Rassegna stampa formazione e catechesi

I silenzi di Dio

silenzi di Diodi JOSÉ BELTRÁN

Silenzio. In mezzo alla moltitudine. Con due milioni di giovani. Sembra una contraddizione. Ma non è Woodstock. È Cracovia. Giornata mondiale della gioventù. Tempo per l’incontro e la gioia traboccante. Momenti per la celebrazione. Ma anche per la quietudine tra la folla. Pause che mi avvolgono, che vedo coinvolgere altri che mi stanno accanto. Per ascoltare e lasciarsi ascoltare. Per accogliere la voce dei senza voce.
Una giornata mondiale per stare in silenzio. Perché davvero la generazione 2.0 prenda la redini di un mondo che ha bisogno delle Beatitudini, della misericordia incarnata in un impegno reale. Per azzittire la violenza e l’ingiustizia. Silenzio. A Częstochowa. Un’Avemaria. Dal fondo della basilica. Riesco appena a distinguere l’icona. La gran folla rende impossibile avvicinarsi di più. Ma non è necessario per riposare alcuni minuti. Ignoro il mormorio, noto solamente riposo. Quello di abbandonare le preoccupazioni tra le braccia di una madre. Come avrebbe fatto Giovanni Paolo II. Silenzio. Quando entro per errore durante una catechesi in francese mercoledì [27 luglio] mattina. Qualche ora dopo l’assassinio in Normandia. I pellegrini ascoltano con attenzione un vescovo. Non riesco a riconoscerlo. Ma le sue parole sì sono facilmente comprensibili: no alla violenza, no alla vendetta. Solo misericordia. Il sacramento della riconciliazione portato all’estremo. Non vi è altra arma. Una parrocchia trasformata in scuola di perdono per educare a caldo giovani consapevoli che la minaccia jihadista non è uno scherzo. Ellissi. Silenzio. Auschwitz mi lascia senza parole. Come tutti. Quando passiamo sotto la scritta: «Il lavoro rende liberi». La confusione del pullman svanisce quando qualcuno comincia a leggere le preghiere di Hettie Hillesum e si vede il binario che porta verso la Shoah. Cammino dove camminerà Francesco fra due giorni. Alzo lo sguardo e vedo un cartello con il nome di Massimiliano Kolbe. Dare la vita per uno qualsiasi, per tutti, per il diverso. Martire per amore. Ogni tentativo di dar conto di ciò che si prova camminando per il campo di concentramento suona come un artificio letterario. Solo chi è morto lì può narrare l’orrore. Come Edith Stein. Nel pozzo dell’abbandono non ha avvertito l’abbandono di Dio. Sento una pellegrina diciottenne chiedersi: «Ma a questa gente cosa passava per la testa?». Pochi passi e ascolto un’altra riflessione simile. Vedono tutto lontano. Come se non fosse con loro. E io lo avverto più vicino. Forse contagiato da altri fili spinati che continuano a esserci. Da altri genocidi, non così di massa, ma altrettanto taciuti. Per mancanza di memoria. Il Papa lo rivendicherà: «La crudeltà non è finita ad Auschwitz, a Birkenau: anche oggi, oggi si tortura la gente». Mutismo. Davanti alla camera a gas. Davanti ai crematori. Che i partecipanti alla giornata mondiale si fermino ad Auschwitz e Birkenau è un imperativo per non dimenticare. Perché non si rip eta. Silenzio. Nella chiesa di San Szczepan. Ora di pranzo. Quartier generale a Cracovia della comunità di Taizé. Vedo giovani calmi, non addormentati. Dialogo interiore con colui che ha convocato questa maratona di fede. Nella quietudine lo scopro e lo tocco. Nell’ecumenismo lo si sente come una brezza. Nella musica si tocca la fraternità. Alla fine, una giovane si avvicina a uno dei fratelli. Gli chiede la benedizione. La riceve. Ma non finisce qui. Lui chiede che lei faccia altrettanto. La rende corresponsabile. Benedire è una missione condivisa. Silenzio. Prima stazione della via crucis nel parco di Błonia. «È stato condannato in trentamila rifugiati. Condannato. Da chi? Chi firma questa sentenza?». Le riflessioni del vescovo ausiliare di Cracovia. L’ingiustizia e le atrocità ammutoliscono i pellegrini. «Esistono domande — medita il Vescovo di Roma — per le quali non ci sono risposte umane. Possiamo solo guardare a Gesù, e domandare a lui. E la risposta di Gesù è questa: “Dio è in loro”, Gesù è in loro, Gesù soffre con loro». Vedo lacrime al mio fianco. Volti preoccupati. Empatia. Spero che non si cancellino al ritorno a casa. È la stessa preoccupazione del Papa: «Nell’accoglienza dell’emarginato che è ferito nel corpo, e nell’accoglienza del peccatore che è ferito nell’anima, si gioca la nostra credibilità come cristiani. Non nelle idee. Se uno non vive per servire, non serve per vivere». Silenzio. Nel mio sacco a pelo. Alle undici di sera. Sotto il cielo stellato. Dopo la veglia nel campo della Misericordia. Quando la stanchezza mi sopraffà e solo risuona nelle mie orecchie un nome: Rand. Rimbomba come se fossi stato tutta la notte attaccato a un altoparlante in una discoteca di Ibiza. Non ci sono voluti tanti decibel perché penetrasse fino alle ossa. Solo la sua parola vitale. Una vittima della guerra in Siria, una «città dimenticata». In prima persona. Porta con sé la memoria dei suoi amici morti che oggi non la possono accompagnare nel campo della Misericordia: Antoine e William. «Ci hanno rubato i nostri sogni». Inquietudine. Di fronte allo Stato islamico, il Papa presenta un itinerario senza incertezze: «Non ci metteremo a litigare, non vogliamo distruggere». Fraternità, comunione, famiglia. Bergoglio scuote i giovani perché si liberino di ogni guerra, anche di quelle interiori. «Con gli scarponcini calzati». Per sfuggire alla «paralisi» del «divano». Qualche sorriso complice quando evoca la tentazione di restare prigionieri di un divano comodo, in un ambiente confortevole. Tutti lo capiscono. Non basta più far confusione. Ora bisogna impegnarsi per cambiare il mondo: il «nostro Dio ci invita a essere attori politici, persone che pensano, animatori sociali». Silenzio. Nella messa conclusiva. Attenti alle parole di un uomo che è entrato in connessione con loro. Condividono il wi-fi. Oppure, ed è lo stesso, Francesco si china per utilizzare i codici della generazione selfie, ma senza abbassare le esigenze del Vangelo: il miglior contatto del l’agenda non è altri se non Gesù e la preghiera non è un “messaggino”, ma la chat principale della vita. È il programma che propone il Papa per essere felici: fuggire le false anestesie, il doping del successo, il «maquillage dell’anima». Perché la giornata mondiale non resti rinchiusa nel pullman di ritorno. Silenzio. Mentre me ne vado dal campo della Misericordia. Diversi chilometri a piedi. Tutti insieme. Qualche svenimento. La temperatura si è alzata moltissimo. All’i m p ro v v i s o il tempo cambia. Comincia a piovere. Al mio fianco cammina una giovane coppia. Lui porta uno dei figli in braccio. Lei spinge il passeggino. «Che coraggio!» esclamo. Gusti, che mi accompagna, risponde: «Potrebbe essere l’immagine delle migliaia di migranti che vagano per l’Europa. La differenza è che noi sappiamo dove andiamo. Loro no». Lapidario. Silenzio. In fila all’aeroporto. Sono le due del mattino. La giornata mondiale è finita. Ed è finito il viaggio di Francesco in Polonia. Ma non la giornata di quelli che accompagnano i giovani: il vescovo, il sacerdote, la suora o l’insegnante. Su questo ha insistito il vescovo di Quilmes, Carlos José Tissera, responsabile della pastorale giovanile in Argentina. L’ho incontrato in una catechesi nella parrocchia degli scolopi a Cracovia e gli ho detto delle mie paure come catechista: «Conosco i frutti di una giornata mondiale, l’ho sperimentato in me stesso e con quanti l’ho vissuta a Parigi, Colonia e Madrid. Ora anche a Cracovia. Anche così, c’è sempre la tentazione di domandarsi se valgono la pena un così massiccio spiegamento di mezzi e tante preoccupazioni». Tissera mi guarda e mi risponde con un sorriso ammiccante. «Non credere che questi incontri di massa li abbiamo inventato adesso. Lo vediamo nella vita di Gesù. Anche lui ha incontrato le folle, al discorso della montagna o alla moltiplicazione dei pani. Il Signore compie la sua opera in questi incontri di massa, che tra l’altro ci rendono consapevoli di essere tutti uno stesso popolo. I grandi eventi rafforzano i processi e la pastorale del quotidiano. Poi, a casa nostra e nella vita di tutti i giorni ce la giochiamo». Così, la confusione fatta con la giornata mondiale ha senso nella misura in cui continua il primo settembre in ogni quartiere e in ogni paese. In questo modo, la bolla dei due milioni di giovani riuniti per una settimana a Cracovia non è solo rumore. Ha senso come una festa di fede all’interno di un’agenda, quella della pastorale giovanile che inizia dal ritorno a casa. Per integrare nella vita i silenzi della giornata mondiale. Per dar senso ai silenzi di Dio.

© Osservatore Romano - 10 agosto 2016

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