«Mio Signore e mio Dio!».
Tommaso è per l'evangelista il prototipo della incredulità del collegio apostolico e richiama anche l'incredulità di ciascuno di noi.
Per questo, come osserva San Gregorio Magno, la divina disposizione ha fatto sì che uno per tutti, carico delle nostre incredulità, potesse cancellarle per sempre e toccare con mano il corpo glorioso del Signore Gesù Cristo risorto.
Dio non smette di donare segni all'uomo che spengano l'incredulità che nasce dalla fragilità umana e dal peccato per condurre alla pienezza della fede.
Dobbiamo dunque essere grati a Tommaso e ai suoi dubbi che hanno suscitato una prova così "fisica" e tangibile dell'amore di Dio per noi.
Non solo, ma i dubbi dell'apostolo hanno prodotto il criterio oggettivo dell'atto di fede che consiste nel pronunciare con le labbra e la vita, nella passione del cuore, questa frase:
"Mio Signore e mio Dio!".
Non una affermazione di fede generica fatta ad un'idea di Dio o ad una concezione costruita di Dio ma a Cristo Risorto e glorioso.
Significa credere veramente che Egli è vivo ed è il vivente, anzi la vita che dona la vita.
È Cristo Signore!
È il tuo Signore!
E da come vivi questa affermazione si vede la tua fede. Da come vivi il quotidiano, la resa, i tagli, i cambiamenti, la fedeltà, il tuo stare in Lui dove Lui ti ha posto o lo stare dove Lui ti chiama.
L'atto di fede sancito dalla beatitudine proclamata da Gesù "beati quelli che, pur non avendo visto, crederanno" è dunque questo: "Mio Signore e mio Dio".
Significa riconoscere Cristo pienamente Dio e Signore della mia esistenza e della mia vita che è strappata al caos e alla sofferenza e già vive gloriosa in Cristo.
Significa che non si può essere cristiani e affidarsi a devozionismi esoterici e tanto meno a magie, esoterismi, pratiche occulte, divinazioni, credenze new age su re-incarnazioni varie, karma, mandala, ecc.
Egli è il Risorto, con la sua vera carne, la vera volontà e la pienezza della divinità.
Questo corpo glorioso che porta i segni con cui mi ha amato sarà anchè il mio corpo e il "mio destino", non più soggetto a corruzione e alla debolezza ma aperto alla gioia.
"Andiamo a morire con Lui!" (Gv. 11,16)
Qui, nel dito di Tommaso (guidato da dentro e da fuori) che tocca il costato, nasce la vera devozione che illumina tutte le pratiche di Pietà nell'unico e vero atto di fede:
"Mio Signore e mio Dio!".
Questa affermazione, anche solo pronunciata con le labbra, costantemente, e con la volontà ferma di aderirvi col cuore e con la vita, conduce l'uomo alla sua maturazione e alla sua glorificazione preventiva. Lo conduce al dono di sé in Cristo e per Cristo. Lo matura, lo inserisce a piene mani nel cogliere le infinite grazie battesimali.
È affermazione che nasce dal gorgoglio dello Spirito seminato nei nostri cuori e che va assecondata per educare il cuore stesso, la volontà, l'intelletto e lo sguardo.
Affermazione, dunque, che slega i Sacramenti e ne fa toccare tutte le cellule dell'anima e del corpo. Educa il corpo, la mente, la vista, lo Spirito.
Se c'è un ritornello, un refrain, un riff musicale, un inciso che ritma la creatura è questo: "Mio Signore e mio Dio!" che si compie nella parola della Parola, nella nota perfetta, nell'anelito pieno, nel battito trepidante della creatura: "Abbà, Padre!".
Per questo i santi, come Francesco di Assisi, si leccavano le labbra al solo pronunciare il nome di Gesù, perché, il credente, è colui che grida, con voce o silenzio, con le azioni o la passività, con la fama o l'esilio, con la gioia o nella prova estrema del dolore e della morte:
Gesù tu sei il mio Signore e il mio Dio!
In te, ora, posso dire "Abbà, Padre nostro". Amen!
Paul Freeman