Rassegna stampa formazione e catechesi

Sull’attaccapanni del ricco Epulone

di PRIMO MAZZOLARI

riccoepulone 2«C’era un uomo ricco che vestiva di porpora e bisso» (Luca, 16, 19). L’abito non fa quaresima. Ce lo dice il profeta Gioele nella lettura della messa delle Ceneri: «Laceratevi il cuore e non le vesti» (2, 13). Il Vangelo lo conferma: «Quando digiuni, profumati la testa» (Matteo , 6, 16). Chi vestisse solo di saio o si cospargesse di ceneri, potrebbe essere annoverato fra coloro che lavano il piatto dal di fuori. Molti di noi si appoggiano volentieri a queste parole, come a dei tranquillanti.
Non c’è nostra grama voglia, che non sia in cerca di una giustificazione scritturale. Vestire è un bisogno dell’uomo: vestire pulitamente e sufficientemente, un diritto che conviene al pudore e alla dignità dell’uomo. Vestire bene non è un peccato: e se non viene deviato da cattivo intendimento, aggiunge grazia, distinzione, prestigio, autorità. Dio veste di bellezza incomparabile perfino le erbe e i fiori del campo, «che oggi sono e domani no» (Matteo , 6, 30); ma per vestire le sue creature, non toglie a questa o a quella. Ognuna è vestita come comporta la natura, e ognuna, nel suo genere, è così bella e preziosa da reggere al confronto con le altre e non desiderare di meglio. Agli uomini il Signore ha lasciato l’incarico di provvedere il proprio vestito: e subito, come per il pane, è cominciato l’affanno, il perdimento, l’ingiustizia. «Non preoccupatevi del vestito. Guardate i gigli del campo: essi non filano, eppure, io vi dico che neanche Salomone andò vestito come uno di essi» (Matteo , 6, 28-29). Più che sul vestire, l’affanno di molti è sul come vestire, per l’esagerata importanza che diamo all’abito e alla «desiderabilità» che può aggiungere alla persona, procurandogli prestigio o autorità o incanto, sia che accresca o che supplisca i doni naturali dell’ingegno, della virtù, dell’avvenenza. Così incomincia la metamorfosi dell’uomo in attaccapanni. Contate quante volte in un giorno una persona cambia di abito e avrete l’esatta misura della sua inconsistenza o della sua mancanza di peso umano. Essa ha la portata del suo attaccapanni: vale quanto il suo guardaroba. Di questo fenomeno comunissimo pochi avvertono l’avvilimento che mette sulla persona umana: c’è, anzi, un modo di guardarlo che favorisce la moltiplicazione degli attaccapanni. A un attaccapanni non si può rendere che l’onore dell’attaccapanni: come a un portaceneri e a un portafogli non si può rendere che l'onore dei portaceneri e dei portafogli. È vero che «vestire gli ignudi » è un’opera di misericordia corporale: ma i rapaci, a modo loro, hanno appreso bene anche questa arte, e la fanno rendere. Ecco una domanda che fa tremare: «Chi ti veste?». Parecchie donne non rispondono: qualcuna china la testa, e arrossisce. «Mi veste mio marito». Nulla da dire, finché il marito, per vestir troppo bene la moglie, non mi faccia camminare nudo qualcuno dei suoi dipendenti. «Io lavoro per vestirmi». Sta bene: ma intanto porti via il pane a una ragazza, che non ha un attaccapanni dietro, ma una casa. A questo punto l’inno cenza dell’attaccapanni comincia a essere in sospetto, se per sua colpa la pena e la disuguaglianza aumentano la loro ombra sul mondo. Il ricco Epulone può «vestire di porpora e di bisso» come gli piace: i fautori della produttività che si fonda anche sullo spreco, possono considerarlo un pioniere della nuova economia; ma sino a quando alla porta del suo palazzo c’è Lazzaro, il malvestito, e l’ulcerato, anche l’attaccapanni, che accentua questa sua miseria e fa gola a tanti più del buon nome, deve fare un po’ di quaresima. La penitenza è uno stato d’animo che pare non abbia rapporti col saio e col sacco dei tempi andati: però, si fa fatica a pensare che dei cristiani non abbiano disgusto di una vanità che ci toglie di vedere migliaia e migliaia di «ignudi» o di poco vestiti, e che dimenticano una delle «voci» del giudizio che ci aspetta: «ero nudo e tu non mi hai vestito» (Matteo , 25, 36).

© Osservatore Romano - 2 marzo 2016