Accoglienza Ufficiale all’Aeroporto Internazionale, Cerimonia ed Incontro con Presidente ed autorità a Budapest
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- Creato: 28 Aprile 2023
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Al Suo arrivo all’Aeroporto Internazionale Ferenc Liszt di Budapest, il Santo Padre Francesco è stato accolto dal Vice-Primo Ministro della Repubblica di Ungheria, S.E. il Signor Zsolt Semjén. Due bambini in abito tradizionale gli hanno offerto il pane e il sale.
Quindi, dopo la presentazione delle Delegazioni locali, il Papa e il Vice-Primo Ministro si sono rrecati presso la Sala Vip dell’Aeroporto per un breve incontro.
Al termine, Papa Francesco si è trasferito in auto al Palazzo Sándor per la Cerimonia di Benvenuto, la Visita di cortesia alla Presidente della Repubblica e l’incontro con il Primo Ministro.
Cerimonia di Benvenuto, Visita di cortesia alla Presidente della Repubblica e Incontro con il Primo Ministro presso il Palazzo Sándor
Alle ore 11.15, il Santo Padre è giunto al Palazzo Sándor dove ha avuto luogo la Cerimonia Ufficiale di Benvenuto.
Al Suo arrivo il Papa è stato accolto dalla Presidente della Repubblica di Ungheria, S.E. la Signora Katalin Novák, nel piazzale antistante il Palazzo.
Dopo la presentazione delle rispettive Delegazioni, l’onore alle bandiere, l’esecuzione degli inni e la Guardia d’Onore, il Papa e la Presidente hanno raggiunto la Sala Empire per la foto Ufficiale e la Firma del Libro d’Onore. Quindi si sono diretti nella Sala Blu, dove, dopo lo scambio dei doni, si è svolto l’incontro privato e la presentazione della famiglia.
Parallelamente, nell’adiacente sala, ha avuto luogo un incontro tra il Cardinale Segretario di Stato e il Primo Ministro, alla presenza del Sostituto della Segreteria di Stato, del Segretario per i Rapporti con gli Stati e le Organizzazioni Internazionali, del Nunzio Apostolico e del Consigliere della Nunziatura.
Al termine della visita di cortesia, la Presidente ha accompagnato il Papa nella Sala Maria Teresa dove si è svolto un breve incontro privato con il Primo Ministro della Repubblica di Ungheria, S.E. il Signor Viktor Orbán, e i familiari.
Quindi, il Papa si è recato nella Sala dell’ex Monastero Carmelitano per l’Incontro con le Autorità, la Società Civile e il Corpo Diplomatico.
Incontro con le Autorità, la Società Civile e il Corpo Diplomatico presso il Palazzo Sándor
Alle ore 12.50, nella Sala dell’ex Monastero Carmelitano presso il Palazzo Sándor, il Santo Padre Francesco ha incontrato le Autorità politiche e religiose, i Rappresentanti della Società Civile e della Cultura e i Membri del Corpo Diplomatico.
Dopo il discorso della Presidente della Repubblica di Ungheria, S.E. la Signora Katalin Novák, il Papa ha pronunciato il Suo discorso.
Al termine dell’Incontro con le Autorità, accompagnato dalla Presidente e dal Primo Ministro, Papa Francesco si è recato sul terrazzo dietro l’ex Convento dei Carmelitani, da cui si vede la sottostante città di Budapest.
Quindi il Santo Padre si è trasferito in auto alla Nunziatura Apostolica dove, al Suo arrivo, è stato accolto dal Personale della Rappresentanza Pontificia.
Pubblichiamo di seguito il discorso che il Papa ha pronunciato nel corso dell’Incontro con le Autorità, la Società Civile e il Corpo Diplomatico:
Discorso del Santo Padre
Signora Presidente della Repubblica,
Signor Primo Ministro,
distinti Membri del Governo e del Corpo diplomatico,
illustri Autorità e Rappresentanti della società civile,
Signore e Signori!
Vi saluto cordialmente e ringrazio la Signora Presidente per l’accoglienza e anche per le sue gentili e profonde parole. La politica nasce dalla città, dalla polis, dalla passione concreta per il vivere insieme garantendo diritti e rispettando doveri. Poche città ci aiutano a riflettere su questo come Budapest, che non è solo una capitale signorile e vitale, ma un luogo centrale nella storia: testimone di svolte significative lungo i secoli, è chiamata ad essere protagonista del presente e del futuro; qui, come scrisse un vostro grande poeta, «si abbracciano le morbide onde del Danubio, che è passato, presente e futuro» (A. József, Al Danubio). Vorrei dunque condividere alcuni pensieri, prendendo spunto da Budapest in quanto città di storia, città di ponti e città di santi.
1. Città di storia. Questa capitale ha origini antiche, come testimoniano i resti di epoca celtica e romana. Il suo splendore ci riporta però alla modernità, quando fu capitale dell’Impero austro-ungarico lungo quel periodo di pace noto come belle époque, che si estese dagli anni della sua fondazione fino alla prima guerra mondiale. Sorta in tempo di pace, ha conosciuto dolorosi conflitti: non solo invasioni di tempi lontani ma, nello scorso secolo, violenze e oppressioni provocate dalle dittature nazista e comunista – come scordare il 1956? E, durante la seconda guerra mondiale, la deportazione di decine e decine di migliaia di abitanti, con la restante popolazione di origine ebraica rinchiusa nel ghetto e sottoposta a numerosi eccidi. In tale contesto ci sono stati molti giusti valorosi – penso al Nunzio Angelo Rotta, per esempio –, tanta resilienza e grande impegno nel ricostruire, così che Budapest oggi è una delle città europee con la maggior percentuale di popolazione ebraica, centro di un Paese che conosce il valore della libertà e che, dopo aver pagato un alto prezzo alle dittature, porta in sé la missione di custodire il tesoro della democrazia e il sogno della pace.
A tale riguardo, vorrei tornare sulla fondazione di Budapest, che quest’anno si celebra solennemente. Essa avvenne infatti 150 anni fa, nel 1873, dall’unione di tre città: Buda e Óbuda a ovest del Danubio con Pest, situata sulla riva opposta. La nascita di questa grande capitale nel cuore del continente richiama il cammino unitario intrapreso dall’Europa, nella quale l’Ungheria trova il proprio alveo vitale. Nel dopoguerra l’Europa ha rappresentato, insieme alle Nazioni Unite, la grande speranza, nel comune obiettivo che un più stretto legame fra le Nazioni prevenisse ulteriori conflitti. Purtroppo non è stato così. Nel mondo in cui viviamo, tuttavia, la passione per la politica comunitaria e per la multilateralità sembra un bel ricordo del passato: pare di assistere al triste tramonto del sogno corale di pace, mentre si fanno spazio i solisti della guerra. In generale, sembra essersi disgregato negli animi l’entusiasmo di edificare una comunità delle nazioni pacifica e stabile, mentre si marcano le zone, si segnano le differenze, tornano a ruggire i nazionalismi e si esasperano giudizi e toni nei confronti degli altri. A livello internazionale pare persino che la politica abbia come effetto quello di infiammare gli animi anziché di risolvere i problemi, dimentica della maturità raggiunta dopo gli orrori della guerra e regredita a una sorta di infantilismo bellico. Ma la pace non verrà mai dal perseguimento dei propri interessi strategici, bensì da politiche capaci di guardare all’insieme, allo sviluppo di tutti: attente alle persone, ai poveri e al domani; non solo al potere, ai guadagni e alle opportunità del presente.
In questo frangente storico l’Europa è fondamentale. Perché essa, grazie alla sua storia, rappresenta la memoria dell’umanità ed è perciò chiamata a interpretare il ruolo che le corrisponde: quello di unire i distanti, di accogliere al suo interno i popoli e di non lasciare nessuno per sempre nemico. È dunque essenziale ritrovare l’anima europea: l’entusiasmo e il sogno dei padri fondatori, statisti che hanno saputo guardare oltre il proprio tempo, oltre i confini nazionali e i bisogni immediati, generando diplomazie capaci di ricucire l’unità, non di allargare gli strappi. Penso a quando De Gasperi, a una tavola rotonda cui parteciparono anche Schuman e Adenauer, disse: «È per se stessa, non per opporla ad altri, che noi preconizziamo l’Europa unita… lavoriamo per l’unità, non per la divisione» (Intervento alla Tavola rotonda d’Europa, Roma, 13 ottobre 1953). E ancora, a quanto disse Schuman: «Il contributo che un’Europa organizzata e vitale può apportare alla civiltà è indispensabile per il mantenimento di relazioni pacifiche», in quanto – parole memorabili! – «la pace mondiale non potrà essere salvaguardata se non con sforzi creativi, proporzionali ai pericoli che la minacciano» (Dichiarazione Schuman, 9 maggio 1950). In questa fase storica i pericoli sono tanti; ma, mi chiedo, anche pensando alla martoriata Ucraina, dove sono gli sforzi creativi di pace?
2. Budapest è città di ponti. Vista dall’alto, “la perla del Danubio” mostra la sua peculiarità proprio grazie ai ponti che ne uniscono le parti, armonizzandone la configurazione a quella del grande fiume. Quest’armonia con l’ambiente mi porta a complimentarmi per la cura ecologica che questo Paese persegue con grande impegno. Ma i ponti, che congiungono realtà diverse, suggeriscono pure di riflettere sull’importanza di un’unità che non significhi uniformità. A Budapest ciò emerge dalla notevole varietà delle circoscrizioni che la compongono, più di venti. Anche l’Europa dei ventisette, costruita per creare ponti tra le nazioni, necessita del contributo di tutti senza sminuire la singolarità di alcuno. Al riguardo un padre fondatore preconizzava: «L’Europa esisterà e nulla sarà perduto di quanto fece la gloria e la felicità di ogni nazione. È proprio in una società più vasta, in un’armonia più potente, che l’individuo può affermarsi» (Intervento cit.). C’è bisogno di questa armonia: di un insieme che non appiattisca le parti e di parti che si sentano ben integrate nell’insieme, ma conservando la propria identità. È significativo in proposito quanto afferma la Costituzione ungherese: «La libertà individuale può svilupparsi solo nella collaborazione con gli altri»; e ancora: «Riteniamo che la nostra cultura nazionale sia un ricco contributo alla multicolore unità europea».
Penso dunque a un’Europa che non sia ostaggio delle parti, diventando preda di populismi autoreferenziali, ma che nemmeno si trasformi in una realtà fluida, se non gassosa, in una sorta di sovranazionalismo astratto, dimentico della vita dei popoli. È questa la via nefasta delle “colonizzazioni ideologiche”, che eliminano le differenze, come nel caso della cosiddetta cultura gender, o antepongono alla realtà della vita concetti riduttivi di libertà, ad esempio vantando come conquista un insensato “diritto all’aborto”, che è sempre una tragica sconfitta. Che bello invece costruire un’Europa centrata sulla persona e sui popoli, dove vi siano politiche effettive per la natalità e la famiglia – abbiamo Paesi in Europa con l’età media di 46-48 anni –, perseguite con attenzione in questo Paese, dove nazioni diverse siano una famiglia in cui si custodiscono la crescita e la singolarità di ciascuno. Il ponte più celebre di Budapest, quello delle catene, ci aiuta a immaginare un’Europa simile, formata da tanti grandi anelli diversi, che trovano la propria saldezza nel formare insieme solidi legami. In ciò la fede cristiana è di aiuto e l’Ungheria può fare da “pontiere”, avvalendosi del suo specifico carattere ecumenico: qui diverse Confessioni convivono senza antagonismi – ricordo la riunione che ho avuto con loro un anno e mezzo fa –, collaborando rispettosamente, con spirito costruttivo. Con la mente e il cuore mi dirigo all’Abbazia di Pannonhalma, uno dei grandi monumenti spirituali di questo Paese, luogo di preghiera e ponte di fraternità.
3. E questo mi porta a considerare l’ultimo aspetto: Budapest città di santi – la Signora Presidente ha parlato di Santa Elisabetta –, come ci suggerisce anche il nuovo quadro posto in questa sala. Il pensiero non può che andare a Santo Stefano, primo re d’Ungheria, vissuto in un’epoca nella quale i cristiani in Europa erano in piena comunione; la sua statua, all’interno del Castello di Buda, sovrasta e protegge la città, mentre la Basilica dedicatagli nel cuore della Capitale è, insieme con quella di Esztergom, l’edificio religioso più imponente del Paese. Dunque la storia ungherese nasce segnata dalla santità, e non solo di un re, bensì di un’intera famiglia: sua moglie, la Beata Gisella, e il figlio sant’Emerico. Questi ricevette dal padre alcune raccomandazioni, che costituiscono una sorta di testamento per il popolo magiaro. Oggi mi hanno promesso di regalarmi il tomo, lo aspetto! Vi leggiamo parole molto attuali: «Ti raccomando di essere gentile non solo verso la tua famiglia e parentela, o con i potenti e i benestanti, o con il tuo prossimo e con i tuoi abitanti, ma anche con gli stranieri». Santo Stefano motiva tutto ciò con genuino spirito cristiano, scrivendo: «È la pratica dell’amore che conduce alla felicità suprema». E chiosa dicendo: «Sii mite per non combattere mai la verità» (Ammonimenti, X). In tal modo coniuga inseparabilmente verità e mitezza. È un grande insegnamento di fede: i valori cristiani non possono essere testimoniati attraverso rigidità e chiusure, perché la verità di Cristo comporta mitezza, comporta gentilezza, nello spirito delle Beatitudini. Si radica qui quella bontà popolare ungherese, rivelata da certe espressioni del parlare comune, come ad esempio: “jónak lenni jó” [è bene essere buoni] e “jobb adni mint kapni” [è meglio dare che ricevere].
Da ciò traspare non solo la ricchezza di una solida identità, ma la necessità di apertura agli altri, come riconosce la Costituzione quando dichiara: «Rispettiamo la libertà e la cultura degli altri popoli, ci impegniamo a collaborare con tutte le nazioni del mondo». Essa afferma ancora: «Le minoranze nazionali che vivono con noi fanno parte della comunità politica ungherese e sono parti costitutive dello Stato», e si propone l’impegno «per la cura e la protezione […] delle lingue e delle culture delle minoranze nazionali in Ungheria». È veramente evangelica questa prospettiva, che contrasta una certa tendenza, giustificata talvolta in nome delle proprie tradizioni e persino della fede, a ripiegarsi su di sé.
Il Testo costitutivo, in poche e decisive parole impregnate di spirito cristiano, asserisce inoltre: «Dichiariamo essere un obbligo l’assistenza ai bisognosi e ai poveri». Ciò richiama il prosieguo della storia di santità ungherese, raccontata dai numerosi luoghi di culto della Capitale: dal primo Re, che stabilì le fondamenta del vivere comune, si passa a una Principessa che eleva l’edificio verso una purezza ulteriore. È sant’Elisabetta, la cui testimonianza ha raggiunto ogni latitudine. Questa figlia della vostra terra morì a ventiquattro anni dopo aver rinunciato a ogni bene e aver distribuito tutto ai poveri. Si dedicò sino alla fine, nell’ospedale che aveva fatto costruire, alla cura dei malati: è una gemma splendente di Vangelo.
Distinte Autorità, vorrei ringraziarvi per la promozione delle opere caritative ed educative ispirate da tali valori e nelle quali s’impegna la compagine cattolica locale, così come per il sostegno concreto a tanti cristiani provati nel mondo, specialmente in Siria e in Libano. È feconda una proficua collaborazione tra Stato e Chiesa che, per essere tale, necessita però di ben salvaguardare le opportune distinzioni. È importante che ogni cristiano lo ricordi, tenendo come punto di riferimento il Vangelo, per aderire alle scelte libere e liberanti di Gesù e non prestarsi a una sorta di collateralismo con le logiche del potere. Fa bene, da questo punto di vista, una sana laicità, che non scada nel laicismo diffuso, il quale si mostra allergico ad ogni aspetto sacro per poi immolarsi sugli altari del profitto. Chi si professa cristiano, accompagnato dai testimoni della fede, è chiamato principalmente a testimoniare e a camminare con tutti, coltivando un umanesimo ispirato dal Vangelo e instradato su due binari fondamentali: riconoscersi figli amati del Padre e amare ciascuno come fratello.
In tal senso Santo Stefano lasciava al figlio straordinarie parole di fraternità, dicendo che «adorna il paese» chi vi giunge con lingue e costumi diversi. Infatti – scriveva – «un paese che ha una sola lingua e un solo costume è debole e cadente. Per questo ti raccomando di accogliere benevolmente i forestieri e di tenerli in onore, così che preferiscano stare piuttosto da te che non altrove» (Ammonimenti, VI). È un tema, quello dell’accoglienza, che desta tanti dibattiti ai nostri giorni ed è sicuramente complesso. Tuttavia per chi è cristiano l’atteggiamento di fondo non può essere diverso da quello che santo Stefano ha trasmesso, dopo averlo appreso da Gesù, il quale si è identificato nello straniero da accogliere (cfr Mt 25,35). È pensando a Cristo presente in tanti fratelli e sorelle disperati che fuggono da conflitti, povertà e cambiamenti climatici, che occorre far fronte al problema senza scuse e indugi. È tema da affrontare insieme, comunitariamente, anche perché, nel contesto in cui viviamo, le conseguenze prima o poi si ripercuoteranno su tutti. Perciò è urgente, come Europa, lavorare a vie sicure e legali, a meccanismi condivisi di fronte a una sfida epocale che non si potrà arginare respingendo, ma va accolta per preparare un futuro che, se non sarà insieme, non sarà. Ciò chiama in prima linea chi segue Gesù e vuole imitare l’esempio dei testimoni del Vangelo.
Non è possibile citare tutti i grandi confessori della fede della Pannonia Sacra, ma vorrei almeno menzionare san Ladislao e santa Margherita, e fare riferimento a certe maestose figure del secolo scorso, come il Card. József Mindszenty, i Beati Vescovi martiri Vilmos Apor e Zoltán Meszlényi, il Beato László Batthyány-Strattmann. Sono, insieme a tanti giusti di vari credo, padri e madri della vostra Patria. A loro vorrei affidare l’avvenire di questo Paese, a me tanto caro. E mentre vi ringrazio per aver ascoltato quanto avevo in animo di condividere – vi ringrazio per la vostra pazienza –, assicuro la mia vicinanza e la mia preghiera per tutti gli ungheresi, e lo faccio con un pensiero speciale per quelli che vivono al di fuori della Patria e per quanti ho incontrato nella vita e mi hanno fatto tanto bene. Penso alla comunità religiosa ungherese che ho assistito a Buenos Aires. Isten, áldd meg a magyart! [Dio, benedici gli ungheresi!]
Madame la Présidente de la République,
Monsieur le Premier Ministre,
Membres distingués du Gouvernement et du Corps diplomatique
Autorités et Représentants illustres de la société civile,
Mesdames et Messieurs!
Je vous salue cordialement et je remercie Madame la Présidente pour son accueil et aussi pour ses aimables et profondes paroles. La politique naît de la ville, de la polis, d’une passion concrète pour la vie en commun, dans la garantie des droits et le respect des devoirs. Peu de villes nous aident à y réfléchir comme Budapest, qui n’est pas seulement une capitale majestueuse et vitale, mais un lieu central de l’histoire : témoin de tournants importants au cours des siècles, elle est appelée à être protagoniste du présent et de l’avenir ; ici, comme l’a écrit l’un de vos grands poètes, «Du Danube qui est futur, passé, présent, les doux flots ne cessent de s’embrasser» (A. József, Au bord Danube). Je voudrais donc vous faire part de quelques réflexions, en m'inspirant de Budapest en tant que ville d’histoire, ville de ponts et ville de saints.
1. Ville d’histoire. Cette capitale a des origines anciennes, comme en témoignent les vestiges celtiques et romains. Sa splendeur nous ramène cependant à la modernité, lorsqu’elle était capitale de l’Empire austro-hongrois pendant cette période de paix connue sous le nom de belle époque, qui a duré à partir des années de sa fondation jusqu’à la Première Guerre mondiale. Née en temps de paix, elle a connu de douloureux conflits: non seulement les invasions d’autrefois mais, au siècle dernier, les violences et les oppressions causées par les dictatures nazie et communiste – comment oublier 1956 ? Et, pendant la Seconde Guerre mondiale, la déportation de dizaines et de dizaines de milliers d’habitants, avec le reste de la population d’origine juive enfermée dans le ghetto et soumis à de nombreux massacres. Dans ce contexte, il y a eu beaucoup de justes valeureux - je pense au Nonce Angelo Rotta, par exemple -, beaucoup de résilience et un grand engagement dans la reconstruction, de sorte que Budapest est aujourd’hui une des villes européennes ayant le plus grand pourcentage de population juive, centre d’un pays qui connaît la valeur de la liberté et qui, après avoir payé un lourd tribut aux dictatures, porte en elle la mission de garder le trésor de la démocratie et le rêve de la paix.
À ce propos, je voudrais revenir sur la fondation de Budapest qui est célébrée cette année de manière solennelle. Elle a eu lieu, en efet, il y a 150 ans, en 1873, par l’union de trois villes: Buda et Óbuda à l’ouest du Danube avec Pest, située sur la rive opposée. La naissance de cette grande capitale au cœur du continent rappelle le chemin unitaire entrepris par l’Europe, dans laquelle la Hongrie trouve son berceau vital. Après la guerre, l’Europe a été, avec les Nations Unies, le grand espoir dans l’objectif commun que des liens plus étroits entre les nations empêcheraient de nouveaux conflits. Malheureusement, cela n'a pas été le cas. Cependant, dans le monde où nous vivons, la passion pour la politique communautaire et le multilatéralisme semble être un beau souvenir du passé : on semble assister au triste déclin du rêve choral de paix, tandis que les solistes de la guerre prennent la place. D’une manière générale, l’enthousiasme pour la construction d’une communauté des nations pacifique et stable semble s’être désintégré dans les esprits, tandis que l’on marque les zones, que l’on marque les différences, que les nationalismes recommencent à gronder et que l’on exacerbe les jugements et les tons à l’égard des autres. Au niveau international, il semble même que la politique ait pour effet d’enflammer les esprits plutôt que de résoudre les problèmes. Elle oublie la maturité acquise des horreurs de la guerre et régresse vers une sorte d’infantilisme belliqueux. Mais la paix ne viendra jamais de la poursuite d’intérêts stratégiques particuliers, mais plutôt de politiques capables de considérer l’ensemble, le développement de tous : attentives aux personnes, aux pauvres et à l’avenir, et pas seulement au pouvoir, aux gains et aux opportunités du moment.
Dans ce moment historique, l’Europe est fondamentale. Parce que, grâce à son histoire, elle représente la mémoire de l’humanité et elle est donc appelée à jouer le rôle qui lui correspond : celui d’unir ceux qui sont loin, d’accueillir en son sein les peuples et de ne laisser personne être un ennemi pour toujours. Il est donc essentiel de retrouver l’âme européenne : l’enthousiasme et le rêve des pères fondateurs, des hommes d’État qui ont su regarder au-delà de leur époque, au-delà des frontières nationales et des besoins immédiats, en mettant en œuvre des diplomaties capables de recoudre l’unité et non d’élargir les déchirures. Je pense au moment où De Gasperi, lors d’une table ronde à laquelle participaient également Schuman et Adenauer, a dit : «C’est pour elle-même, et non pour l’opposer aux autres, que nous envisageons une Europe unie... nous travaillons pour l’unité et non pour la division» (Allocution à la Table ronde de l’Europe, Rome, 13 octobre 1953). Et encore, à ce que Schuman a dit : «La contribution qu’une Europe organisée et vivante peut apporter à la civilisation est indispensable au maintien des relations pacifiques», parce que – paroles mémorables ! – «la paix mondiale ne saurait être sauvegardée sans des efforts créateurs à la mesure des dangers qui la menacent» (Déclaration Schuman, 9 mai 1950). Dans ce moment historique, les dangers sont nombreux ; mais, je me demande, en pensant également à l’Ukraine meurtrie, où sont les efforts créatifs pour la paix ?
2. Budapest est une ville de ponts. Vue d’en haut, la “perle du Danube” montre son caractère unique grâce aux ponts qui relient ses parties, harmonisant sa configuration avec celle du grand fleuve. Cette harmonie avec l’environnement m’amène à saluer l’attention écologique que ce pays poursuit avec beaucoup d’engagement. Mais les ponts, qui relient des réalités différentes, nous suggèrent également de réfléchir à l’importance d’une unité qui n’est pas synonyme d’uniformité. À Budapest, cela se traduit par la variété remarquable de circonscriptions qui la composent, plus de vingt. L’Europe des vingt-sept elle aussi, construite pour créer des ponts entre les nations, a besoin de la contribution de tous sans diminuer la spécificité de chacun. À cet égard, un père fondateur préconisait : «L’Europe existera et rien de ce qui a fait la gloire et le bonheur de chaque nation ne sera perdu. C’est précisément dans une société plus vaste, dans une harmonie plus puissante, que l’individu peut s’affirmer» (Intervention cit.). Cette harmonie est nécessaire : un tout qui n’aplatit pas les parties et des parties qui se sentent bien intégrées dans le tout, en conservant leurs identités propres. La Constitution hongroise est significative à cet égard lorsqu’elle affirme : «La liberté individuelle ne peut se développer qu’en collaboration avec les autres» ; et encore : «Nous considérons que notre culture nationale est une riche contribution à l’unité européenne multicolore».
Je pense donc à une Europe qui ne soit pas l’otage des partis, en proie aux populismes autoréférentiels, mais qui ne se transforme pas non plus en une réalité fluide, voire gazeuse, en une sorte de supranationalisme abstrait, oublieux de la vie des peuples. C’est la voie néfaste des “colonisations idéologiques” qui éliminent les différences, comme dans le cas de ladite culture du genre, ou qui font passer des conceptions réductrices de liberté avant la réalité de la vie, par exemple en vantant un “droit insensé à l'avortement”, qui est toujours un échec tragique. Qu’il est beau, au contraire, de construire une Europe centrée sur la personne et sur les peuples, où existent des politiques efficaces pour la natalité et la famille – il y a en Europe des pays où l'âge moyen est de 46-48 ans -, soigneusement poursuivies dans ce pays, où différentes nations forment une famille dans laquelle la croissance et l’unicité de chacun sont préservées. Le plus célèbre pont de Budapest, celui des chaînes, nous aide à imaginer à une Europe semblable, composée de nombreux grands anneaux différents, qui trouvent leur solidité dans la formation de liens solides entre eux. En cela, la foi chrétienne est une aide et la Hongrie peut servir de “pont”, en tirant parti de son caractère œcuménique spécifique : ici, différentes Confessions coexistent sans antagonisme - je me souviens de la rencontre que j'ai eue avec elles il y a un an et demi -, collaborant avec respect, dans un esprit constructif. Mon esprit et mon cœur se portent sur l’Abbaye de Pannonhalma, l’un des grands monuments spirituels de ce pays, un lieu de prière et un pont de fraternité.
3. Cela m'amène à considérer le dernier aspect: Budapest ville de saints - Madame la Présidente a parlé de Sainte Elisabeth -, comme nous le suggère également le nouveau tableau placé dans cette salle. Notre pensée ne peut que se porter sur saint Étienne, premier roi de Hongrie, qui a vécu à une époque où les chrétiens d’Europe étaient en pleine communion. Sa statue, à l’intérieur du château de Buda, domine et protège la ville, tandis que la basilique qui lui est dédiée au cœur de la capitale est, avec celle de Esztergom, l’édifice religieux le plus imposant du pays. L’histoire hongroise est donc née sous le signe de la sainteté, et pas seulement celle d’un roi, mais celle de toute une famille : son épouse, la bienheureuse Giselle, et leur fils, saint Émeric. Ce dernier reçut de son père des recommandations qui constituent une sorte de testament pour le peuple magyar. Aujourd’hui l’on m’a promis de m’offrir cet ouvrage, je l'attends ! Nous y lisons des paroles très actuelles : «Je te recommande d’être bon non seulement envers ta famille et ta parenté, ou envers les puissants et les personnes aisées, ou envers ton voisin et tes habitants, mais aussi envers les étrangers». Saint Étienne justifie cela par un véritable esprit chrétien, en écrivant : «C’est la pratique de l’amour qui conduit au bonheur suprême». Et il conclut en disant : «Sois doux pour ne jamais combattre la vérité» (Admonitions, X). Il associe ainsi de manière inséparable la vérité et la douceur. C’est un grand enseignement de la foi : les valeurs chrétiennes ne peuvent être témoignées à travers la rigidité et les fermetures, car la vérité du Christ implique douceur, suppose amabilité, dans l’esprit des Béatitudes. C’est là que s’enracine cette bonté populaire hongroise, révélée dans certaines expressions du langage courant, telles que : “jónak lenni jó” [il est bien d’être bon] et “jobb adni mint kapni” [il est préférable de donner que de recevoir].
De cela transparaît non seulement la richesse d’une solide identité, mais la nécessité d’ouverture aux autres, comme le reconnaît la Constitution lorsqu’elle déclare: «Nous respectons la liberté et la culture des autres peuples, nous nous engageons à coopérer avec toutes les nations du monde». Elle affirme encore: « Les minorités nationales qui vivent avec nous font partie de la communauté politique hongroise et font partie intégrante de l’État », et propose l’engagement « pour le soin et la protection [...] des langues et des cultures des minorités nationales en Hongrie ». Cette perspective est véritablement évangélique, contrecarrant une certaine tendance, parfois justifiée au nom des traditions et même de la foi, à se replier sur soi-même.
Le texte constitutif, en quelques paroles décisives empreintes d’esprit chrétien, affirme également : «Nous déclarons que l’assistance aux nécessiteux et aux pauvres est une obligation». Cela rappelle le déroulement de l’histoire de la sainteté hongroise, racontée par les nombreux lieux de culte de la capitale : du premier roi qui a jeté les bases de la vie communautaire, l’on passe à une princesse qui élève l’édifice à une plus grande pureté. Il s’agit de sainte Élisabeth, dont le témoignage est parvenu à toutes les latitudes. Cette fille de votre terre mourut à vingt-quatre ans après avoir renoncé à toute richesse, tout donné aux pauvres. Elle se consacra jusqu’au bout, dans l’hôpital qu’elle avait fait construire, au soin des malades, est un joyau de l’Évangile.
Distinguées Autorités, je voudrais vous remercier pour la promotion des œuvres caritatives et éducatives inspirées par ces valeurs et dans lesquelles la communauté catholique locale est engagée, ainsi que pour le soutien concret apporté à tant de chrétiens éprouvés dans le monde, en particulier en Syrie et au Liban. Une collaboration fructueuse entre l’État et l'Église est féconde, mais pour l’être, elle doit sauvegarder les distinctions appropriées. Il est important que chaque chrétien s’en souvienne, en gardant l’Évangile comme point de référence, pour adhérer aux choix libres et libérateurs de Jésus et ne pas se prêter à une sorte de connivence avec les logiques du pouvoir. De ce point de vue, une saine laïcité, qui ne tombe pas dans le laïcisme généralisé se montrant allergique à tout ce qui est sacré pour s’immoler ensuite sur les autels du profit, est une bonne chose. Ceux qui se professent chrétiens, accompagnés par les témoins de la foi, sont avant tout appelés à témoigner et à marcher avec tous, en cultivant un humanisme inspiré de l’Évangile et cheminant sur deux voies fondamentales: se reconnaître fils bien-aimés du Père et aimer chacun comme un frère.
En ce sens, saint Étienne laissait à son fils d’extraordinaires paroles de fraternité, en disant que ceux qui viennent avec des langues et des coutumes différentes «ornent le pays». Car, écrivait-il, «un pays qui n’a qu’une seule langue et une seule coutume est faible et décadent. C’est pourquoi je te recommande d’accueillir bien volontiers les étrangers et de les considérer avec honneur, afin qu’ils préfèrent rester chez toi plutôt qu’ailleurs» (Admonitions, VI). C’est un sujet, celui de l’accueil, qui suscite beaucoup de débats à notre époque et qui est certainement complexe. Cependant, pour ceux qui sont chrétiens, l’attitude de base ne peut pas être différente de celle que saint Étienne a transmise, après l’avoir apprise de Jésus qui s’est identifié à l’étranger à accueillir (cf. Mt 25, 35). C’est en pensant au Christ présent en tant de frères et sœurs désespérés qui fuient les conflits, la pauvreté et le changement climatique, qu’il faut aborder le problème sans excuses ni retards. C’est un thème qui doit être abordé ensemble, communautairement, aussi parce que, dans le contexte où nous vivons, les conséquences affecteront tôt ou tard tout le monde. C’est pourquoi il est urgent, en tant qu’Europe, de travailler à des voies sûres et légales, à des mécanismes partagés face à un défi historique qui ne pourra être maîtrisé par le rejet, mais qui doit être accueilli pour préparer un avenir qui, s’il n’est pas ensemble, ne sera pas. Cela appelle en première ligne ceux qui suivent Jésus et veulent suivre l’exemple des témoins de l’Évangile.
Il n’est pas possible de citer tous les grands confesseurs de la foi de la Pannonie sacrée, mais je voudrais au moins mentionner saint Ladislas et sainte Marguerite, et faire référence à certaines figures majestueuses du siècle dernier, telles que le cardinal József Mindszenty, les bienheureux évêques martyrs Vilmos Apor et Zoltán Meszlényi, le bienheureux László Batthyány-Strattmann. Ils sont, avec beaucoup de justes de diverses confessions, les pères et les mères de votre patrie. C’est à eux que je voudrais confier l’avenir de ce pays qui m’est si cher. Et tout en vous remerciant d’avoir écouté ce que j’avais à partager - merci de votre patience -, je vous assure de ma proximité et de ma prière pour tous les Hongrois, et je le fais avec une pensée particulière pour ceux qui vivent hors de la patrie et pour ceux que j’ai rencontrés dans la vie et qui m’ont fait tant de bien. Je pense à la communauté religieuse hongroise que j'ai connue à Buenos Aires. Isten, áldd meg a magyart ! (Que Dieu bénisse les Hongrois !)
Madam President of the Republic,
Mr Prime Minister,
Distinguished Members of Government and the Diplomatic Corps,
Illustrious Authorities and Representatives of Civil Society,
Ladies and Gentlemen!
I greet you all most cordially and I thank Madam President for her welcome and her kind and profound words. Politics was born of the city, the polis, and the practical desire to live together in unity, ensuring rights and respecting obligations. Few cities help us realize this as does Budapest, for it is not only a noble and lively metropolis, but also a theatre of great historical events. Having witnessed momentous events in the past, it is called to take a leading role in the present and in the future. Here, as one of your great poets wrote, “we are tenderly embraced by the Danube, which is our past, our present and our future” (A. JÓZSEF, The Danube). I would now like to share a few thoughts with you, taking as my starting point Budapest itself: a city of history, a city of bridges and a city of saints.
1. A city of history. This capital has ancient origins, as evidenced by its remains from Celtic and Roman times. Its splendour, however, is linked to the modern period, when it was the capital of the Austro-Hungarian Empire in those decades of peace known as the belle époque, extending from the years of its establishment to the outbreak of the First World War. Born in peacetime, it has also experienced brutal conflicts: not only the invasions of ages past, but in more recent times, acts of violence and oppression perpetrated by the Nazi and Communist dictatorships. How can we forget the events of 1956? And during the Second World War, tens of thousands of its inhabitants were deported, with the remaining population of Jewish origin enclosed in the ghetto and subjected to mass murders. Yet those days were also marked by the heroism of many of the “righteous” – I think of the Nuncio Angelo Rotta, for example – and later by the great resilience and commitment shown in the work of rebuilding. As a result, Budapest today is one of the European cities with the largest Jewish population, the heart of a country that acknowledges the value of freedom and, having paid so great a toll to the dictatorships, is conscious of its mission to preserve the treasure of democracy and the dream of peace.
This year you are solemnly commemorating the founding of Budapest 150 years ago, in 1873, through the union of the three cities, Buda and Óbuda to the west of the Danube and Pest on the opposite bank. The birth of this great capital in the heart of the continent invites us to reflect on the process of unification undertaken by Europe, in which Hungary plays a vital role. In the post-war period, Europe, together with the United Nations, embodied the noble hope that, by working together for a closer bond between nations, further conflicts could be avoided. Unfortunately, this was not the case. In the world in which we presently live, however, that passionate quest of a politics of community and the strengthening of multilateral relations seems a wistful memory from a distant past. We seem to be witnessing the sorry sunset of that choral dream of peace, as the soloists of war now take over. More and more, enthusiasm for building a peaceful and stable community of nations seems to be cooling, as zones of influence are marked out, differences accentuated, nationalism is on the rise and ever harsher judgments and language are used in confronting others. On the international level, it even seems that politics serves more to stir up emotions rather than to resolve problems, as the maturity attained after the horrors of the war gives way to regression towards a kind of adolescent belligerence. Peace will never come as the result of the pursuit of individual strategic interests, but only from policies capable of looking to the bigger picture, to the development of everyone: policies that are attentive to individuals, to the poor and to the future, and not merely to power, profit and present prospects.
At this historical juncture, Europe is crucial, for thanks to its history, it represents the memory of humanity; in this sense, it is called to take up its proper role, which is to unite those far apart, to welcome other peoples and to refuse to consider anyone an eternal enemy. It is vital, then, to recover the European spirit: the excitement and vision of its founders, who were statesmen able to look beyond their own times, beyond national boundaries and immediate needs, and to generate forms of diplomacy capable of pursuing unity, not aggravating divisions. I think of De Gasperi, who at a roundtable with Schuman and Adenauer, stated: “It is for its own benefit, not as a way of setting itself against others, that we foresee a united Europe… We are working for unity, not for division” (Intervention in the European Round Table, Rome, 13 October 1953). And again, of Schuman’s conviction that: “The contribution that a structured and vital Europe can make to civilization is indispensable for the preservation of peaceful relations”, since – in his memorable words – “world peace cannot be ensured except by creative efforts, proportionate to the dangers threatening it” (Schuman Declaration, 9 May 1950). At the present time, those dangers are many indeed; but I ask myself, thinking not least of war-torn Ukraine, where are creative efforts for peace?
2. Budapest is a city of bridges. Seen from above, “the pearl of the Danube” shows its uniqueness in the bridges that unite its several parts, fitting its shape to that of the great river. This harmony with the natural environment leads me to note the praiseworthy concern for ecology shown by the nation. Those bridges, which link diverse realities, also make us think of the importance of a unity that is not the same as uniformity. In Budapest, this is seen in the remarkable variety of the more than twenty districts that make up the city. So too, the Europe of the 27, built to create bridges between nations, requires the contribution of all, while not diminishing the uniqueness of each. As one of the founders declared: “Europe will exist, yet nothing will be lost of what constituted the glory and felicity of each nation. For within a larger society, and a greater harmony, individuals will be able to flourish” (Intervention, cit.). This is the harmony we need: a whole whose parts are not blandly homogenized, but fully integrated with their proper identities preserved. In this regard, the Hungarian Constitution rightly states: “Individual freedom can only be complete in cooperation with others”, and again, “We believe that our national culture is a rich contribution to the diversity of European unity”.
I think of a Europe that is not hostage to its parts, neither falling prey to self-referential forms of populism nor resorting to a fluid, if not vapid, “supranationalism” that loses sight of the life of its peoples. This is the baneful path taken by those forms of “ideological colonization” that would cancel differences, as in the case of the so-called gender theory, or that would place before the reality of life reductive concepts of freedom, for example by vaunting as progress a senseless “right to abortion”, which is always a tragic defeat. How much better it would be to build a Europe centred on the human person and on its peoples, with effective policies for natality and the family like those pursued attentively in this country – there are countries in Europe with a medium age of 46-48 –, a Europe whose different nations would form a single family that protects the growth and uniqueness of each of its members. The most famous bridge in Budapest, the chain bridge, helps us to envision that kind of Europe, since it is composed of many great and diverse links that derive their solidity and strength from being joined together. In this regard, the Christian faith can be a resource, and Hungary can act as a “bridge builder” by drawing upon its specific ecumenical character. Here, different confessions, with whom I met a year and a half ago, live together without friction, cooperating respectfully and constructively. My thoughts turn with great affection to the Abbey of Pannonhalma, one of the great spiritual monuments of this country, a place of prayer and itself a bridge of fraternity.
3. This leads me to consider the final aspect: Budapest as a city of saints. Madam President spoke of Saint Elizabeth. This is also suggested by the new picture placed in this hall. Naturally, we think of Saint Stephen, the first King of Hungary, who lived at a time when Europe’s Christians were in full communion. His statue, inside Buda Castle, dominates and protects the city, while the Basilica dedicated to him in the heart of the capital, together with that of Esztergom, is the most imposing religious building of the country. Hungarian history was marked by sanctity from the start, not simply the holiness of the King but of his entire family: his wife Blessed Gisela and his son Saint Emeric. The latter received from his father a number of admonitions that constitute a sort of testament for the Magyar people. Today, they promised to give me a copy of it. I look forward to receiving it. There we read advice that remains timely: “I urge you to show favour not only to relations and kin, or to the powerful and wealthy, or to your neighbours and fellow-countrymen, but also to foreigners and all who come to you”. Saint Stephen displays an authentically Christian spirit when he declares that, “the practice of love leads to supreme happiness”. To which he adds: “Be gentle, so that you will never oppose justice” (Admonitions, X). In this way, he inseparably joins truth and gentleness. This is a great teaching of faith: Christian values cannot be proposed by rigidity and closemindedness, because the truth of Christ demands meekness and gentleness, in the spirit of the Beatitudes. Here we see the roots of the innate Hungarian gentility that is reflected in certain expressions of everyday speech, as for example, “jónak lenni jó” [it is good to be good] and “jobb adni mint kapni” [it is better to give than receive].
This is an affirmation not only of the value of a clear identity, but also of the need for openness towards others. The Constitution recognizes this in stating: “We respect the freedom and culture of other peoples, and shall strive to cooperate with every nation of the world”. It likewise states that “the nationalities living with us form part of the Hungarian political community and are constituent parts of the State”, and commits itself to “promoting and safeguarding… the languages and cultures of nationalities living in Hungary”. This spirit is truly evangelical, and contrasts with a certain tendency, at times proposed in the name of native traditions and even of the faith, to withdraw into oneself.
The text of the Constitution, in a clear and concise phrase imbued with Christian spirit, goes on to state: “We have a general duty to protect the vulnerable and the poor”. We are reminded of the long history of Hungarian sanctity, as witnessed by the many places of worship in this capital. From the first king, who laid the foundations for communal life, we pass to a princess who elevated the walls of that edifice to greater strength and purity. Saint Elizabeth’s fame has spread throughout the world. This daughter of your land died at twenty-four years of age after renouncing all her possessions and distributing everything to the poor. To the end, she devoted herself to ministering to the sick in the hospice that she had built. She remains an outstanding witness to the Gospel.
Distinguished Authorities, I express my gratitude for the promotion of the charitable and educational works inspired by these values, in which the local Catholic community actively participates, as well as for your concrete support of the many Christians worldwide who experience hardship and adversity, especially in Syria and Lebanon. Cooperation between the State and the Church has proved fruitful, ever respecting the need for a careful distinction between their proper spheres. It is important that all Christians keep this in mind, taking the Gospel as their point of reference, freely embracing the liberating teachings of Jesus without yielding to a sort of “collaborationism” with a politics of power. This calls for a sound sense of “laicity” that does not degenerate into the widespread “laicism” that is allergic to any aspect of the sacred, yet ready to sacrifice itself at the altars of profit. Those who profess themselves Christian, in the company of the witnesses of faith, are called to bear witness to and to join forces with everyone in cultivating a humanism inspired by the Gospel and moving along two fundamental tracks: acknowledging ourselves to be beloved children of the Father and loving one another as brothers and sisters.
In this regard, Saint Stephen bequeathed to his son extraordinary words of fraternity when he told him that those who arrive with different languages and customs “adorn the country”. Indeed, as he wrote, “a country that has but one language and custom is weak and fragile; for this reason I urge you to welcome strangers with benevolence and to hold them in esteem, so that they prefer to be with you rather than elsewhere” (Admonitions, VI). The issue of acceptance and welcome is a heated one in our time, and is surely complex. Nonetheless, for those who are Christians, our basic attitude cannot differ from that which Saint Stephen recommended to his son, having learned it from Jesus, who identified himself with the stranger needing to be welcomed (cf. Mt 25:35). When we think of Christ present in so many of our brothers and sisters who flee in desperation from conflicts, poverty and climate change, we feel bound to confront the problem without excuses and delay. It needs to be confronted together, as a community, not least because, in the present situation, its effects will be felt, sooner or later, by all of us. It is urgent then, as Europe, to work for secure and legal corridors and established processes for meeting an epochal challenge that is ineluctable and needs to be acknowledged, in order to prepare a future that, unless it is shared, will not exist. This challenge especially calls for a response on the part of those who are followers of Jesus and wish to imitate the example of the witnesses of the Gospel.
It is not possible to cite all the great confessors of the faith of Pannonia Sacra, but here I would like at least to mention Saint Ladislas and Saint Margaret, and to recall a few majestic figures of the past century, such as Cardinal József Mindszenty, Blessed Vilmos Apor and Blessed Zoltán Meszlényi, bishops and martyrs, and Blessed László Battyány-Strattmann. Together with so many righteous persons of various creeds, they are fathers and mothers of your country. To them I desire to entrust the future of this nation, so dear to my heart. I thank you for having listened patiently to these reflections that I have shared with you, and I assure you of my closeness and my prayers for all Hungarians, with a special thought for those living outside the country and all those whom I have encountered in my life and who were so good to me. I think of the Hungarian religious community that I assisted in Buenos Aires. Isten, áldd meg a magyart” [God bless the people of Hungary!]
Frau Staatspräsidentin,
Herr Ministerpräsident,
geschätzte Mitglieder der Regierung und des diplomatischen Korps,
sehr verehrte Verantwortungsträger und Vertreter der Zivilgesellschaft,
meine Damen und Herren!
Ich begrüße Sie herzlich und danke der Frau Präsidentin für das Willkommen und auch ihre freundlichen und tiefen Worte. Politik entsteht aus der Stadt, aus der Polis, aus der konkreten Leidenschaft für das Zusammenleben, indem Rechte garantiert und Pflichten respektiert werden. Wenige Städte helfen uns beim Nachdenken darüber so sehr wie Budapest, das nicht nur eine vornehme und lebendige Hauptstadt ist, sondern auch ein zentraler Ort in der Geschichte: als Zeuge bedeutender Wendepunkte im Laufe der Jahrhunderte ist es gerufen, ein Akteur für die Gegenwart und die Zukunft zu sein; hier »umarmen sich die sanften Wellen der Donau, die Vergangenheit, Gegenwart und Zukunft ist« (A. JÓZSEF, An der Donau), wie einer eurer großen Dichter schrieb. Ich möchte daher einige Gedanken mit euch teilen und dabei von Budapest als Stadt der Geschichte, Stadt der Brücken und Stadt der Heiligen ausgehen.
1. Stadt der Geschichte. Diese Hauptstadt hat antike Ursprünge, wie keltische und römische Überreste bezeugen. Ihr Glanz führt uns jedoch in die Neuzeit, als sie Hauptstadt des österreichisch-ungarischen Reiches während jener Friedensperiode war, die als belle époque bekannt ist und die sich von der Stadtgründung bis zum Ersten Weltkrieg erstreckte. Die Stadt ist in Friedenszeiten entstanden und hat schmerzhafte Konflikte erlebt: nicht nur Invasionen in lang zurückliegenden Zeiten, sondern im vergangenen Jahrhundert auch Gewalt und Unterdrückung durch die nationalsozialistische und die kommunistische Diktatur – wie könnten wir 1956 vergessen? Und während des Zweiten Weltkriegs die Deportation von Zehntausenden von Einwohnern, wobei die verbleibende Bevölkerung jüdischer Herkunft im Ghetto eingesperrt und zahlreichen Massakern ausgesetzt war. In diesem Umfeld gab es viele tapfere, rechtschaffene Menschen – ich denke zum Beispiel an Nuntius Angelo Rotta –, viel Widerstandskraft und großes Engagement beim Wiederaufbau, so dass Budapest heute eine der europäischen Städte mit dem höchsten Prozentsatz an jüdischer Bevölkerung ist und das Zentrum eines Landes, das den Wert der Freiheit kennt und das, nachdem es einen hohen Preis an die Diktaturen gezahlt hat, den Auftrag hat, den Schatz der Demokratie und den Traum vom Frieden zu bewahren.
In diesem Zusammenhang möchte ich auf die Gründung von Budapest zurückkommen, die in diesem Jahr feierlich begangen wird. Sie erfolgte nämlich vor 150 Jahren, im Jahr 1873, aus der Vereinigung dreier Städte: Buda und Óbuda westlich der Donau mit Pest am gegenüberliegenden Ufer. Die Geburt dieser großen Hauptstadt im Herzen des Kontinents erinnert an den gemeinsamen Weg, den Europa eingeschlagen hat, in dem Ungarn sein Leben entfaltet. In der Nachkriegszeit verkörperte Europa zusammen mit den Vereinten Nationen die große Hoffnung mit dem gemeinsamen Ziel, dass ein engeres Band zwischen den Nationen weitere Konflikte verhindern würde. Leider ist dies nicht so eingetreten. In der Welt, in der wir leben, scheint die Leidenschaft für gemeinschaftliche Politik und Multilateralismus jedoch eine schöne Erinnerung aus der Vergangenheit zu sein: Man hat den Eindruck, dem traurigen Untergang des gemeinsamen Traums vom Frieden beizuwohnen, während die Einzelkämpfer des Krieges Raum gewinnen. Insgesamt scheint sich die Begeisterung für den Aufbau einer friedlichen und stabilen Gemeinschaft der Nationen in den Gemütern aufgelöst zu haben, während Einflusszonen abgesteckt werden, Unterschiede hervorgehoben werden, Nationalismen wieder neu aufbranden und die Urteile und Töne anderen gegenüber verschärft werden. Auf internationaler Ebene scheint es sogar so zu sein, dass die Politik eher die Gemüter erhitzt statt Probleme zu lösen, und dass sie dabei die Reife vergisst, die sie nach den Schrecken des Krieges erlangt hat und die sich in eine Art kriegerischen Infantilismus zurückentwickelt hat. Aber Frieden wird niemals durch die Verfolgung eigener strategischer Interessen entstehen, sondern durch Arten von Politik, die fähig sind, das Ganze, die Entwicklung aller, in den Blick zu nehmen: achtsam gegenüber den Menschen, den Armen und der Zukunft; nicht nur auf Macht, Gewinne und die sich gegenwärtig bietenden Möglichkeiten bedacht.
In dieser heiklen historischen Lage ist Europa von grundlegender Bedeutung. Denn dank seiner Geschichte repräsentiert es das Gedächtnis der Menschheit und ist daher aufgerufen, die Rolle zu spielen, die ihm entspricht: Jene, die Fernstehenden zu vereinen, die Völker in seinem Inneren willkommen zu heißen und niemanden für immer als Feind stehen zu lassen. Es ist daher wesentlich, die europäische Seele wiederzuentdecken: die Begeisterung und den Traum der Gründerväter, Staatsmänner, die es verstanden, über ihre eigene Zeit, über nationale Grenzen und unmittelbare Bedürfnisse hinauszublicken und Formen der Diplomatie zu entwickeln, die in der Lage waren, die Einheit wiederherzustellen und nicht die Risse zu vergrößern. Ich denke daran, wie De Gasperi bei einer Konferenz, an der auch Schuman und Adenauer teilnahmen, sagte: »Wir entwerfen das vereinte Europa für sich selbst, nicht um es anderen entgegenzusetzen... wir arbeiten für die Einheit, nicht für die Teilung« (Ansprache bei der Konferenz für Europa, Rom, 13. Oktober 1953). Und weiter denke ich an das, was Schuman sagte: »Der Beitrag, den ein organisiertes und lebendiges Europa zur Zivilisation leisten kann, ist unerlässlich für die Aufrechterhaltungfriedlicher Beziehungen«, denn – denkwürdige Worte! – »der Friede der Welt kann nicht gewahrt werden ohne schöpferische Anstrengungen, die der Größe der Bedrohung entsprechen.« (Schuman-Erklärung, 9. Mai 1950). In dieser historischen Phase sind die Gefahren viele, aber ich frage mich, auch wenn ich an die leidgeprüfte Ukraine denke, wo die schöpferischen Anstrengungen für den Frieden bleiben?
2. Budapest ist eine Stadt der Brücken. Von oben betrachtet, zeigt die „Perle der Donau“ ihre Besonderheit gerade dank der Brücken, die ihre Teile miteinander verbinden und ihre Struktur mit der des großen Flusses in Einklang bringen. Diese Harmonie mit der Umwelt veranlasst mich, die Sorge für die Umwelt zu loben, die dieses Land mit großem Engagement verfolgt. Aber die Brücken, die verschiedene Wirklichkeiten miteinander verbinden, regen auch dazu an, über die Bedeutung einer Einheit nachzudenken, die nicht Einheitlichkeit bedeutet. In Budapest zeigt sich das an der bemerkenswerten Vielfalt der Bezirke, aus denen es sich zusammensetzt, mehr als zwanzig. Auch das Europa der Siebenundzwanzig, das errichtet wurde, um Brücken zwischen den Nationen zu bauen, braucht den Beitrag aller, ohne ihre jeweilige Einzigartigkeit zu mindern. In dieser Hinsicht hat einer der Gründerväter vorausgesagt: »Europa wird bestehen und nichts wird von dem verloren gehen, was den Glanz und das Glück einer jeden Nation ausgemacht hat. Gerade in einer größeren Gesellschaft, in einer stärkeren Harmonie, kann sich der Einzelne behaupten« (zitierte Ansprache). Diese Harmonie ist erforderlich: ein Ganzes, das die Teile nicht plattdrückt, und Teile, die sich gut in das Ganze integriert fühlen, dabei aber ihre Identität bewahren. In diesem Zusammenhang ist bedeutsam, was die ungarische Verfassung feststellt: »Die individuelle Freiheit kann sich nur im Zusammenwirken mit Anderen entfalten«; und weiter: »Wir glauben, dass unsere Nationalkultur einen reichhaltigen Beitrag zur Vielfalt der europäischen Einheit darstellt«.
Ich denke also an ein Europa, das keine Geisel der Parteien ist, indem es zum Opfer autoreferentieller Populismen wird, das sich aber auch nicht in eine zerfließende, wenn nicht gar gasförmige Wirklichkeit verwandelt, zu einer Art abstrakten Überstaatlichkeit, die das Leben der Völker vergisst. Das ist der unheilvolle Weg der „ideologischen Kolonisierung“, die Unterschiede auslöscht, wie dies bei der sogenannten Gender-Kultur der Fall ist, oder der Lebenswirklichkeit Freiheitskonzepte reduktiver Art voranstellt, indem sie zum Beispiel ein sinnwidriges „Recht auf Abtreibung“ als Errungenschaft rühmt, welche jedoch immer eine tragische Niederlage ist. Wie schön ist es stattdessen, ein Europa aufzubauen, das den Menschen und die Völker in den Mittelpunkt stellt, in dem es wirksame politische Ansätze für eine bessere demographische Entwicklung und zugunsten der Familie gibt – in Europa haben wir Länder mit einem Durchschnittsalter von 46-48 Jahren –, die in diesem Land aufmerksam verfolgt werden; ein Europa, in dem die verschiedenen Nationen eine Familie sind, in der das Wachstum und die Einzigartigkeit eines jeden bewahrt werden. Die berühmteste Brücke Budapests, die Kettenbrücke, hilft uns, uns ein ihr ähnliches Europa vorzustellen, das aus vielen großen unterschiedlichen Gliedern besteht, deren jeweilige Stabilität daher rührt, dass sie miteinander feste Verbindungen bilden. Dabei hilft der christliche Glaube und Ungarn kann als „Brückenbauer“ dienen, indem es seinen besonderen ökumenischen Charakter nutzt: Hier leben verschiedene Konfessionen ohne Gegnerschaft zusammen – ich erinnere mich an das Treffen, das ich vor anderthalb Jahren mit ihnen hatte – und arbeiten respektvoll zusammen, in einem konstruktiven Geist. Im Geiste und im Herzen begebe ich mich zur Abtei Pannonhalma, einem der großen geistlichen Denkmäler dieses Landes, einem Ort des Gebets und einer Brücke der Geschwisterlichkeit.
3. Und das bringt mich dazu, den letzten Aspekt zu betrachten: Budapest, die Stadt der Heiligen – die Frau Präsidentin hat von der heiligen Elisabeth gesprochen –, wie uns auch das neue Gemälde in diesem Saal nahelegt. Die Gedanken gehen unweigerlich zum heiligen Stephan, dem ersten König von Ungarn, der zu einer Zeit lebte, als sich die Christen in Europa in voller Gemeinschaft befanden. Seine Statue im Inneren der Burg von Buda überragt und beschützt die Stadt, während die ihm geweihte Basilika im Herzen der Hauptstadt – zusammen mit jener von Esztergom – das beeindruckendste religiöse Gebäude des Landes ist. Die ungarische Geschichte begann also im Zeichen der Heiligkeit – nicht nur eines Königs, sondern einer ganzen Familie: seiner Frau, der seligen Gisela, und seines Sohnes, des heiligen Emmerich. Dieser erhielt von seinem Vater einige Empfehlungen, die eine Art Testament für das ungarische Volk darstellen. Heute hat man mir versprochen, mir diesen Band zu schenken, ich warte darauf! Wir lesen darin sehr aktuelle Worte: »Ich empfehle dir, nicht nur zu deiner Familie und Verwandtschaft oder zu den Mächtigen und Reichen oder zu deinem Nächsten und den Einwohnern deines Landes freundlich zu sein, sondern auch zu den Fremden«. Der heilige Stephan begründet all dies mit wahrhaft christlichem Geist, wenn er schreibt: »Es ist die Praxis der Liebe, die zum höchsten Glück führt«. Und er erläutert es mit den Worten: »Sei sanftmütig, um niemals die Wahrheit zu bekämpfen« (Ermahnungen, X). Auf diese Weise verbindet er Wahrheit und Sanftmut untrennbar miteinander. Das ist eine bedeutende Lehre des Glaubens: Die christlichen Werte können nicht durch Starrheit und Verschlossenheit bezeugt werden, denn die Wahrheit Christi bringt Sanftmut und Freundlichkeit mit sich, im Geist der Seligpreisungen. Darin gründet die Güte des ungarischen Volkes, die sich in bestimmten Redewendungen wie „jónak lenni jó“ [es ist gut, gut zu sein] und „jobb adni mint kapni“ [es ist besser zu geben als zu nehmen] manifestiert.
Darin zeigt sich nicht nur der Reichtum einer gefestigten Identität, sondern die Notwendigkeit der Offenheit anderen gegenüber, wie die Verfassung anerkennt, wenn sie erklärt: »Wir achten die Freiheit und die Kultur anderer Völker und streben eine Zusammenarbeit mit allen Nationen der Welt an.«. Sie besagt weiter: »Die mit uns zusammenlebenden Nationalitäten sind staatsbildender Teil der ungarischen politischen Gemeinschaft«, und es wird die Verpflichtung »die Sprache und Kultur der in Ungarn lebenden Nationalitäten […], zu pflegen und zu bewahren«, festgelegt. Diese Perspektive ist wahrhaft dem Evangelium gemäß und wirkt einer gewissen Tendenz, sich auf sich selbst zurückzuziehen, entgegen, die manchmal mit den eigenen Traditionen und sogar mit dem Glauben begründet wird.
Der Verfassungstext besagt in wenigen und entscheidenden Worten, die vom christlichen Geist durchdrungen sind: »Wir bekennen uns zum Gebot der Unterstützung der Hilfsbedürftigen und der Armen«. Dies erinnert an die weitere ungarische Geschichte der Heiligkeit, von der die zahlreichen Gotteshäuser in der Hauptstadt erzählen: Nach dem ersten König, der die Fundamente des Zusammenlebens legte, geht es weiter mit einer Prinzessin, die es, darauf aufbauend, zur höchsten Reinheit führte. Es ist die heilige Elisabeth, deren Zeugnis eine weite Verbreitung gefunden hat. Diese Tochter eures Landes ist im Alter von vierundzwanzig Jahren gestorben, nachdem sie auf alle Güter verzichtet und alles an die Armen verteilt hatte. Sie widmete sich bis zum Schluss in dem Krankenhaus, das sie hatte erbauen lassen, der Pflege der Kranken: Sie ist ein Juwel, das den Glanz des Evangeliums ausstrahlt.
Geschätzte Autoritäten, ich möchte Ihnen für die Förderung der karitativen und erzieherischen Werke danken, die von diesen Werten inspiriert sind und in denen sich die hiesige katholische Gemeinschaft engagiert, sowie für die konkrete Unterstützung so vieler leidgeprüfter Christen in der ganzen Welt, insbesondere in Syrien und im Libanon. Eine gute Zusammenarbeit zwischen Staat und Kirche ist fruchtbar, um aber eine solche zu sein, muss sie die angebrachten Unterscheidungen wahren. Es ist wichtig, dass sich jeder Christ daran erinnert, indem er das Evangelium als Bezugspunkt behält, um an den freien und befreienden Entscheidungen Jesu festzuhalten und sich nicht mit der Logik der Macht zu verbrüdern. Unter diesem Gesichtspunkt ist eine gesunde Laizität zuträglich, die nicht in einen diffusen Laizismus abgleitet, der sich als auf jeden Aspekt des Heiligen allergisch erweist, um sich dann aber auf den Altären des Profits zu opfern. Diejenigen, die sich als Christen bekennen und von den Zeugen des Glaubens begleitet werden, sind in erster Linie dazu berufen, Zeugnis abzulegen und mit allen unterwegs zu sein, indem sie einen Humanismus pflegen, der vom Evangelium inspiriert ist und zwei Grundlinien folgt: sich als geliebte Kinder des Vaters zu erkennen und alle als Geschwister zu lieben.
In diesem Sinne hinterließ der heilige Stephan seinem Sohn außergewöhnliche Worte der Geschwisterlichkeit, indem er sagte, dass jeder »das Land schmückt«, der mit anderen Sprachen und Sitten dorthin kommt. Denn, so schrieb er, »ein Land, das nur eine Sprache und eine Sitte hat, ist schwach und hinfällig. Deshalb empfehle ich dir, Fremde wohlwollend aufzunehmen und sie in Ehren zu halten, damit sie lieber bei dir bleiben als andernorts« (Ermahnungen, VI). Dieses Thema der Aufnahme sorgt in unserer Zeit für viele Debatten und ist sicherlich komplex. Für Christen kann die Grundhaltung jedoch keine andere sein als die, die der heilige Stephan weitergegeben hat, nachdem er sie von Jesus gelernt hatte, der sich mit dem Fremden identifiziert hat, der aufgenommen werden sollte (vgl. Mt 25,35). Gerade wenn wir an Christus denken, der in so vielen verzagten Brüdern und Schwestern anwesend ist, die vor Konflikten, Armut und Klimawandel fliehen, müssen wir das Problem ohne Ausreden und Verzögerungen angehen. Es ist ein Thema, dem wir uns zusammen stellen müssen, gemeinschaftlich, auch weil die Folgen in dem Kontext, in dem wir leben, sich früher oder später auf alle auswirken werden. Deshalb ist es dringlich, dass wir als Europa an sicheren und legalen Wegen arbeiten, an gemeinsamen Mechanismen angesichts einer epochalen Herausforderung, die nicht durch Zurückweisung eingedämmt werden kann, sondern angenommen werden muss, um eine Zukunft vorzubereiten, die es, wenn sie keine gemeinsame ist, nicht geben wird. Das ruft diejenigen, die Jesus nachfolgen und das Beispiel der Zeugen des Evangeliums nachahmen wollen, an die vorderste Front.
Es ist nicht möglich, alle großen Bekenner des Glaubens im Heiligen Pannonien zu erwähnen, aber ich möchte zumindest den heiligen Ladislaus und die heilige Margareta erwähnen und auf einige großartige Persönlichkeiten des letzten Jahrhunderts hinweisen, wie Kardinal József Mindszenty, die seligen Märtyrerbischöfe Vilmos Apor und Zoltán Meszlényi, den seligen László Batthyány-Strattmann. Sie sind, zusammen mit so vielen rechtschaffenen Menschen verschiedener Glaubensrichtungen, Väter und Mütter eurer Heimat. Ihnen möchte ich die Zukunft dieses Landes anvertrauen, das mir sehr am Herzen liegt. Und während ich euch danke, dass ihr dem zugehört habt, was ich mit euch teilen wollte – ich danke euch für eure Geduld –, versichere ich meine Nähe und mein Gebet für alle Ungarn und ich tue es mit einem besonderen Gedanken an diejenigen, die außerhalb des Heimatlandes leben, und an diejenigen, die ich im Leben getroffen habe und die mir viel Gutes getan haben. Ich denke an die ungarische Ordensgemeinschaft, die ich in Buenos Aires begleitet habe. Isten, áldd meg a magyart! [Gott, segne die Ungarn!]
Señora Presidenta de la República,
señor Primer Ministro,
distinguidos miembros del gobierno y del Cuerpo diplomático,
ilustres autoridades y representantes de la sociedad civil,
señoras y señores:
Los saludo cordialmente y agradezco a la señora Presidenta la acogida y también sus amables y profundas palabras. La política nace de la ciudad, de la polis, de la pasión concreta por vivir juntos garantizando derechos y respetando deberes. Pocas ciudades nos ayudan a reflexionar sobre esto como Budapest, que no es sólo una capital señorial y vivaz, sino un lugar central en la historia. Habiendo sido testigo de cambios significativos a lo largo de los siglos, está llamada a ser protagonista del presente y del futuro. Aquí, como escribió uno de sus grandes poetas, «se abrazan las suaves olas del Danubio, que es pasado, presente y futuro» (A. József, Al Danubio). Quisiera pues compartir algunas ideas inspirándome en Budapest como ciudad de historia, ciudad de puentes y ciudad de santos.
1. Ciudad de historia. Esta capital tiene orígenes antiguos, como atestiguan los restos de época céltica y romana. Sin embargo, su esplendor nos lleva a la modernidad, cuando fue capital del Imperio austro-húngaro, durante el periodo de paz conocido como belle époque, que se extendió desde los años de su fundación hasta la primera guerra mundial. Nacida en tiempo de paz, ha conocido conflictos dolorosos; no sólo invasiones de tiempos lejanos sino, en el siglo pasado, violencia y opresión provocadas por las dictaduras nacista y comunista —¿cómo olvidar el año 1956? Y, durante la segunda guerra mundial, la deportación de cientos de miles de habitantes, con el resto de la población de origen judío encerrada en el gueto y sometida a numerosas atrocidades. En ese contexto hubo muchos justos valientes —pienso, por ejemplo, en el Nuncio Angelo Rotta—, mucha resiliencia y un gran esfuerzo en la reconstrucción, de modo que hoy Budapest es una de las ciudades europeas con el mayor porcentaje de población judía, centro de un país que conoce el valor de la libertad y que, después de haber pagado un alto precio a las dictaduras, lleva en sí la misión de custodiar el tesoro de la democracia y el sueño de la paz.
A este respecto, quisiera volver sobre la fundación de Budapest, que este año se celebra solemnemente. De hecho, se fundó hace ciento cincuenta años, en 1873, con la unión de tres ciudades: Buda y Óbuda, al oeste del Danubio, y Pest, situada en la costa contraria. El nacimiento de esta gran capital en el corazón del continente evoca el camino unitario emprendido por Europa, en la que Hungría encuentra el propio cauce vital. En la posguerra Europa representó, junto con las Naciones Unidas, la gran esperanza, con el objetivo común de que un lazo más estrecho entre las naciones previniera conflictos ulteriores. Lamentablemente no ha sido así. A pesar de todo, en el mundo en que vivimos, la pasión por la política comunitaria y por la multilateralidad parece un bonito recuerdo del pasado; parece que asistiéramos al triste ocaso del sueño coral de paz, mientras los solistas de la guerra se imponen. En general, parece que se hubiera disuelto en los ánimos el entusiasmo de edificar una comunidad de naciones pacífica y estable, delimitando las zonas, acentuando las diferencias, volviendo a rugir los nacionalismos y exasperándose los juicios y los tonos hacia los demás. Parece incluso que la política a nivel internacional tuviera como efecto enardecer los ánimos más que resolver problemas, olvidando la madurez que alcanzó después de los horrores de la guerra y retrocediendo a una especie de infantilismo bélico. Pero la paz nunca vendrá de la persecución de los propios intereses estratégicos, sino más bien de políticas capaces de mirar al conjunto, al desarrollo de todos; atentas a las personas, a los pobres y al mañana; no sólo al poder, a las ganancias y a las oportunidades del presente.
En este momento histórico Europa es fundamental. Porque ella, gracias a su historia, representa la memoria de la humanidad y, por tanto, está llamada a desempeñar el rol que le corresponde: el de unir a los alejados, acoger a los pueblos en su seno y no dejar que nadie permanezca para siempre como enemigo. Por tanto, es esencial volver a encontrar el alma europea: el entusiasmo y el sueño de los padres fundadores, estadistas que supieron mirar más allá del propio tiempo, de las fronteras nacionales y las necesidades inmediatas, generando diplomacias capaces de recomponer la unidad, en vez de agrandar las divisiones. Pienso cuando De Gasperi, en una mesa redonda donde también participaron Schuman y Adenauer, dijo: «Es por ella misma, no por oposición a otros, que nosotros preconizamos la Europa unida… trabajamos por la unidad, no por la división» (Intervención en la Mesa redonda de Europa, Roma, 13 octubre 1953). Y también en lo que dijo Schuman: «La contribución que una Europa organizada y viva puede aportar a la civilización es indispensable para el mantenimiento de unas relaciones pacíficas», en cuanto —¡palabras memorables!— «la paz mundial no puede salvaguardarse sin unos esfuerzos creadores, equiparables a los peligros que la amenazan» (Declaración Schuman, 9 mayo 1950). En esta etapa histórica los peligros son muchos; pero, me pregunto, pensando también en la martirizada Ucrania, ¿dónde están los esfuerzos creadores de paz?
2. Budapest es ciudad de puentes. Vista desde lo alto, “la perla del Danubio” muestra su peculiaridad precisamente gracias a los puentes que unen sus partes, armonizando su configuración con la del gran río. Esta armonía con el ambiente me lleva a felicitar el cuidado ecológico que este país realiza con gran esfuerzo. Pero los puentes, que conectan realidades diversas, también nos sugieren reflexionar sobre la importancia de una unidad que no signifique uniformidad. En Budapest esto surge de la notable variedad de las circunscripciones que la componen, que son más de veinte. También la Europa de los veintisiete, construida para crear puentes entre las naciones, necesita del aporte de todos sin disminuir la singularidad de ninguno. A este respecto, un padre fundador preconizaba: «Europa existirá y nada de lo que constituye la gloria y la felicidad de cada nación se podrá perder. Es precisamente en una sociedad más amplia, en una armonía más eficaz, que el individuo puede afirmarse» (Intervención cit.). Se necesita esta armonía: un conjunto que no aplaste las partes y partes que se sientan bien integradas en el conjunto, pero conservando la propia identidad. A este propósito, es significativo lo que afirma la Constitución húngara: «La libertad individual sólo puede desarrollarse en la colaboración con los demás»; y continúa: «Consideramos que nuestra cultura nacional es un aporte valioso a la multicolor unidad europea».
Pienso, por tanto, en una Europa que no sea rehén de las partes, volviéndose presa de populismos autorreferenciales, pero que tampoco se transforme en una realidad fluida, o gaseosa, en una especie de supranacionalismo abstracto, que no tiene en cuenta la vida de los pueblos. Este es el camino nefasto de las “colonizaciones ideológicas”, que eliminan las diferencias —como en el caso de la denominada cultura de la ideología de género—, o anteponen a la realidad de la vida conceptos reductivos de libertad —por ejemplo, presumiendo como conquista un insensato “derecho al aborto”, que es siempre una trágica derrota—. Qué hermoso, en cambio, construir una Europa centrada en la persona y en los pueblos, donde haya políticas efectivas para la natalidad y la familia —tenemos países en Europa con la edad media de 46-48 años—, buscadas con atención en este país; donde naciones diversas sean una familia en la que se vela por el crecimiento y la singularidad de cada uno. El puente más famoso de Budapest, el de las cadenas, nos ayuda a imaginar una Europa así, constituida por muchos anillos grandes y diferentes, que encuentran su propia firmeza al formar juntos vínculos sólidos. En esto, la fe cristiana ayuda, y Hungría puede hacer de “pontonero”, valiéndose de su específico carácter ecuménico; aquí diversas confesiones conviven sin antagonismos —recuerdo la reunión que tuve con ellos hace un año y medio—, colaborando respetuosamente, con espíritu constructivo. Con la mente y el corazón me dirijo a la Abadía de Pannonhalma, uno de los grandes monumentos espirituales de este país, lugar de oración y puente de fraternidad.
3. Y esto me lleva a considerar el último aspecto: Budapest ciudad de santos —la señora Presidenta habló de santa Isabel—, como nos lo sugiere también el nuevo cuadro colocado en esta sala. El pensamiento no puede menos que dirigirse a san Esteban, primer rey de Hungría, que vivió en una época en la que los cristianos en Europa estaban en plena comunión. Su estatua, en el interior del castillo de Buda, sobresale y protege la ciudad, mientras que la basílica dedicada a él en el corazón de la capital es, junto con la de Esztergom, el edificio religioso más imponente del país. Por tanto, la historia húngara nace marcada por la santidad, y no sólo de un rey, sino de toda una familia: su esposa, la beata Gisela, y su hijo san Emerico. Este recibió de su padre algunas observaciones, que constituyen una especie de testamento para el pueblo magiar. Hoy prometieron regalarme el volumen, ¡lo espero! En él leemos palabras muy actuales: «Te recomiendo que seas amable no sólo con tu familia y parientes, o con los poderosos y adinerados, o con tu prójimo y tus habitantes, sino también con los extranjeros». San Esteban motiva todo ello con genuino espíritu cristiano, escribiendo: «La práctica del amor es la que conduce a la felicidad suprema». Y comenta diciendo: «Sé manso a fin de no combatir nunca contra la verdad» (Observaciones, X). De ese modo conjuga inseparablemente la verdad y la mansedumbre. Es una gran enseñanza de fe. Los valores cristianos no pueden ser testimoniados por medio de la rigidez y las cerrazones, porque la verdad de Cristo conlleva mansedumbre, conlleva amabilidad, en el espíritu de las Bienaventuranzas. Aquí radica esa bondad popular húngara, revelada por ciertas expresiones del lenguaje común, como por ejemplo: “jónak lenni jó” [es bueno ser buenos] y “jobb adni mint kapni” [es mejor dar que recibir].
De esto no sólo se desprende la riqueza de una identidad sólida, sino la necesidad de apertura a los demás, como reconoce la Constitución cuando declara: «Respetamos la libertad y la cultura de los otros pueblos, nos comprometemos a colaborar con todas las naciones del mundo». Esta también afirma: «Las minorías nacionales que viven con nosotros forman parte de la comunidad política húngara y son parte constitutiva del Estado», y se propone el esfuerzo «por el cuidado y la protección […] de las lenguas y de las culturas de las minorías nacionales en Hungría». Esta perspectiva es verdaderamente evangélica, tanto que contrasta una cierta tendencia —a veces justificada en nombre de las propias tradiciones e incluso de la fe— a replegarse sobre sí.
Asimismo, el Texto constitutivo, en pocas y decisivas palabras impregnadas de espíritu cristiano, asevera: «Declaramos que la asistencia a los necesitados y a los pobres es una obligación». Esto remite a la sucesiva historia de santidad húngara, representada por los numerosos lugares de culto de la capital: desde el primer rey, que estableció los fundamentos de la vida común, a una princesa que eleva el edificio hacia una pureza mayor. Es santa Isabel, cuyo testimonio ha alcanzado todas las latitudes. Esta hija de vuestra tierra murió con veinticuatro años después de haber renunciado a sus bienes y haber distribuido todo a los pobres. Se dedicó hasta el final al cuidado de los enfermos, en el hospital que había mandado construir; es una piedra preciosa del Evangelio.
Distinguidas autoridades, quisiera agradecerles por la promoción de las obras caritativas y educativas inspiradas por dichos valores y en los que se empeña la estructura católica local, así como por el apoyo concreto a tantos cristianos que atraviesan dificultades en el mundo, especialmente en Siria y en el Líbano. Una provechosa colaboración entre el Estado y la Iglesia es fecunda, pero, para que sea así, necesita salvaguardar bien las oportunas distinciones. Es importante que todo cristiano lo recuerde, teniendo como punto de referencia el Evangelio, para adherir a las decisiones libres y liberadoras de Jesús y no prestarse a una especie de colaboracionismo con las lógicas del poder. Desde este punto de vista, hace bien una sana laicidad, que no decaiga en el laicismo generalizado, que se muestra alérgico a cualquier aspecto sacro para luego inmolarse en los altares de la ganancia. Quien se profesa cristiano, acompañado por los testigos de la fe, está llamado principalmente a dar testimonio y a caminar con todos, cultivando un humanismo inspirado por el Evangelio y encaminado sobre dos vías fundamentales: reconocerse hijos amados del Padre y amar a cada uno como hermano.
En este sentido, san Esteban dejaba a su hijo extraordinarias palabras de fraternidad, diciendo que quien llega allí con lenguas y costumbres diferentes «adorna el país». En efecto —escribía— «un país que tiene una sola lengua y una sola tradición es débil y decadente. Por eso, te recomiendo que acojas con benevolencia a los forasteros y los honres, de manera que prefieran estar contigo y no en otro lugar» (Observaciones, VI). La acogida es un tema que suscita numerosos debates en nuestros días y sin duda es complejo. Sin embargo, la actitud de fondo para los cristianos no puede ser diferente de lo que transmitió san Esteban, después de haberlo aprendido de Jesús, que se identificó con el extranjero necesitado de acogida (cf. Mt 25,35). Pensando en Cristo presente en tantos hermanos y hermanas desesperados que huyen de los conflictos, la pobreza y los cambios climáticos, necesitamos afrontar el problema sin excusas ni dilaciones. Es un tema que debemos afrontar juntos, comunitariamente, porque en el contexto en que vivimos, las consecuencias, tarde o temprano, repercutirán sobre todos. Por eso es urgente, como Europa, trabajar por vías seguras y legales, con mecanismos compartidos frente a un desafío de época que no se podrá detener rechazándolo, sino que debe acogerse para preparar un futuro que, si no lo hacemos juntos, no llegará. Esto requiere en primera línea a quienes siguen a Jesús y quieren imitar el ejemplo de los testigos del Evangelio.
No es posible citar a todos los grandes confesores de la fe de la Pannonia Sacra, pero al menos quisiera mencionar a san Ladislao y santa Margarita, y hacer referencia a algunas figuras majestuosas del siglo pasado, como el cardenal József Mindszenty, los beatos obispos mártires Vilmos Apor y Zoltán Meszlényi, y el beato László Batthyány-Strattmann. Ellos son, junto con muchos justos de varios credos, padres y madres de vuestra patria. A ellos quisiera encomendar el futuro de este país, tan querido para mí. Y mientras les agradezco por haber escuchado cuanto tenía la intención de compartirles —les agradezco su paciencia—, aseguro mi cercanía y mi oración a todos los húngaros, y lo hago con un recuerdo especial por aquellos que viven fuera de la patria y por cuantos he conocido durante mi vida y me han hecho tanto bien. Pienso en la comunidad religiosa húngara que acompañé en Buenos Aires. Isten, áldd meg a magyart! [¡Dios, bendice a los húngaros!]
Traduzione in lingua portoghese
Senhora Presidente da República,
Senhor Primeiro-Ministro,
Distintos Membros do Governo e do Corpo Diplomático,
Ilustres Autoridades e Representantes da sociedade civil,
Senhoras e Senhores!
Saúdo-vos cordialmente e agradeço à Senhora Presidente pelo acolhimento e também pelas suas amáveis e profundas palavras. A política nasce da cidade, da polis, da paixão concreta por estar juntos, garantindo direitos e respeitando deveres. Poucas cidades nos ajudam tanto a refletir sobre isto como Budapeste, que não é apenas uma capital elegante e viva, mas ocupou também um lugar central na história: testemunha de significativas viragens ao longo dos séculos, está chamada a ser protagonista do presente e do futuro; aqui – como escreveu um grande poeta vosso – «abraçam-se as ondas mansas do Danúbio, que é passado, presente e futuro» (A. József, Ao Danúbio). Gostava, pois, de partilhar algumas reflexões, partindo de Budapeste como cidade de história, cidade de pontes e cidade de santos.
1. Cidade de história. Esta capital tem origens antigas, como testemunham os vestígios das épocas celta e romana. Mas o seu esplendor remete-nos para a modernidade, quando foi capital do Império Austro-Húngaro durante aquele período de paz conhecido como belle époque, que se estendeu desde os anos da sua fundação até à I Guerra Mundial. Surgida em tempo de paz, conheceu dolorosos conflitos: não só invasões de tempos longínquos, mas também violências e opressões causadas pelas ditaduras nazista e comunista, no século passado. Como esquecer 1956? E, durante a II Guerra Mundial, a deportação de dezenas e dezenas de milhares de habitantes, com a restante população de origem judaica encerrada no gueto e sujeita a numerosos massacres. Num tal contexto, houve muitos justos valorosos – penso, por exemplo, no Núncio Angelo Rotta –, muita resiliência e grande empenho na reconstrução, de modo que hoje Budapeste é uma das cidades europeias com maior percentagem de população judaica, o centro dum país que conhece o valor da liberdade e que, depois de ter pago um alto preço às ditaduras, traz consigo a missão de guardar o tesouro da democracia e o sonho da paz.
A propósito, quero voltar à fundação de Budapeste, que se celebra solenemente neste ano. De facto, ocorreu há 150 anos, em 1873, a partir da união de três cidades: Buda e Óbuda a oeste do Danúbio com Pest, localizada na margem oposta. O nascimento desta grande capital no coração do continente faz lembrar o caminho rumo à unidade empreendido pela Europa, onde a Hungria encontra o seu alvéolo vital. No pós-guerra, a Europa constituiu, juntamente com as Nações Unidas, a grande esperança para o objetivo comum de um vínculo mais estreito entre as nações que evitasse novos conflitos. Infelizmente não foi assim. E todavia, no mundo em que vivemos, a paixão pela política comunitária e pelo multilateralismo parece não passar duma linda recordação do passado: parece-nos assistir ao triste ocaso do sonho coral de paz, enquanto avançam os solistas da guerra. Em geral, parece ter-se desintegrado nos espíritos o entusiasmo por edificar uma comunidade das nações pacífica e estável, enquanto se demarcam as zonas, sublinham as diferenças, voltam a rugir os nacionalismos e exasperam-se os juízos e tons de uns contra os outros. A nível internacional, parece até que a política se proponha como efeito inflamar os ânimos em vez de resolver os problemas, esquecendo a maturidade alcançada depois dos horrores da guerra e regredindo para uma espécie de infantilismo bélico. Ora a paz não virá jamais da prossecução dos próprios interesses estratégicos, mas de políticas capazes de olhar ao conjunto, ao desenvolvimento de todos: atentas às pessoas, aos pobres e ao amanhã; e não apenas ao poder, aos lucros e às oportunidades do presente.
Nesta conjuntura histórica, a Europa é fundamental. Graças à sua história, representa a memória da humanidade e, por isso, está chamada a desempenhar o papel que lhe corresponde: unir os distantes, acolher no seu seio os povos e não deixar ninguém para sempre inimigo. Por conseguinte é essencial reencontrar a alma europeia: o entusiasmo e o sonho dos pais fundadores, estadistas que souberam olhar para além do seu tempo, das fronteiras nacionais e das necessidades imediatas, gerando diplomacias capazes de restabelecer a unidade, não de ampliar as ruturas. Penso nas palavras ditas por Alcides de Gasperi, numa mesa redonda onde se encontravam também Schuman e Adenauer: «É para bem dela mesma, e não para a opor a outros, que defendemos a Europa unida (...); trabalhamos pela unidade, não pela divisão» (Intervenção na Mesa Redonda da Europa, Roma, 13/10/1953). E penso ainda em quanto disse Schuman: «O contributo que uma Europa organizada e viva pode oferecer à civilização é indispensável para a manutenção de relações pacíficas», pois – continua ele, com palavras memoráveis – «a paz mundial só poderá ser salvaguardada com esforços criativos, proporcionais aos perigos que a ameaçam» (Declaração de Schuman, 09/5/1950). Nesta fase histórica, os perigos são muitos; mas eu pergunto-me, pensando também na martirizada Ucrânia, onde estão os esforços criativos de paz?
2. Budapeste é cidade de pontes. Vista do alto, «a pérola do Danúbio» mostra a sua peculiaridade precisamente graças às pontes que unem as suas partes, harmonizando a sua configuração à do grande rio. Esta harmonia com o meio ambiente leva-me a felicitá-los pelo cuidado ecológico no qual se coloca grande empenho neste país. Mas as pontes, que unem realidades diversas, sugerem também refletir sobre a importância duma unidade que não signifique uniformidade. Em Budapeste, isto resulta da notável variedade das circunscrições que a compõem: mais de vinte. Também a Europa dos 27, construída para criar pontes entre as nações, precisa da contribuição de todos sem diminuir a singularidade de ninguém. A este propósito, preconizava um pai fundador: «A Europa existirá e nada se perderá daquilo que fez a glória e a felicidade de cada nação. É precisamente numa sociedade mais ampla, numa harmonia mais forte, que o indivíduo se pode afirmar» (Intervenção cit.). Há necessidade desta harmonia: dum conjunto que não amachuque as partes, e de partes que se sintam bem integradas no conjunto, mas conservando a identidade própria. Significativo a este respeito é o que se afirma na Constituição húngara: «A liberdade individual só se pode desenvolver na colaboração com os outros»; e ainda: «consideramos que a nossa cultura nacional seja um rico contributo para a multicolorida unidade europeia».
Penso, pois, numa Europa que não seja refém das partes, tornando-se presa de populismos autorreferenciais, mas também que não se transforme numa realidade fluida, gasosa, numa espécie de supranacionalismo abstrato, alheio à vida dos povos. Tal é o caminho nefasto das «colonizações ideológicas», que eliminam as diferenças, como no caso da chamada cultura do género, ou então antepõem à realidade da vida conceitos redutores de liberdade, quando por exemplo se alardeia como conquista um insensato «direito ao aborto», que é sempre uma trágica derrota. Ao contrário, como é belo construir uma Europa centrada na pessoa e nos povos, onde haja políticas eficientes para a natalidade e a família cuidadosamente implementadas como neste país (na Europa, há nações cuja idade média é de 46-48 anos!), onde nações diversas sejam uma família em que se preserva o crescimento e a singularidade de cada um. A ponte mais famosa de Budapeste – a das correntes – ajuda-nos a imaginar uma Europa parecida, formada por muitos e grandes anéis diferentes, cuja solidez depende da firmeza dos vínculos estabelecidos entre si. Para isso muito contribui a fé cristã, podendo a Hungria servir de «construtora de pontes» graças ao seu específico caráter ecuménico: aqui convivem sem antagonismos diferentes Confissões (recordo a reunião que tive com elas há ano e meio), colaborando respeitosamente, com espírito construtivo. Com a mente e o coração vou até à Abadia de Pannonhalma, um dos grandes monumentos espirituais deste país, lugar de oração e ponte de fraternidade.
3. E isto leva-me a considerar o último aspeto: Budapeste, cidade de santos. A Senhora Presidente falou de Santa Isabel e o mesmo nos sugere também a nova pintura colocada nesta sala. Entretanto o nosso pensamento não pode deixar de ir até Santo Estêvão, primeiro rei da Hungria que viveu numa época em que estavam em plena comunhão os cristãos na Europa; a sua estátua, no interior do Castelo de Buda, sobressai e protege a cidade, enquanto a Basílica a ele dedicada no coração da capital é, juntamente com a de Esztergom, o edifício religioso mais imponente do país. Deste modo, a história húngara nasce marcada pela santidade, não só de um rei, mas duma família inteira: sua esposa Beata Gisela e seu filho Santo Emerico. Este recebeu do pai algumas recomendações que constituem uma espécie de testamento para o povo magiar (hoje prometeram dar-me de prenda o tomo; fico à espera dele). Nelas lemos palavras muito atuais: «Recomendo que sejas gentil não só com a tua família e parentes, ou com os poderosos e ricos, ou com o teu vizinho e os habitantes do país, mas também com os estrangeiros». E Santo Estêvão motiva tudo isto com genuíno espírito cristão, escrevendo: «É a prática do amor que leva à felicidade suprema». E conclui dizendo: «Sê manso, para nunca combateres a verdade» (Admoestações, X). Assim ele combina, inseparavelmente, verdade e mansidão. É um grande ensinamento de fé: os valores cristãos não podem ser testemunhados com rigidez e isolamento, porque a verdade de Cristo inclui mansidão, inclui gentileza segundo o espírito das Bem-aventuranças. Aqui se radica aquela bondade popular húngara, subjacente a certas expressões da linguagem comum, tais como «jónak lenni jó [é bom ser bom]» e «jobb adni mint kapni [é melhor dar do que receber]».
Disto transparece não só a riqueza duma sólida identidade, mas também a necessidade de abertura aos outros, como reconhece a Constituição ao declarar: «Respeitamos a liberdade e a cultura dos outros povos, comprometemo-nos a colaborar com todas as nações do mundo». E afirma ainda: «As minorias nacionais que vivem connosco fazem parte da comunidade política húngara e são parcelas constitutivas do Estado», e propõe o empenho «pelo cuidado e a proteção (...) das línguas e culturas das minorias nacionais na Hungria». Trata-se duma perspetiva verdadeiramente evangélica, que contrasta uma certa tendência, por vezes justificada em nome das próprias tradições e até da fé, para se fechar em si mesmo.
Além disso, em poucas e decisivas palavras impregnadas de espírito cristão, sustenta o texto constitucional: «Declaramos como obrigação a assistência aos necessitados e aos pobres». Isto lembra a continuação da história de santidade húngara, contada pelos numerosos locais de culto da capital: do primeiro Rei, que estabeleceu os alicerces da convivência comum, passa-se a uma Princesa que eleva o edifício para uma pureza ainda maior. É Santa Isabel, cujo testemunho se estendeu a todas as latitudes. Esta filha da vossa terra morreu aos 24 anos, depois de ter renunciado aos seus bens distribuindo tudo pelos pobres. Dedicou-se até ao fim ao cuidado dos doentes no hospital que fizera construir: trata-se duma joia resplandecente de Evangelho.
Distintas Autoridades, quero agradecer-vos pela promoção das obras caritativas e educacionais inspiradas por tais valores e nas quais se empenha a comunidade católica local, bem como pelo apoio concreto a tantos cristãos provados no mundo, especialmente na Síria e no Líbano. Mas uma profícua colaboração entre Estado e Igreja, para ser fecunda, necessita de salvaguardar bem as devidas distinções. É importante que cada cristão se lembre disto, tendo como ponto de referência o Evangelho, para aderir às opções livres e libertadoras de Jesus e não se prestar a uma espécie de colateralidade às lógicas do poder. Deste ponto de vista, é boa uma sã laicidade, que não descaia naquele laicismo generalizado que se mostra alérgico a todo e qualquer aspeto sacro para depois se imolar nos altares do lucro. Quem se professa cristão, impelido pelo exemplo das testemunhas da fé, é chamado principalmente a dar testemunho e a caminhar com todos, cultivando um humanismo inspirado pelo Evangelho e que se orienta sobre duas linhas fundamentais: reconhecer-se filho amado do Pai e amar a cada um como irmão.
Neste sentido, Santo Estêvão deixou ao filho palavras de fraternidade extraordinárias, afirmando que «adorna o país» quem a ele chega com línguas e costumes diversos. De facto – escrevia – «um país que só tem uma língua e um só costume é frágil e decadente. Por isso recomendo-te que acolhas benignamente os estrangeiros e os honres, de modo que prefiram mais ficar junto de ti do que noutro lugar» (Admoestações, VI). O acolhimento é um tema que suscita muitos debates em nossos dias e é, sem dúvida, complexo. Todavia, para quem é cristão, a atitude de fundo não pode ser diferente daquela que Santo Estêvão transmitiu, depois de a ter aprendido de Jesus, que Se identificou com o estrangeiro carecido de acolhimento (cf. Mt 25, 35). Vendo Cristo presente em tantos irmãos e irmãs desesperados que fogem de conflitos, pobreza e alterações climáticas, é preciso enfrentar o problema sem desculpas e sem demora. É tema que deve ser enfrentado juntos, em comunidade, até porque, no contexto em que vivemos, mais cedo ou mais tarde as consequências repercutir-se-ão sobre todos. Por isso é urgente, como Europa, trabalhar em vias seguras e legais, em mecanismos partilhados face a um desafio epocal que não se pode travar rejeitando-o, mas deve ser acolhido para preparar um futuro que, se não for de todos em conjunto, não existirá. Isto chama a intervir em primeira linha quem segue Jesus e quer imitar o exemplo das testemunhas do Evangelho.
Não é possível citar todos os grandes Confessores da fé da Sacra Panónia, mas quero ao menos mencionar São Ladislau e Santa Margarida, e referir certas figuras insignes do século passado, como o Cardeal József Mindszenty, os Beatos Bispos mártires Vilmos Apor e Zoltán Meszlényi, o Beato László Batthyány-Strattmann. Constituem, juntamente com muitos justos de vários credos, pais e mães da vossa pátria. A eles quero confiar o futuro deste país, que me é tão querido. E enquanto vos agradeço por terdes escutado tudo o que tinha em ânimo partilhar (obrigado pela paciência!), asseguro a minha solidariedade e a minha oração por todos os húngaros, e faço-o com um pensamento especial para todos aqueles que vivem fora da pátria e quantos encontrei na vida e me fizeram muito bem. Penso na comunidade religiosa húngara que acompanhei em Buenos Aires. Isten, áldd meg a magyart [ó Deus, abençoai os húngaros]!
الزيارة الرسوليّة إلى هنغاريا
كلمة قداسة البابا فرنسيس
في اللقاء مع السُّلُطات وممثّلي المجتمع المدنيّ والسّلك الدبلوماسيّ
في دير كرملي سابق في بودابست
الجمعة 28 نيسان/أبريل 2023
السّيّدة رئيسة الجمهوريّة،
السّيّد رئيس الوزراء،
أعضاء الحكومة والسّلك الدبلوماسيّ المحترمين،
السُّلُطات وممثّلي المجتمع المدنيّ المحترمين،
سيداتي، سادتي،
أحيّيكم تحيّة قلبيّة، وأشكر السّيّدة الرّئيسة على ترحيبها وعلى كلماتها الطيّبة أيضًا. السّياسة تولد من المدينة، من اللفظة اليونانيّة للمدينة (polis)، ومن الحبّ العمليّ للعيش معًا، الذي يضمن الحقوق ويحترم الواجبات. بودابست هي إحدى المدن القليلة التي تساعدنا على التّفكير في هذا، وهي ليست فقط عاصمة نبيلة وزاخرة بالحياة، بل مكان مركزي في التّاريخ: شهدت تحوّلات مهمّة على مرّ القرون، فهي مدعوة إلى أن تكون عاملًا رئيسيًّا في الحاضر والمستقبل. هنا، كما كتب أحد شعرائكم الكبار، "هنا تتعانق مياه نهر الدانوب السّاكنة، مياه النهر الذي هو الماضي والحاضر والمستقبل" (A. József, Al Danubio). لذلك أودّ أن أشارككم بعض الأفكار، المستوحاة من بودابست، مدينة التّاريخ ومدينة الجسور ومدينة القدّيسين.
1. مدينة التّاريخ. هذه العاصمة لها أصول قديمة، كما تشهد بذلك بقايا العصرَين القِلتي والرّوماني. على أنّ جمالها يعود بنا إلى عصر الحداثة، عندما كانت عاصمة الإمبراطوريّة النمساويّة-الهنغاريّة في فترة السّلام المعروفة باسم ”العصر الجميل“، والذي امتد من سنوات تأسيسها حتّى الحرب العالميّة الأولى. نشأت في زمن السّلام، ثمّ اختبرت صراعات مؤلمة: ليس فقط غزوات الأزمنة البعيدة، ولكن في القرن الماضيّ، اختبرت العنف والقمع الناجم عن الديكتاتوريّات النازيّة والشّيوعيّة - كيف يمكننا أن ننسى سنة 1956؟ وخلال الحرب العالميّة الثّانية، تمّ ترحيل عشرات وعشرات الآلاف من السّكان، مع احتجاز من تبقى منهم من أصول يهوديّة في الحيّ اليهوديّ وقد تعرّضوا لمجازر عديدة. في هذا السّياق، كان هناك رجال صالحون شجعان عديدون - أفكر في السّفير البابوي أنجيلو روتا – الذي كان لديه الكثير من المرونة والالتزام الكبير بإعادة البناء، وهكذا صارت بودابست اليوم إحدى المدن الأوروبيّة التي تضمّ أعلى نسبة من السّكان اليهود، ومركز دولة تَعرِفُ قيمة الحرّيّة، وبعد أن دفعت ثمنًا غاليًا للديكتاتوريّات، تحمل في داخلها مهمّة حماية كنز الدّيمقراطيّة وحلم السّلام.
في هذا الصّدد، أودّ أن أعود إلى تأسيس بودابست، الذي يُحتفَلُ به رسميًا هذه السّنة. تأسّست بودابست قبل 150 سنة، في سنة 1873، من اتحاد ثلاث مدن: بودا وأوبودا (Buda e Óbuda) غربَ نهر الدانوب وبيست (Pest)، الواقعة على الضّفة المقابلة. ولادة هذه العاصمة الكبيرة في قلب القارة تذكّر بمسيرة أوروبا نحو الوَحدة، وفيها وجدت هنغاريا أساسًا حيويًّا لها. وبعد الحرب، مثّلت أوروبا، إلى جانب الأمم المتّحدة، الأمل الكبير، في الهدف المشترك المتمثّل في أنّ توثيق الصّلة بين الدّول من شأنه أن يمنع المزيد من الصّراعات. ومع ذلك، في العالم الذي نعيش فيه، تبدو النّزعة إلى السّياسات الجماعيّة والتّعدديّة كأنّها ذكرى جميلة من الماضي: يبدو أنّنا نشهد غروبًا حزينًا لحلم جوقة السّلام، بينما يسيطر العازفون المنفردون للحرب. وبصورة عامّة، يبدو أنّ الحماس لبناء هيئة أمم مسالمة ومستقرّة قد تشتت في النّفوس، بينما تنفصل المناطق، وتبرز الاختلافات، وعاد زئير القوميّات، وتشددت الأحكام واللهجات تجاه الآخرين. وعلى المستوى الدولي، يبدو أنّ للسياسة تأثيرًا في تأجيج النّفوس بدلًا من حلّ المشاكل، وتنسى النّضج الذي تمّ بلوغه بعد أهوال الحرب، وعادت إلى نوع من مرض الطّفولة في التّعامل مع الحرب. مع أنّ السّلام لن يأتي أبدًا من السّعي وراء المصالح الإستراتيجيّة الخاصّة، بل من السّياسات القادرة على النظر إلى الكلّ، إلى تنمية الجميع، والتي تهتمّ بالأشخاص، وبالفقراء وبالمستقبل. وليس بالاهتمام فقط بالسّلطة والمكاسب وفرص الحاضر.
في هذا المنعطف التّاريخي، تُعتبر أوروبا أساسيّة. لأنّها، بفضل تاريخها، تمثّل ذاكرة الإنسانيّة، وبالتالي فهي مدعوة إلى أن تقوم بالدور الذي يعود إليها: وهو توحيد المتباعدين، والتّرحيب بالشّعوب في داخلها، ولا تترك أحدًا عدُوًّا إلى الأبد. لهذا من الضّروريّ أن تجد أوروبا روحها من جديد: حماسة وحلم الآباء المؤسّسين، ورجال الدّولة الذين استطاعوا النظر إلى ما بعد زمانهم، وإلى ما وراء الحدود الوطنيّة واحتيّاجاتها المباشرة، فتنشئ دبلوماسيّات قادرة على ترميم الوَحدة، وليس على توسيع الشّقوق. أفكّر في الوقت الذي قال فيه دي جاسبري في مائدة مستديرة شارك فيها شومان وأديناور أيضًا، قال: "نحن نريد أوروبا موحّدة، من أجل أوروبا، وليس لمعارضة الآخرين... نعمل من أجل الوَحدة وليس من أجل الانقسام" (مداخلة في المائدة المستديرة لأوروبا، روما، 13 تشرين الأوّل/أكتوبر 1953). وأيضًا ما قال شومان: "المساهمة التي يمكن لأوروبا المنظمّة والحيوية أن تقدّمها للحضارة لا غِنَى عنها للحفاظ على العلاقات السّلميّة"، وهذه كلمات لا تُنتسى!: "لا يمكن حماية السّلام العالمي إلّا بجهود إبداعية تتناسب مع الأخطار التي تهدّد السّلام" (إعلان شومان، 9 أيار/مايو 1950). في هذه المرحلة التّاريخيّة هناك مخاطر عديدة؛ لكني أتساءل، وأنا أفكّر أيضًا في أوكرانيا المعذّبة، أين هي جهود السّلام الإبداعيّة؟
2. بودابست هي مدينة الجسور. ”لؤلؤة نهر الدانوب“ تبيّن من الأعلى خصوصيتها بالجسور التي توحّد أجزاءها، وتنسّق صورتها مع صورة النهر الكبير. يقودني هذا الانسجام مع البيئة إلى أن أعبّر عن سروري للرّعاية البيئيّة التي يتبعها هذا البلد بالتزام كبير. لكن الجسور، التي تربط الحقائق المختلفة، تقترح أيضًا أن نفكّر في أهمية الوَحدة التي لا تعني التّسوية. يظهر هذا في بودابست من المناطق الإداريّة المتنوعة والبارزة التي تتكوّن منها، أكثر من عشرين منطقة. حتّى أوروبا المكوّنة من سبع وعشرين منطقة، والتي تمّ إنشاؤها لبناء الجسور بين الدول، تحتاج إلى مساهمة الجميع دون التّقليل من أهميّة أيّ بلد منها. في هذا الصّدد، تنبّأ أحد الآباء المؤسّسين، قال: "ستوجد أوروبا ولن يضيع شيء ممّا صنع مجد وسعادة كلّ أمة. ففي المجتمع الأكبر، وفي انسجام أشدَّ فيه، يمكن للفرد أن يحقّق نفسه" (مداخلة مقتبسة). هناك حاجة إلى هذا الانسجام: المطلوب هو ”كُلٌّ“ لا يُفرَض فيه التّسوية على الأجزاء، وتشعر فيه الأجزاء بأنّها مندمجة تمام الاندماج فيه، بل ”كُلٌّ“ يحافظ على هويته الخاصّة. وفي هذا الصّدد، فإنّ ما ينص عليه الدّستور الهنغاري مهمّ: "لا يمكن أن تتطوّر الحرّيّة الفرديّة إلّا بالتّعاون مع الآخرين"؛ وأيضًا: "نعتقد أنّ ثقافتنا الوطنيّة هي مساهمة غنيّة في الوَحدة الأوروبيّة متعددة الألوان".
لذلك، أفكّر في أوروبّا لا تكون رهينة للأجزاء، أو تصير فَرِيسَة للشعبويّات ذات المرجعيّة الذاتيّة، ولا تتحوّل من جهة أخرى إلى واقعٍ مَائِع، أو غازيّ، وإلى نوع من سيادة مجرّدة فوق البلدان، وغافلة عن حياة الشّعوب. هذا هو طريق ”الاستعمارات الأيديولوجيّة“ المشؤومة، التي تقضي على الاختلافات، كما في حالة ما يسمّى بثقافة وَحدة الجنس، أو تقدّيم مفاهيم مختزلة للحريّة على واقع الحياة، وتتباهى مثلًا بأنّها حققت إنجازًا في ”الحقّ على الإجهاض“ الذي لا معنى له، والذي هو دائمًا هزيمة مأساوية. بينما، كم هو جميلٌ بناء أوروبّا على الشّخص وعلى الشّعوب، حيث توجد سياسات فعّالة للمواليد والعائلة، يتمُّ متابعتها بعناية في هذا البلد، وحيث الدّول المختلفة تشكّل عائلة، يتمّ الحِفاظ فيها على نموّ وفرادة كلّ واحٍد منها. أشهرُ جسرٍ في بودابست، هو جسر السّلاسل، يساعدنا على أن نتخيّل أوروبّا شبِيهَة، تتكوَّن من حلقات كثيرة كبيرة مختلفة، تجد قوَّتها في تشكيل روابط متينة معًا. الإيمان المسيحيّ يساعد في هذا الأمر، ويمكن لهنغاريا أن تكون ”جسر وَصِل“، مستفيدة من طابعها المسكونيّ الخاصّ: تعيش هنا جماعات دينيّة مختلفة من دون مخاصمات - أتذكّر اللقاء الذي عقدته معهم منذ عام ونصف -، وتتعاون باحترام، وبروح بنّاءَة. أتوجّه بذهني وقلبي إلى دَير بانونهالما (Pannonhalma)، أَحَد المعالم الرّوحيّة الكبيرة في هذا البلد، وهو مكان صلاة وجسر للأخوّة.
3. وهذا الأمر يحملني على التّفكير في الجانب الأخير وهو: بودابست مدينة القدّيسين، كما تشير إلى ذلك أيضًا اللوحة الجديدة الموضوعة في هذه القاعة. يتوجّه الفكر طبعًا نحو القدّيس إسطفانس، أوّل ملك لهنغاريا، الذي عاش في عصر فيه كان المسيحيّون في أوروبّا في شركة ووَحدة كاملة. يطلّ تمثاله، في داخل قلعة بودا، على المدينة ويحميها، وتُعَدُّ البازيليكا المكرّسة له في قلب العاصمة، إلى جانب بازيليكا إستيرغوم، أفخم المباني الدّينيّة في البلد. إذن، وُلِدَ التّاريخ الهنغاري موسومًا بعلامة القداسة، وليس الملك فقط، بل العائلة بأكملها: زوجته، الطّوباويّة جيزيلّا، وابنه القدّيس إميريكو. أخذ عن والده بعض التّوصيات، التي تشكّل نوعًا من الوصيّة الرّوحيّة لشعب هنغاريا. نقرأ فيها بعض الكلام الذي ينطبق على واقعنا اليوم: "أوصيك بأن تكون لطيفًا ليس فقط مع العائلة والأقرب، أو مع المقتدّرين والأثرياء، أو مع القريبين منك ومع السّكّان، بل مع الغرباء أيضًا". عَلَّلَ القدّيس إسطفانس كلّ ذلك بروحٍ مسيحيّة أصيلة، وكتب ما يلي: "مُمارسة المحبّة هي التي تقود إلى السّعادة الأسمى". وخَتَمَ قائلًا: "كُن وديعًا حتّى لا تُقاتل الحقَّ أبدًا" (تنبيهات، 10). بهذه الطّريقة، جمع بشكل لا ينفصل بين الحقيقة والوداعة. إنّه تعلِيم إيمان كبير: لا يمكن أن نشهد للقيم المسيحيّة بالتّشدّد والانغلاق على الذات، لأنّ حقيقة المسيح تنطوي على الوداعة واللطُف في روح التّطويبات. هنا يتجذّر ذلك الصّلاح الشّعبي الهنغاري، والذي يظهر في بعض العبارات الدارجة، مثل: ”jónak lenni jó“ [حَسَنٌ أن نكون جيّدين] و ”jobb adni mint kapni“ [العطاء أفضل من الأخذ].
من هذا، لا يظهر فقط غِنى الهويّة المتينة، بل الحاجة إلى الانفتاح على الآخرين، كما يعترف الدُّستور بذلك، عندما يقرّر: "نحترم حرّيّة وثقافة الشّعوب الأخرى، ونلتزم بالتّعاون مع جميع شعوب العالم". ويؤكّد أيضًا ما يلي: "الأقلّيّات القوميّة التي تعيش معنا، هي جزء من الجماعة السّياسيّة الهنغاريّة، وهي أجزاء مُكَوِّنَة للدّولة"، ويعتزم الالتزام "من أجل رعاية وحماية [...] اللغات والثّقافات للأقلّيّات القوميّة في هنغاريا". إنّها حقًّا رؤيّة إنجيليّة، وتتناقض مع نزعة معينة، التي تُبرَّر أحيانًا باسم التّقاليد الخاصّة وحتّى باسم الإيمان، وتنزع إلى الانطواء على الذات.
النّص الدُّستوريّ، بكلمات قليلة وحاسمة ومليئة بالرّوح المسيحيّة، يؤكّد أيضًا: "نعلن أنّ مساعدة المحتاجين والفقراء هو واجبٌ مُلزِم". يذكّرنا هذا الكلام بمتابعة حياة القداسة الهنغاريّة، التي ترويها أماكن العبادة الكثيرة في العاصمة: الملك الأوّل الذي وضع أساسات الحياة المشتركة، ثمّ الأميرة التي رفعت المبنى نحو نقاءٍ أسمى. وهي القدّيسة أليصابات، التي وصلت شهادتها إلى كلّ مكان في الأرض. إنّها ابنة أرضكم هذه، التي ماتت في الرّابعة والعشرين من عمرها، بعد أن زهدت بكلّ أملاكها، ووزَّعت كلّ شيء على الفقراء. وكرّست نفسها حتّى النّهاية لرعاية المرضى، في المستشفى الذي بَنَتْهُ. إنّها جوهرة ساطعة للإنجيل.
السُّلطات المحترمين، أودّ أن أشكركم على تعزيز ودعم أعمال المحبّة والتّربية المستوحاة من تلك القِيَم والتي بها يلتزم المجتمع الكاثوليكيّ المحلّي، والذي يقدّم أيضًا الدّعم العملي لمسيحيّين كثيرين مرّوا في مِحنَة في العالم، خاصّة في سورية ولبنان. التّعاون بين الدّولة والكنيسة مثمر، ولكي يكون كذلك، يجب المحافظة على التّمييز المناسب (بين السُّلطات). من المهمّ أن يتذكّر ذلك كلّ مسيحيّ، ويعتبر الإنجيل هو المرجعيّة، حتّى يتمسّك باختيارات يسوع الحُرَّة والمُحَرِّرَة، ولا يطلب أيّ نوع من الضّمانات بحسب منطق القوّة. العلمانيّة السّليمة أمر جيّد، على ألّا تقع في النّزعة العلمانيّة المنتشرة، التي تظهر حساسية معادية لكلّ شيء مقدَّس، ثمَّ تُضحِّي بنفسها على مذابح الرِّبح. مَن يعترف بأنّه مسيحيّ، ويرافقه شهود الإيمان، مدعوّ بصورة رئيسيّة إلى أن يشهد ويسير مع الجميع، وينمِّي روحًا إنسانيّة مُستوحاة من الإنجيل ومؤسّسة على خطَّيْن أساسيَّين: أن نعترف بأنّنا أبناء يحبّنا الآب وأن نحبَّ كلَّ واحدٍ مثل أخٍ لنا.
بهذا المعنى، ترك القدّيس إسطفانس لابنه كلمات غير عادية عن الأخوّة، قال له "يُزَيِّن البلد" مَن يَضُمّ إليه لغات وعادات مختلفة. وقد كتب: "البلد الذي له لغة واحدة وعادة واحدة، هو بلد ضعيف وآيِلٌ إلى السّقوط. لهذا أوصيك بأن تُرحِّب بالغرباء وتُحسِن وِفادَتَهم، وتُكرِّمهم، حتّى يفضّلوا البقاء عندك على كلّ مكانٍ آخر" (تنبيهات، 6). موضوع الاستقبال هذا يثير مناقشات كثيرة في أيّامنا هذه وهو بالتّأكيد موضوع معقَّد. مع ذلك، بالنّسبة للمسيحيّ، لا يمكن أن يختلف الموقف الأساسيّ عن الموقف الذي نقله إلينا القدّيس إسطفانس، بعد أن تعلَّمه من يسوع، الذي تماهى مع الغريب الذي نستقبله (راجع متّى 25، 35). علينا أن نواجه المشكلة من دون أعذارٍ أو تأخير، ونحن نفكّر في المسيح الحاضر في الإخوة والأخوات الكثيرين اليائسين والهاربين من الصّراعات والفقر وتغيّرات المناخ. إنّه موضوع علينا أن نواجهه معًا، جماعيًّا، لأنّ العواقب ستؤثّر على الجميع، عاجلًا أو آجلًا، في السّياق الذي نعيش فيه. لذلك، إنّه أمرٌ مُلِحّ على أوروبّا، أن تعمل على طرق آمنة وقانونيّة، وعلى آليّات مشتركة، لمواجهة تحدّي العصر، والذي لا يمكن إيقافه بمجرّد رفضه، بل علينا أن نقبله لكي نحضّر للمستقبل، الذي إن لم نصنعه معًا، فلن يكون مستقبل لأحد. هذا الأمر يدعو في المقدّمة الذين يتبعون يسوع ويريدون أن يقتدوا بمثال شهود الإنجيل.
لا يمكن أن نذكر كلّ المعترفين بالإيمان الكبار في بلاد بانونيا المقدّسة، لكن أودّ على الأقل أن أذكر القدّيس لاديسلاوس والقدّيسة مارغريتا، وأن أشير إلى بعض الشّخصيّات الجليلة من القرن الماضي، مثل الكاردينال جوزيف ميندزنتي، والأساقفة الطّوباويّين الشّهداء فيلموس أبور وزولتان ميزليني، والطّوباوي لازلو باتثياني-ستراتّمان. هُم، مع أبرار كثيرين من معتقدات مختلفة، آباء وأمّهات وطنكم. أودّ أن أوكل إليهم مستقبل هذا البلد العزيز عليّ. وبينما أشكركم لأنّكم استمعتم إلى ما أردت أن أشارككم به، أؤكّد قربي وصلواتي من أجل كلّ الهنغاريّين، وأفكّر خصوصًا في الذين يعيشون خارج الوطن، والذين قابلتهم في حياتي وأعطوني شعورًا جيّدًا جدًّا. أفكّر في الجماعة الدّينيّة الهنغاريّة التي شاهدتها في بوينس آيرس.
Isten, áldd meg a magyart! [بارك يا الله الهنغاريّين!]
© http://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino.html -28 aprile 2023