

Le catechesi della prima e della seconda parte si servono ripetutamente del termine teologia del corpo. Questo, in certo senso, è un termine “di lavoro”. L’introduzione del termine e del concetto di “teologia del corpo” era necessaria per fondare il tema: “La redenzione del corpo e la sacramentalità del matrimonio” su una base più ampia. Bisogna infatti osservare subito che il termine “teologia del corpo” oltrepassa ampiamente il contenuto delle riflessioni fatte. Queste riflessioni non comprendono molteplici problemi che, riguardo al loro oggetto, appartengono alla teologia del corpo (come per esempio il problema della sofferenza e della morte, così rilevante nel messaggio biblico). Occorre dirlo chiaramente. Nondimeno, bisogna anche riconoscere in modo esplicito che le riflessioni sul tema: “La redenzione del corpo e la sacramentalità del matrimonio” possono essere svolte correttamente, partendo dal momento in cui la luce della rivelazione tocca la realtà del corpo umano (ossia sulla base della “teologia del corpo”). Ciò è confermato, tra l’altro, dalle parole del libro della Genesi: “I due saranno una sola carne”, parole che originariamente e tematicamente stanno alla base del nostro argomento.

2. Le riflessioni sul sacramento del matrimonio sono state condotte nella considerazione delle due dimensioni essenziali a questo sacramento (come ad ogni altro), cioè la dimensione dell’alleanza e della grazia e la dimensione del segno.

Attraverso queste due dimensioni siamo risaliti continuamente alle riflessioni sulla teologia del corpo, unite alle parole-chiave di Cristo. A queste riflessioni siamo risaliti anche intraprendendo, alla fine di tutto questo ciclo di catechesi, l’analisi dell’enciclica Humanae Vitae.

La dottrina contenuta in questo documento dell’insegnamento contemporaneo della Chiesa resta in rapporto organico sia con la sacramentalità del matrimonio sia con tutta la problematica biblica della teologia del corpo, centrata sulle “parole-chiave” di Cristo. In un certo senso si può perfino dire che tutte le riflessioni che trattano della “redenzione del corpo e della sacramentalità del matrimonio”, sembrano costituire un ampio commento alla dottrina contenuta appunto nell’enciclica Humanae Vitae.

Tale commento sembra assai necessario. L’enciclica infatti, nel dare risposta ad alcuni interrogativi di oggi nell’ambito della morale coniugale e familiare, al tempo stesso ha suscitato anche altri interrogativi, come sappiamo, di natura bio-medica. Ma anche (e anzitutto) essi sono di natura teologica; appartengono a quell’ambito dell’antropologia e teologia, che abbiamo denominato “teologia del corpo”.

Le riflessioni fatte consistono nell’affrontare gli interrogativi sorti in rapporto all’enciclica Humanae Vitae. La reazione, che ha suscitato l’enciclica, conferma l’importanza e la difficoltà di questi interrogativi. Essi sono riaffermati anche dagli ulteriori enunciati di Paolo VI, ove egli rilevava la possibilità di approfondire l’esposizione della verità cristiana in questo settore.

Lo ha ribadito inoltre l’esortazione Familiaris Consortio, frutto del Sinodo dei vescovi del 1980: “De muneribus familiae christianae”. Il documento contiene un appello, diretto particolarmente ai teologi, a elaborare in modo più completo gli aspetti biblici e personalistici della dottrina contenuta nella Humanae Vitae.

Cogliere gli interrogativi suscitati dall’enciclica vuol dire formularli e al tempo stesso ricercarne la risposta. La dottrina contenuta nella Familiaris Consortio chiede che sia la formulazione degli interrogativi, sia la ricerca di un’adeguata risposta si concentrino sugli aspetti biblici e personalistici. Tale dottrina indica anche l’indirizzo di sviluppo della teologia del corpo, la direzione dello sviluppo e pertanto anche la direzione del suo progressivo completarsi e approfondirsi.

3. L’analisi degli aspetti biblici parla del modo di radicare la dottrina proclamata dalla Chiesa contemporanea nella rivelazione. Ciò è importante per lo sviluppo della teologia. Lo sviluppo, ossia il progresso nella teologia, si attua infatti attraverso un continuo riprendere lo studio del deposito rivelato.

Il radicamento della dottrina proclamata dalla Chiesa in tutta la tradizione e nella stessa rivelazione divina è sempre aperto agli interrogativi posti dall’uomo e si serve anche degli strumenti più conformi alla scienza moderna e alla cultura di oggi. Sembra che in questo settore l’intenso sviluppo dell’antropologia filosofica (in particolare dell’antropologia che sta alla base dell’etica) s’incontri molto da vicino con gli interrogativi suscitati dall’enciclica Humanae Vitae nei riguardi della teologia e specialmente dell’etica teologica.

L’analisi degli aspetti personalistici della dottrina contenuta in questo documento ha un significato esistenziale per stabilire in che cosa consista il vero progresso, cioè lo sviluppo dell’uomo. Esiste infatti in tutta la civiltà contemporanea - specie nella civiltà occidentale - un’occulta e insieme abbastanza esplicita tendenza a misurare questo progresso con la misura delle “cose”, cioè dei beni materiali.

L’analisi degli aspetti personalistici della dottrina della Chiesa, contenuta nell’enciclica di Paolo VI, mette in evidenza un appello risoluto a misurare il progresso dell’uomo con la misura della “persona”, ossia di ciò che è un bene dell’uomo come uomo, che corrisponde alla sua essenziale dignità. L’analisi degli aspetti personalistici porta alla convinzione che l’enciclica presenta come problema fondamentale il punto di vista dell’autentico sviluppo dell’uomo; tale sviluppo si misura infatti, in linea di massima, con la misura dell’etica e non soltanto della “tecnica”.

4. Le catechesi dedicate all’enciclica Humanae Vitae costituiscono solo una parte, la parte finale, di quelle che hanno trattato della redenzione del corpo e la sacramentalità del matrimonio.

Se richiamo particolarmente l’attenzione proprio a queste ultime catechesi, lo faccio non solo perché il tema da esse trattato è più strettamente unito alla nostra contemporaneità, ma anzitutto per il fatto che da esso provengono gli interrogativi, che permeano, in certo senso, l’insieme delle nostre riflessioni. Ne consegue che questa parte finale non è artificiosamente aggiunta all’insieme, ma è unita con esso in modo organico e omogeneo. In certo senso, quella parte che nella disposizione complessiva è collocata alla fine, si trova in pari tempo all’inizio di quest’insieme. Ciò è importante dal punto di vista della struttura e del metodo.

Anche il momento storico sembra avere il suo significato: difatti, le presenti catechesi sono state iniziate nel periodo dei preparativi al Sinodo dei vescovi 1980 sul tema del matrimonio e della famiglia (“De muneribus familiae christianae”), e terminano dopo la pubblicazione dell’esortazione Familiaris Consortio, che è frutto di lavori di questo Sinodo. È a tutti noto che il Sinodo del 1980 ha fatto riferimento anche all’enciclica Humanae Vitae e ne ha riconfermato pienamente la dottrina.

Tuttavia il momento più importante sembra quello essenziale, che, nell’insieme delle riflessioni compiute, si può precisare nel modo seguente: per affrontare gli interrogativi che suscita l’enciclica Humanae Vitae, soprattutto in teologia, per formulare tali interrogativi e cercarne la risposta, occorre trovare quell’ambito biblico teologico, a cui si allude quando parliamo di “redenzione del corpo e di sacramentalità del matrimonio”. In questo ambito si trovano le risposte ai perenni interrogativi della coscienza di uomini e donne, e anche ai difficili interrogativi del nostro mondo contemporaneo a riguardo del matrimonio e della procreazione.

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